Serie TV > Il Commissario Ricciardi
Segui la storia  |       
Autore: _Lightning_    02/02/2024    3 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3


 
          Le porte dell’Annunziata sono chiuse.

Mentre se ne sta là davanti in cima allo scalone d’accesso, a imprecare tra i denti, Ricciardi si sente sotto il tiro di mille cecchini.

Scocca un’occhiata rapida attorno a sé, ai tetti che circondano quel cortile deserto, se non per un capannello di ragazzini intenti a saltar dentro e fuori dal vascone della fontana centrale in ventagli di spruzzi. Si sente formicolare la nuca, come se avesse gli occhi acuti di Falco appuntati addosso, a scrutare ogni suo passo e movimento.

Si è mostrato spavaldo ieri, con Bruno, e stamattina con Nelide e Maione, ma la verità è che si sente già un morto che cammina. È consapevole d’aver bisogno di supporto, di una figura a cui poter chiedere protezione; ma una parte di sé dubita che vi sia qualcuno davvero in grado di proteggere lui e Bruno, se l’OVRA dovesse decidere di agire contro di loro.

Il medico, nel suo cinismo, non ha torto: il regime ha fatto sbattere in manicomio o in prigione gente molto più di rilievo di loro, negli ultimi anni, e ne ha fatta trucidare altrettanta.

Una persona che potrebbe intercedere c’è, in verità, ma si vergogna al sol pensiero di presentarsi di nuovo alla porta di Livia per chiederle un favore. Oltre al fatto che l’ombra di Falco gli appare sin troppo vicina a lei, per poter davvero approcciarla in tranquillità.

Fa un paio di passi nervosi davanti al portone inamovibile dell’istituto, mordendosi l’interno della guancia. Anche solo stare lì significa mettersi un mirino di fucile all’occhiello, sebbene si sia impegnato a percorrere la via più tortuosa e imprevedibile che ha potuto, nel recarvisi. Inutilmente, a quanto pare, perché il portone è serrato e, al suo cauto picchiettare col batacchio d’ottone, è rimasto muto.

Non può fare a meno di pensare che non sia un caso, perché non trova una motivazione valida per cui un orfanotrofio e convento dovrebbe rimaner chiuso in un giovedì mattina qualunque, Quaresima in corso o meno. Ogni sua speranza di interloquire con Suor Agnese giace oltre quelle massicce porte di rovere.

S’immagina Madre Filippa che lo scruta con maligno compiacimento dall’alto, da una delle finestre affacciate sul cortile, e non gli pare un pensiero così assurdo. Tira un sospiro stanco, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice, a fermare i pensieri che gli si avvicendano frenetici in testa. Non sa più neanche lui quale pista stia seguendo, in quel caso che è solo una turpe matassa aggrovigliata che ha finito per avvolgere anche lui e Bruno.

«Basta! Non ho fatto niente! Basta! Basta!»

Scaccia con violenza l’immagine e la voce di quello spettro trucidato a calci e pugni a Poggioreale, il cui volto che si sovrappone con fin troppa facilità a quello di Bruno quando era appena scampato dai camerata. Se la strappa dagli occhi, quella trasparenza falsata; così come lo sguardo supplicante di Iannello. Muove un passo deciso verso il primo gradino, rituffando la testa nel qui e ora. Tanto vale raggiungere Maione in Questura, sperando di schivare Garzo e di riuscire a reperire Caterina Gigliolo prima dei funerali.

Scende la scalinata e si avvia verso l’arco d’ingresso, superando la masnada di ragazzini intenti in quella che si direbbe una battaglia concordata là davanti, tra grida, lanci di sassolini e zuffe. Si affretta a superarli per non rimanere colto nel fuoco incrociato, ma nel passaggio ad arco quasi si scontra con altri quattro che lo imboccano a rotta di collo per unirsi alla finta guerra in corso. Lo schivano in un frullio di schiamazzi e qualche insulto impudente, prima di riversarsi nei rispettivi schieramenti.

Uno dei quattro, che avrà forse dieci anni, inchioda però con uno stridio di tacchi non appena lo supera, facendogli voltare il capo d’istinto, un passo prima di svoltare l’angolo. Il ragazzino lo fissa, inclina la testa strizzando gli occhi e poi gli si fa incontro con intenzione. Ricciardi si guarda intorno, sul chi vive, ma non sembra accompagnato. Abbassa lo sguardo per incrociare il suo, vivace e incuriosito, e si acciglia: quel volto gli è familiare.

