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Autore: _Lightning_    29/01/2024    3 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
 
       

          

          BENIAMINO Iannello ha esattamente l’espressione che ci si aspetterebbe di vedere sul volto di un uomo arrestato per omicidio: angustiata, fitta d’ombre violacee per l’insonnia e dello stesso colore di uno straccio maltrattato. Dimostra molto più dei ventinove anni che dice di avere. Nell’ambiente umido e attufato della cella, appare ancor più smorto, gli angoli del corpo accentuati dalla sua posizione ripiegata, seduto sulla branda coi polsi poggiati sulle ginocchia ossute.

Alza di scatto gli occhi di un verde-marrone al cigolio della porta che si apre e, nel vedere lui, prima, e il brigadiere subito dietro, porta una mano a sorreggersi la fronte, ravviandosi le ciocche scomposte di capelli rossicci, alzati in ciuffi sulle tempie. A vederlo, così mezzo rannicchiato nella penombra, col volto appuntito e il naso pronunciato, gli occhi schivi e sospettosi, sembra una volpe presa in una tagliola. Lo sente trattenere un sospiro esausto: Ricciardi si chiede quante volte lo abbiano già interrogato, e in che modo, anche se non gli sembra di vedere segni di violenza.

Lancia una rapida occhiata alla cella, una stanza quadrata e asfittica con a malapena posto per una brandina e un secchio nell’angolo. Una finestrella a livello con la strada lascia passare qualche filo di luce grigiastra, assieme a volute di polvere che rilucono nella luce smorta. Non l’ha fatto portare nella stanza interrogatori apposita, preferendo parlargli in una parvenza di riservatezza, anche se il secondino origlia di certo oltre la finestrella blindata. Non ha incontrato resistenze, su quel punto: dall’alzare di sopracciglia complice che gli ha rivolto la guardia penitenziaria, corredato da un occhiolino affatto discreto, forse pensano che vogliano “calcare la mano” con l’arrestato senza sguardi molesti addosso. Il pensiero di venir scambiato per uno di loro lo rivolta, ma non è il momento per dar peso alle apparenze.

«Signor Iannello?» esordisce, con voce ferma ma non troppo alta.

Lui annuisce e basta, coprendosi gli occhi con la mano. Indossa dei vestiti da viaggio, nota Ricciardi, con scarpe robuste, spessi pantaloni da lavoro e una camicia di flanella col fazzoletto al collo. Che fosse in procinto di partire gli sembra indubbio.

«Sono il commissario Ricciardi,» si presenta poi, in tono conciliante, «il mio collega è il brigadiere Maione. Siamo qui per ascoltarvi.»

«Lo immaginavo,» risponde lui, con voce profonda che cozza col suo aspetto mingherlino.

Pare non notare la scelta della parola “ascoltare” rispetto a “interrogare”, forse per la stanchezza accumulata dai giorni di attesa disagevole al porto e, poi, per la mezza nottata passata in quella cella.

«Sono ancora accusato di omicidio?» chiede poi, sollevando lo sguardo con lentezza, quasi conoscesse la risposta alla domanda, ma la temesse egualmente.

Ricciardi nota che parla solo con una lieve inflessione dialettale; forse non è nemmeno di Napoli. Anche alla guardiola ha visto che ha compilato e firmato di suo pugno i documenti d’attestazione d’identità. Deve avere almeno il diploma delle elementari, e gli viene spontaneo chiedersi come sia piombato in quella miseria così nera.

«Temo di sì,» risponde poi, serrando un polso dietro la schiena, in piedi dinanzi a lui.

Iannello non dà segno di volersi alzare e fa piombare di nuovo il capo in avanti con un mormorio incomprensibile, al colmo della prostrazione. Ricciardi lo osserva per quasi un minuto intero, a fugare ogni dubbio. La sua corporatura ossuta dovrebbe fornire tutte le risposte che servono: per ammazzare Gigliolo non lo avrebbe certo scaraventato su un tavolo, anche se le braccia nervose suggeriscono una certa forza, forse a causa di ripetuti lavori manuali. Pare anche abbastanza scattante e agile da potersi infilare in scioltezza in un cunicolo sotterraneo.

Ciononostante, giunge alla stessa conclusione cui era giunto dopo aver interrogato sua moglie Assunta: non è Beniamino Iannello, l’uomo che stanno cercando; né per l’omicidio di Gigliolo, né per quello di Annina. Scambia un’occhiata d’intesa con Maione, per poi dare lui stesso inizio all’interrogatorio come da prassi:

«Voi conoscevate il colonnello Fernando Gigliolo?»

Iannello scuote stanco la testa.

«No, l’ho ripetuto anche ai vostri colleghi,» dice, strascicando la voce; poi rialza il capo di colpo, gli occhi febbrili: «Vi prego, non sono stato io! Non so nemmeno com’era fatto, questo Gigliolo!»

«Calmatevi,» lo richiama all’ordine Maione, scoccando un’occhiata alla porta. «Dare spettacolo non vi scagionerà.»

«Non siamo qui per accusarvi,» aggiunge Ricciardi, più posato.

«E per cosa, allora? Pare che abbiano già tutti deciso che sono colpevole! Mi hanno prelevato al porto come un criminale... non sembravano nemmeno poliziotti!»

«Siamo qui per farvi delle domande,» riprende Maione, facendosi avanti di un passo. «E, vista la vostra situazione, vi conviene rispondere a tutte e collaborare, se non volete fare una finaccia.»

Iannello sgrana gli occhi, di nuovo intimidito. Ricciardi alza un palmo deciso ad ammansire il collega e Maione si ricompone, le narici che fremono. Pare ancora su di giri per tutta la faccenda di Annina e di quel giro losco di bambini: si lascia prendere la mano, quando è emotivamente coinvolto, ma spaventare Iannello non porterebbe a nulla. Si rivolge di nuovo all’arrestato, in modo più formale:

«Avete sempre lavorato per i Vinciguerra?»

Lui sembra spaesato per il cambio d’argomento, ma risponde con prontezza:

«Sì, commissario, sin da ragazzo. Il signor Renato, il padrone, è stato compagno d’armi di mio padre a Vittorio Veneto. A Vinciguerra l’hanno pluridecorato, ma lui ci scherzava e diceva che era solo per il nome. Mio padre invece stava nelle retrovie. Manco una medaglia, gli hanno dato, e ha pure perso una mano. Era carpentiere, non poteva più lavorare e quindi ho mollato la scuola per aiutarlo. Il signor Renato l’ha assunto pure se era monco, perché gli aveva salvato la vita in guerra. Dopo di lui ha preso a servizio mia moglie e faceva fare a me qualche lavoretto di manutenzione, che sono carpentiere pure io.»

Maione freme sul posto, le vene del collo che si gonfiano man mano che Iannello prosegue nel racconto, per poi sbottare come una caldaia che rilascia vapore fischiando:

«Disgraziato! Siete andato a derubare la mano che v’ha nutrito?» commenta aspro, suscitando un nuovo sussulto in Iannello. «Non negate: lo sappiamo, che voi e la vostra cara consorte vi siete intascati qualcosa.»

«Brigadiere, non siamo qui per questo,» lo richiama ancora Ricciardi, scoccandogli un’occhiata dura, per poi abbassare la voce: «Modera i toni o vai ad attendermi fuori.»

«No, commissario, il brigadiere tiene ragione,» sospira Iannello, con occhi d’un tratto tremuli. «Ho avuto vergogna, nel farlo, ma... ma i soldi non bastavano, con quattro bocche da sfamare, e non potevo chiedere di più al signor Renato. Non se n’era nemmeno accorto, degli ammanchi, finché non l’hanno derubato davvero.»

«Vostra moglie ha detto che non se n’è mai accorto e che ha licenziato tutti in tronco per il furto grosso di qualche tempo fa,» gli fa notare Ricciardi.