«Buongiorno, commissa’!»

Evidentemente, gli è familiare davvero, visto che lui pare conoscerlo. Ricciardi si accosta con cautela al muro esterno dell’arco, sentendosi addosso gli occhi curiosi di un paio di signore di passaggio. Non è usuale veder qualcuno vestito in modo distinto che parla con uno scugnizzo di strada; il suo ultimo desiderio è attirarsi le attenzioni sbagliate, dopo gli ultimi eventi. Gli viene da rimettere solo a pensarci e mantiene un ampio passo e mezzo di distanza tra lui e il ragazzino, come se parlarci potesse essere già in sé un crimine.

«Buongiorno,» replica, senza nascondere bene la perplessità. «Posso aiutarti?»

In tutta risposta, il ragazzino allarga le spalle e le braccia in un moto indignato.

«Commissa’! Ma che ve site scurdato ’e me?»

Ricciardi assottiglia un poco gli occhi, mettendolo meglio a fuoco. Stralci di ricordi gli riaffiorano in controluce. Una grigia giornata di novembre, pioggia fredda e gelida; quel caso terribile, così simile a questo, che gli aveva fatto prendere un malanno e conclusosi con un incidente che gli aveva quasi tolto la vita.

«Cristiano,» ricorda, senza nascondere la sorpresa. «Certo che mi ricordo, sei l’amico di Tettè.»

Lui annuisce con entusiasmo, quasi gongolando nell’essere riconosciuto, a dispetto dell’associazione infelice col suo amico non più in vita.

È più alto, ora, ha il viso meno pieno, più pulito, e un ciuffo di capelli scuri che gli sbuca da sotto la coppola. Ma è senza dubbio il ragazzino che, un anno fa, gli si è accodato durante un’indagine non meno cupa di questa: un’altra giovane vita stroncata, un altro delitto sordido che lo perseguita. Però a Tetté, quel bambino avvelenato e lasciato esanime sugli scalini di una piazza, ha reso giustizia, mentre Annina ancora la esige trenta metri sottoterra. Gli sembra una manovra del fato, ritrovarsi a intersecare l’ombra di quel delitto atroce proprio ora.

«Dimmi, che c’è? Mi stavi cercando?»

«E pecché stessi a truvà a vuje?» risponde lui, in quel modo assolutamente indelicato, eppure spontaneo, che usano i bambini. «Però quanno v’aggio visto ve dovetti fermà pe’ forzaTenevo che fa’ nu saluto, no?»

«Capisco,» replica lui, anche se gli sembra di non capire affatto, e non solo per la lingua verace che usa.

Qualcosa, nei movimenti di Cristiano, gli suggerisce che quel saluto non sia semplice cortesia, anche se la contentezza nel rivederlo sembra genuina; ma non ha tempo da perdere, soprattutto non con un minore e in bella vista, data la situazione spinosa in cui si ritrova.

«Se non c’è altro, Cristiano, ti ringrazio del saluto, ma ora devo lavorare. Ho un’indagine in corso.»

Gli rivolge un piccolo sorriso e un cenno frettoloso del capo e si volta per imboccare il vicolo.

«’Spettate, commissa’!» lo richiama lui, tirandolo per una falda del soprabito.

Ricciardi si gira un po’ troppo bruscamente, sbarrando un poco gli occhi e tirando via di scatto il lembo di tessuto dalla sua stretta. Cristiano lo molla all’istante e scansa il capo in un riflesso istintivo. È probabile che più di un adulto gli abbia rifilato un manrovescio per molto meno e legge nei suoi occhi la ritrosia di un animale spaurito e pronto alla fuga. Ricciardi si caccia le mani in tasca in un moto frustrato e un poco colpevole, domando l’agitazione; Dio, perché deve sentirsi un criminale?

«Cristiano, se vuoi dirmi qualcosa, dilla e basta,» dice infine, con una stilla d’autorevolezza più marcata. «E dilla chiara,» aggiunge, sperando di indurlo anche a parlare in un italiano un po’ più orecchiabile.

«Scusate, non è che vi voglio far perder tempo,» esordisce lui, accogliendo l’invito implicito con un po’ di sforzo. «È che ho saputo di Annina.»

A quelle parole, Ricciardi fatica a non rimanere a bocca aperta e trattiene un sobbalzo. Fa scattare lo sguardo attorno a sé, perché Cristiano non sta affatto usando un tono pacato; anzi, adopera naturalezza disarmante, con una nota di mestizia affatto adatta a un ragazzino.