«È quello che sa lei,» annuisce Iannello, tirando piano su col naso. «Il signor Renato mi ha preso da parte, il giorno del licenziamento generale. Ha detto che l’aveva sempre saputo, dei miei furtarelli, e che aveva chiuso un occhio. Ma che dopo quella rapina non poteva più fidarsi, che gli erano spariti i gioielli di famiglia e pure una medaglia al valore. E che quindi, a me licenziava solo per il primo fatto: perché, se non avessimo già rubato a lui, avrebbe licenziato tutti tranne me e mia moglie. Per rispetto di mio padre, pace all’anima sua.»

Ricciardi incrocia le braccia, con un sospiro nascosto rivolto sia all’ingratitudine di Iannello, sia alla punizione sproporzionata, quasi crudele, inflitta dal suo benefattore. Rimane sempre amareggiato, ogni volta che si ritrova a scostare il velo sulle miserie umane, trovandovi alla radice sempre le solite due ragioni: la fame o l’amore. In questo caso, la fame, duramente punita. Riporta il discorso sui suoi binari:

«Appurata la questione dei furti... che voi sappiate, Renato Vinciguerra conosceva Fernando Gigliolo?»

Iannello si umetta le labbra, scoccando occhiate nervose tra loro. Prende a stuzzicarsi i calletti sulle dita.

«Signor Iannello, parlate liberamente,» interviene Maione, di nuovo con voce misurata e adocchiando la porta con fare significativo.

Ricciardi gli fa un cenno d’approvazione nascosto, un semplice guizzo delle pupille. Iannello pare rincuorato, nell’intuire che, forse, non siano in diretta collaborazione con chi l’ha fatto portare lì, ma parla comunque in modo guardingo:

«So che si conoscevano e che avevano prestato servizio insieme pure loro; non con mio padre, lui l’hanno arruolato l’ultimo anno di guerra come riserva. Vinciguerra e Gigliolo si sono incontrati subito dopo Caporetto, da quanto so, quando hanno accorpato tutte le divisioni degli sbandati.»

«Un momento.» Ricciardi alza d’istinto una mano a frenarlo, con un picco d’interesse. «Erano tutti e tre commilitoni? Vinciguerra, Gigliolo e vostro padre?»

Iannello annuisce convinto. Ricciardi scambia uno sguardo con Maione, che lo restituisce con inaspettata rassegnazione.

«Io a De Blasio lo ammazzo, commissa’,» borbotta, rivolgendosi poi a Iannello a voce più alta: «Dite, non è che, per caso, pure un tale Pascale e D’Angelo erano commilitoni suoi?»

Iannello annuisce di nuovo; Ricciardi è convinto che a Maione stia per saltare il berretto dalla testa per la collera, che sembra rimasticare tra i denti in insulti trattenuti. Iannello, fortunatamente, parla al momento giusto:

«Pascale… perdonatemi, non ricordo il nome; lui l’ho visto un paio di volte, ma Antonio D’Angelo ci faceva visita abbastanza spesso. Lui e il signor Renato erano buoni amici, da quanto mi pareva.»

«E Gigliolo, invece?»

Iannello scrolla le spalle, di nuovo titubante a parlare di chi lo si accusa di aver ucciso; poi si fa forza:

«Io non l’ho mai visto di persona, questo Gigliolo. Ve lo giuro. Come dicevo, il signor Renato s’intratteneva spesso coi suoi ex-commilitoni a casa propria. Io e Assunta li conoscevamo quasi tutti almeno di faccia. Gigliolo veniva menzionato spesso, ma non s’è mai presentato, che noi sappiamo, anche se lo invitava sempre.»

«Sapete pure come mai?»

«Commissario, io sono carpentiere. Riparo i tetti e le stalle, non sto a origliare alle porte.» S’interrompe, agitato, poi deglutisce, stuzzicandosi le unghie. «Però, una volta, il signor Renato ha detto a sua moglie che il signor Gigliolo, e sono abbastanza sicuro parlasse di lui, era perseguitato da un “grande dolore”, e per questo s’era recluso dopo la guerra.»