Nel modo più gentile e meno invasivo possibile, lo sospinge senza toccarlo oltre l’arcata dell’Annunziata, all’ombra del passaggio a volta e più al riparo dagli occhi dei passanti del vicolo. Al momento è deserto, al contrario del chiostro, nel quale il gruppetto di scugnizzi si è calmato e pare stare trattando una sorta pace. Si sente gli occhi invisibili di Falco infissi nella nuca.

«Che ne sai tu, di Annina?» chiede poi, abbassando la voce.

Cristiano coglie l’invito e la abbassa a sua volta, parlando in tono un po’ cospiratore e con la mano a coppa a coprire il labiale:

«Come, che ne so? La conoscevo. Ci conosciamo tutti, qua all’Annunziata, sia chi ci sta, sia quelli che se ne vanno, sia quelli che vogliono entrarci. C’è pure chi prova a infilarsi nella Ruota, pure se è da un pezzo che è chiusa. Che fessi!»

Ricciardi alza un palmo a frenare la divagazione, riportando il discorso sul punto focale.

«Dimmi di Annina. Viveva pure lei al brefotrofio?»

Cristiano storce la bocca, le sopracciglia aggrottate in modo quasi comico.

«Al che?»

«All’orfanotrofio, con le suore.»

«Ah! Sì, commissa’. Ce l’avevano affidata che manco camminava; così diceva lei, ma mica se lo ricordava. Glielo dicevano le suore.»

Ricciardi annuisce tra sé, stringendo i pugni nelle tasche: lo sapeva, che Annina c’entrava con l’Annunziata; sapeva che Madre Filippa gli aveva mentito.

«E come mai era uscita? Non era ancora maggiorenne.»

«Se n’è andata, però ci tornava, da queste parti. Era strano.»

Ricciardi sospira tra sé, e concorda sulla stranezza. Sta avendo qualche difficoltà a seguire il filo del discorso, tra Cristiano che molleggia irrequieto sui talloni e la rivelazione, non poi tanto improbabile, che le cose non funzionino in modo così impeccabile come sosteneva Madre Filippa, se c’è una torma di bambini di strada a zonzo per il quartiere, forse usciti proprio dall’orfanotrofio.

«Se n’era andata dove? L’avevano adottata?»

«Macché, commissa’!» Fa un ampio gesto con la mano aperta verso di lui, come a dargli dell’ingenuo. «Macché, è andata a faticare. Stava benissimo, teneva pure il nome sui vestiti, come i ricchi! Scommetto pure voi, tenete proprio la faccia da ricco.»

Ricciardi nasconde un sorriso a quell’impertinenza così veritiera, ben conscio delle proprie iniziali ricamate sul polsino della camicia. Mantiene però un’apparenza seria, grave, sapendo di non risultare comunque troppo intimidatorio.

«E dimmi, sai pure da chi è andata a lavorare?»

«Boh, un po’ qui, un po’ là,» fa spallucce lui, ruotando il busto a destra e a sinistra a tempo. «Non stava fissa da una parte. Era un po’ strano, vi dico. Di solito, se entri in una casa ci resti, perché se esci mica ti ci riprendono, qua all’Annunziata. Però lei se l’era presa in simpatia ’o Munaciello e quindi faceva un po’ come le pareva.»

Ricciardi aguzza lo sguardo, mancando un battito. Fissa gli occhi furbi ma limpidi di Cristiano.

«Il Munaciello? Quello che gira sottoterra?»

Il bambino lo fissa come si fissa il somaro della classe a scuola, e Ricciardi capisce che prenderla alla larga non è stata la scelta più furba.

«Ma mica la favola, commissa’! ’O vrero Munaciellochillo cà trova ’o travaje a’ figl’ ’ra Maronn,» s’infervora scivolando di nuovo nella sua parlata stretta, e accenna col mento all’austera struttura oltre l’arco.

«Cristiano, vai con ordine. Com’è fatto, questo Munaciello? E chi è?»

«Si chiama Don Nicola ed è alto, commissa’, chhiù alto ’e vujepure si sta tutto sgarrupato.» Si ferma e pare intuire che lui non abbia colto il punto, quindi chiarisce svelto, impegnandosi a pronunciar bene le parole, scandendole con due netti movimenti della testa: «È sciancato, uno zoppo.»

Ricciardi stringe le labbra con lieve disappunto. Non sarà granché, come indizio, con tutti gli invalidi e mutili che ci sono a Napoli, ma è qualcosa.

«E lo chiamate "il Munaciello" perché...»

«Vabbuò, quello sì, è per la favola,» ammette subito lui, come fosse una cosa di cui vergognarsi. «Dicono che conosce tutta Napoli da sotto, e che gira pure a ’e Funtanelle. Però appresso si porta solo quelli che gli pare a lui, cioè i figli della Madonna.»

Indica di nuovo l’Annunziata. Ricciardi vorrebbe fargli mille domande, ma conclude che è meglio lasciarlo andare senza freno, raccogliendo i dettagli e le informazioni che può lungo la strada.

«Gliene frega solo di loro, a lui, mica di noi che stiamo fuori. Però si vede che non gliene fregava poi così tanto di Annina,» aggiunge, facendosi d’un tratto serio. «Sennò mica la lasciava a schiatta’ nelle catta-combe

«Tu sai come ci è finita, là sotto? Lavorava pure lei col Munaciello?»

Lui strizza la bocca, strusciando un piede per terra.

«Ci vanno un po’ tutti, là, pure chi non sta col Munaciello. Io no, però. Non mi piace là sotto; ci stanno i sorci e i teschi e fète di piscio. Ma Annina non teneva paura di niente, commissa’.»

Struscia di nuovo il piede a terra, come se volesse dir qualcos’altro, ma gli fosse rimasto impigliato sulla lingua. Ricciardi attende, senza forzarlo, anche se si trattiene a fatica. Non sta interrogando un adulto, non vuole pressarlo e rischiare di spaventarlo. Dopo qualche istante, la sua pazienza viene ripagata e Cristiano si rianima:

«Però del Munaciello, a un certo punto, teneva paura. E una volta, di nascosto, ci ha chiesto a noi, che siamo più grandi, se poteva stare con noi. A me lei mi piaceva assaje, pure se era piccirilla. Però gli altri non la volevano, una femmina, e dicevano che poi ’o Munaciello ci ammazzava di botte, se scopriva che la aiutavamo.» A quel punto, batte con forza il piede a terra, con improvvisa rabbia, il viso accartocciato in una smorfia irata. «Io però poi a lei l’aggio ritt’ cà adda ji’ alla polizia, ché ci stava pure gente brava come voi, commissa’, e non solo quelli che ci alzano le mani.»

Ricciardi sente un’ondata di freddo risalirgli la spina dorsale, a quelle parole, ma non interrompe il bambino, che s’è infervorato di nuovo, in un misto ribollente di frustrazione e collera che gli rende gli occhi lucidi.

«E Annina diceva che no, che alla polizia non ci poteva andare, che erano tutti marci e fetenti. Io però l’aggio ritt’ che, se trovava al commissario, cioè a vuje, non la cacciavate mica via o la riportavate da ’o Munaciello.» Lo fissa in volto, con una determinazione che, per un bambino di dieci anni, non dovrebbe essere possibile. «Che voi, quando hanno ammazzato a Tettè, non ve ne siete mica fregato solo perché era un piccirillo morto per strada. E che quindi poteva essere che non ve ne fregavate manco di lei.»

Ricciardi tira un respiro profondo, imponendosi compostezza di fronte a quella rivelazione e a quel ragazzino che, da solo, pare avere più coraggio di tutto il corpo di polizia messo insieme; e, certo, dei principi morali molto più chiari e netti. Di certo, fa sfoggio di una fiducia smodata nei suoi confronti, corroborata dal solo fatto che lui, sul caso di Tetté, vi aveva riversato anima e corpo, proprio come sta facendo adesso.

Non gli dice che Annina ce l’aveva quasi fatta, a raggiungerlo. Ha timore a pensarlo egli stesso, a pensare a quanto vicina fosse arrivata. Non gli dice nemmeno che, nei suoi ultimi attimi, del Munaciello non aveva più avuto paura; quello se lo terrà lui chiuso nel cuore finché camperà, assieme alla voce alta e indomita di Annina.

«No, non me ne sarei fregato,» risponde piano, stropicciandosi rapido gli occhi con le dita che gli tremano. «Non me ne sto fregando neanche adesso.»

«Lo so, sennò mica ce lo dicevo a lei o venivo da voi ora,» ribatte lui, a muso duro. «Io o’ ssaje, che l’ha ammazzata o’ Munaciello. Lo sappiamo tutti. Ma tanto, chi ci crede?»

«Io,» ribatte Ricciardi, senza nemmeno doverci pensare, il volto che freme, la bocca tirata in una linea rigida. «Io ci credo.»