Ricciardi trattiene un sussulto, con una sgradevole sensazione addosso, come di una colata di fango gelido che gli si insinua sotto al colletto, nel sentire quell’espressione per lui tanto familiare riferita a Gigliolo. Maione lo scruta di sottecchi, dando a intendere che non ha mascherato al meglio la propria reazione. È lui a riprendere le redini dell’interrogatorio:

«Ha a che fare con sua moglie Caterina, questo suo “grande dolore”?»

Ricciardi concorda col prendere la domanda alla larga: il loro figlio nato morto non sembra essere di dominio pubblico. Iannello scuote rapido la testa e pare quasi sul punto di sbuffare:

«Brigadiere, ma che ne posso sapere io? Io questo ho sentito e questo riferisco.»

Ricciardi coglie l’occhiata questionante di Maione e fa impercettibile cenno di “no” col capo: non gli sembra che stia mentendo e non ne vede il motivo, considerando la sua situazione a un passo dalla galera a vita, o peggio. Il brigadiere ricade allora nell’espressione arcigna di chi sta faticando molto a mostrarsi posato:

«Signor Iannello, ancora una domanda, e vediamo se questo lo sapete: c’erano dei bambini impiegati presso la famiglia Vinciguerra, o sbaglio?»

Iannello si fa di nuovo attento annuisce piano, sfregando tra loro le mani callose.

«Sì, un paio. Due fratelli, maschi. Stavano con le donne, però; credo se li portassero a turno a casa propria a fine giornata.»

«Quindi la famiglia li accoglieva per buon cuore e poi li delegava ai propri stessi domestici?» Ricciardi anticipa la domanda pungente di Maione, probabilmente in modo non molto più conciliante del suo.

«Commissario, non ci facevo troppo caso; di bambini ne ho già quattro miei e stavo andando all’America per sfamarli, prima di essere sbattuto qua dentro,» dice Iannello, con rinnovata foga. «Stavano lì da un paio di mesi, comunque, per non so quale iniziativa di carità... dovevano imparare un mestiere, o qualcosa del genere. Gli ho insegnato a usare la pialla e il punteruolo e tant’è. Non so che fine hanno fatto dopo, tenevo problemi più urgenti.»

«E non ha visto nessuno negoziare per questa iniziativa? Un monaco, magari? O una persona piuttosto che spiccasse per altezza e mole?»

Iannello scuote ancora la testa.

«Non lavoravo fisso dai Vinciguerra, però, può pure essermi sfuggito.» Fa una pausa apprensiva, torcendosi le pellicine. «Ma mi state mica accusando di qualcos’altro?»

«No, signor Iannello, non preoccupatevi,» replica Ricciardi, inclinando appena il capo. «Né di questo, né del resto,» soggiunge, a voce appena più bassa.

Vede un formicolio di speranza accendersi negli occhi dell’uomo.

«Vi prego, commissario. Io non c’entro niente, con questo macello,» balbetta con le mani giunte dinanzi a sé in quella che è una sorta di preghiera.

Ricciardi spera di poterla esaudire, anche se forse ha peccato di superbia, nel rassicurarlo.

Quando il secondino chiude dietro di loro la porta con uno sferragliare cupo di chiavistelli, Ricciardi è quasi soddisfatto: quell’interrogatorio di circostanza impostogli da Falco non si è rivelata una completa perdita di tempo, almeno, e hanno una nuova pista da seguire. O meglio, la pista degli ex-commilitoni si è appena fatta più battuta e meno ardua da intraprendere. Si avvia in coda al secondino lungo un percorso diverso da quello seguito all’andata, così da passare presso gli uffici per approntare i carteggi necessari all’arresto di Iannello in serata. Non vi si può sottrarre; spera solo di essere più rapido di loro.