Cristiano s’illumina, gli occhi più grandi, anche se non c’è alcuna gioia sul suo volto. È una luce fredda, inadatta a un volto infantile, che gli segna gli zigomi affilati di ombre, accentuate dallo sporco e dalla fuliggine.

«Cristiano, dove lo posso trovare, questo Munaciello?»

«A saperlo! Sottoterra, da qualche parte,» sbuffa lui, sporgendo il labbro con disappunto. «Mica ci viene così spesso, qua. Solo quando tiene il lavoro per i figli della Madonna.»

«Il lavoro?»

«Sì, le suore mica hanno posto per tutti,» alza le spalle lui, con ovvietà, «ogni tanto qualcuno lo mandano via a faticare. Così almeno campa bene e può pure uscire e fa posto agli altri.»

«Un lavoro vero, quindi. Non li mandava a rubare.»

Cristiano, a quel punto, si fa schivo. Lancia un’occhiata attorno a sé, verso gli altri ragazzini intenti nei loro giochi, come se si sentisse osservato.

«Boh,» offre come unica, lapidaria risposta.

Ricciardi trattiene l’istinto d’insistere a quella bugia: gli basta come conferma del fatto che non tutti i “lavori” promessi dal Munaciello siano prettamente legali.

«Va bene. E le suore fanno andare i bambini con questo Munaciello come se niente fosse?»

«Commissa’,» dice serio Cristiano, raddrizzando le spalle e sembrando un adulto, «chi va co’ ’o Munaciello sta bene a vita. Gli trova da faticare, una casa, alle volte pure una famiglia perbene. Se non era per lui, stavano all’Annunziata fino a che non erano troppo grandi e poi uscivano e crepavano di fame per strada lo stesso. Come a me e a Tetté. Però ha pure ammazzato Annina, e io mica lo capisco, perché.»

Sembra combattuto, nell’esporre quel punto, forse in difficoltà nel capire che qualcuno può avere anche due facce molto diverse tra loro, che non si escludono l’un l’altra. Che Don Nicola e il Munaciello potevano anche essere la stessa persona, ma con mire e intenti molto diversi a seconda della veste che indossava.

«Ad Annina la trattava diversa, poi. Se la portava appresso a lui, non stava mica da qualcuno.» Alza le spalle, con dubbiosità e uno sguardo scurito dalle sopracciglia corrugate. «Non lo capisco, perché,» ripete ancora, con più forza.

Ricciardi comprime tra loro le labbra, domando un’ondata di disgusto. Non vuole indovinarlo, un possibile perché, né suggerirlo a Cristiano. Probabilmente, lui se lo può anche immaginare, sebbene, spera, con la fumosità dettata dall’infanzia. Il che lo riporta al primo sospetto della lista, quando si tratta di rapporti ambigui con l’Annunziata e i suoi protetti.

«Senti, tu hai mai visto un uomo di nome Fernando Gigliolo da queste parti? Era robusto, in carne, media statura, coi capelli bianchi e il pizzetto, vestito elegante.»

Cristiano strizza gli occhi, incerto.

«Ci sta un signore tutto impettito e grasso che viene ogni domenica, che secondo me gli assomiglia. Ogni tanto ci dà pure due spicci. Però boh, commissa’, qua passa tanta di quella gente...»

Sembra avvilito dal non essere riuscito a rispondere, e Ricciardi si affretta a confortarlo:

«Mi sei stato molto utile anche così, Cristiano. Grazie.»

Un sorriso soddisfatto spazza via in un istante tutta la tetraggine che aveva macchiato il suo viso ancora infantile, con la stessa facilità con cui una mano lava via la condensa da un vetro. La facilità di chi esperienze simili le ha vissute spesso, tanto da ritenerle normali. Chissà quanti altri compagni ha perso, oltre a Tettè e Annina; per il freddo o la fame o le malattie, scomparsi da un giorno all’altro, rimasti negli angoli bui dimenticati dagli adulti o portati via da loro per fini abietti. Ne vede tanti, di spettri bambini, in quei vicoli gelidi che oscurano il sole.

«Ce l’hai un posto dove tornare?» chiede d’istinto, osservando il mutamento d’espressione sul suo volto, che si fa guardingo; e giustamente. È un bene che lo sia.

«Don Antonio m’ha cacciato dalla sacrestia perché sono troppo vecchio. Però Micheluccio, il contadino per cui mo’ fatico al mercato, mi fa dormire nella stalla del somaro quanno m’agg scetà presto.» Alza le spalle con noncuranza. «Per l’estate mi porta a zappare i campi e la moglie mi insegna pure a leggere, dice. A me di leggere non frega un fico secco, però basta che mangio, commissa’.»

Ricciardi annuisce, senza commentare, rincuorato almeno un poco nel saperlo in una situazione più misericordiosa di quella di tanti altri orfani lasciati allo sbando per strada. Magari, tra qualche anno, a Cristiano fregherà anche di leggere e potrà cavarne fuori qualcosa di buono. Magari, non finirà come Annina e Tettè. Può solo sperarlo.

«Allora vai a faticare da Micheluccio, va’,» lo sprona, con un cenno del capo verso il vico oltre l’arco, «che il mercato è iniziato da un pezzo.»

«E voi pigliate ’stu fetente,» gli risponde pronto lui, con lo sguardo serio di chi pretende un giuramento.

Ricciardi ha l’impressione di essersi fatto carico di troppe promesse che rischia di non poter mantenere, nelle ultime ore, ma replica comunque senza esitare:

«Hai la mia parola.»

Cristiano fa un sorrisetto, toccandosi la tesa della coppola con un dito. Poi gli tende la mano, stringendo la sua con vigore eccessivo prima che possa ritrarla, e si allontana svelto.

«Cristiano!» lo richiama Ricciardi, un attimo prima che imbocchi l’arco.

«Comandi, commissa’!» replica lui, ruotando sui tacchi e camminando all’indietro, le mani ficcate nelle tasche e un’espressione angelica in viso.

Ricciardi inclina il capo, fissandolo senza muovere un passo.

«Ridammi il portafoglio.»

Il ragazzino si arresta, sbuffa e rotea gli occhi, ma si riavvicina e gli porge l’oggetto senza protestare. Lui lo accetta, reprimendo un sorriso inappropriato per un rappresentante della legge.

Ne cava poi fuori cinque lire, posandole sul palmo segnato di fuliggine già fulmineamente teso di fronte a lui. Si rifiuta di pensare a come potrebbe essere interpretato quel gesto da occhi esterni e, anzi, lo ostenta quasi, sbandierandolo sotto il naso dell’OVRA: lui la coscienza ce l’ha pulita e, come gli diceva spesso Rosa, “male pensa chi male fa”.

«Compratici un paio di scarpe,» accenna a quelle forate e consunte che ha ai piedi, «e vedi di non farti arrestare da me tra qualche anno.»

Lui, per tutta risposta, porta due dita alla fronte in un’imitazione di saluto militare, gli fa una linguaccia e poi schizza fuori portata.

Ricciardi lo fissa andar via, col sorriso divertito che gli si spegne presto in volto, oscurato dai mille pensieri che gli frullano in testa come uno stormo di uccelli impazziti. Ne rimane solo uno a volteggiare al centro, alla fine, un altro falco pronto alla picchiata che percorre spirali infinite: Annina stava cercando proprio lui per chiedergli aiuto. E non l’aveva raggiunto per tempo.

 


Note dell’Autrice:
Cari Lettori,
questo capitolo è stato UN PARTO per mille motivi.
Primo fra tutti, la lingua. Se finora me l’ero cavata con gli adulti, qui non potevo far parlare uno scugnizzo come un libro stampato e ho dovuto fare le mie ricerche. Giuro che ho rimpianto la grammatica russa nell’approcciarmi a quella del napoletano. Io ho fatto del mio meglio *piange in cirillico*
A parte questo, spero che la svolta di trama sia stata imprevista. Ero molto titubante su questo incontro con Cristiano, ma era di fatto previsto sin dalla versione embrionale della storia. Potrà sembrare un deus ex machina, e un po’ lo è, ma volevo intenzionalmente porre un bambino come "voce della verità" sul caso, ovvero come persona che sembra saperne più di tutti e non ha reticenze su ciò che conta davvero, a differenza degli adulti.
Ricciardi ha ora un bel po’ su cui rimuginare e il prossimo capitolo ricollegherà parte dei fili sparsi sin dall’inizio del caso. Alcuni sembreranno ovvi, altri meno, altri saranno ovvi solo una volta menzionati (o almeno, l’intento è questo... riuscirci è un altro).
Grazie a tutti voi che leggete votate e commentate le storia! <3
A lunedì!

-Light-

P.S. Ci sono due dettagli fondamentali nascosti nel capitolo eheh

 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Il Commissario Ricciardi / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_