Stanno percorrendo un lungo corridoio su cui si affacciano altre celle, quando si blocca nei propri passi. Un brivido noto e violento gli risale la schiena, afferrandogli la nuca. Volta di scatto il capo e, oltre il quadratino aperto di una finestrella, incontra gli occhi bianchi di un fantasma.

«Basta! Non ho fatto niente! Basta! Basta!»

La voce dell’uomo riecheggia potente, la bocca tumefatta e imbrattata di sangue che si spalanca e digrigna in un eterno serrarsi di denti spaccati. Ha il volto gonfio, irriconoscibile sotto lo strato di lividi e lacerazioni feroci che lo segnano, il naso schiacciato e storto da un colpo violento. Lo fissa, senza vederlo, le mani che si alzano a ripararsi prima di crollare a terra e sparire alla vista. Poi, uno sfarfallio fulmineo, ed è di nuovo in piedi, a urlare a pieni polmoni:

«Basta! Non ho fatto niente! Basta! Basta!»

Ricciardi recide sul nascere il pensiero che gli sta per affiorare in testa e affretta il passo con uno strappo di tendini contratti, ignorando l’occhiata interrogativa di Maione a quel suo gesto repentino. Ne scocca lui una gelida alla guardia di posta là accanto, alla sua divisa pulita e ben stirata, magari lorda di sangue fino a poco prima, al manganello che porta alla cintura. Incrocia i suoi occhi per una frazione di secondo, trovandovi solo stolida impassibilità. Si morde la lingua per non lasciarsi scappare alcun insulto, anche se li sente pungergli la gola.

Nel mettere infine piede fuori da quel luogo opprimente, gli sembra di essere riemerso da una lunga apnea in uno stagno gelido.

«Maione,» prorompe, troppo brusco, «vai in Questura e convoca la moglie di Gigliolo entro il primo pomeriggio. Dovrebbe essere ancora a Napoli per i funerali del marito.» Sono oggi, in realtà, ma evita di menzionarlo. «Voglio vederci chiaro, su questa storia della carità di cui non sapeva niente e sui veri rapporti di Gigliolo con l’Annunziata. Ci rivediamo a mezzogiorno davanti alla Casa del Mutilato, ché abbiamo un paio di cose da controllare pure là, mi pare.»

«Pare pure a me, commissario,» concorda, annuendo con forza. «Voi, però, dove andate?»

Lo chiede con una traccia d’apprensione malcelata. Ricciardi stringe i pugni nelle tasche, esalando un respiro che tenta di rendere muto.

«A fare qualcosa di molto avventato,» risponde soltanto, incamminandosi già.

Maione lo scruta fisso, ma non inquisisce oltre, stringendo solo le labbra in una linea tesa mentre lo segue dappresso.

«Non tenevo dubbi, commissa’,» dice soltanto, in un sospiro.

Ricciardi si frena dal lasciargli disposizioni nel caso dovesse mancare l’appuntamento a mezzogiorno, anche se sarebbe sensato farlo, con l’OVRA alle costole. Si concede però, suo malgrado, di completare il pensiero stroncato pochi minuti fa, all’interno del carcere: che quell’uomo morto ammazzato di botte nella propria cella potrebbe benissimo diventare Iannello, se non chiudono il caso alla svelta.

O Bruno, se lui compie un singolo passo falso.

 


 


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
eccoci tornare di gran carriera sulle piste del caso e dal povero Iannello.
Se la situazione di Bruno e Ricciardi non è rosea, la sua forse è ancora peggio, ecco. #prayforIannello
Questo capitolo ha un'ulteriore parte, perché siamo arrivati alla sezione "corposa" della storia, in cui iniziano a raccordarsi i vari fili sparsi e quindi volevo evitare di fare infodump di 8.000 parole, ma vi avviso che ci saranno vari altri interrogatori, un po' di ricerca sul campo e varie elucubrazioni per venire a capo di un paio di questioni in sospeso. Fine del teaser ;)
Grazie mille a tutti coloro che continuano a leggere, seguire e commentare questa storia ♥

-Light-

 

   
 
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