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Autore: _Lightning_    05/02/2024    4 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole)

 
 
          ANNINA era morta là sotto perché stava venendo a cercare lui.

Ricciardi, quella consapevolezza, la sente squarciargli la schiena come una spada di Damocle infine precipitata a trafiggerlo. Continua tutt’ora a non conoscere i meccanismi che regolano la sua maledizione e continua a pentirsi di non aver chiesto lumi a sua madre quando ancora poteva; ma sa una sola cosa per certa, con una nitidezza che gli rendedifficile respirare.

I morti che ha visto finora erano sconosciuti, fantasmi capitati sul suo cammino casualmente o per via di un delitto che era chiamato a risolvere. Estranei che erano stati meri passanti nella sua esistenza, entrati e usciti da essa con la fuggevolezza di un colpo di vento gelido che, infine, lascia posto al tepore del sole, sebbene solo per un tempo limitato.

Anche Annina era per lui una sconosciuta, l’ennesima vittima su cui sono inciampati i suoi passi in quella gelida notte. Solo che Annina cercava proprio lui, pur non conoscendolo. Ed era morta prima di riuscire a raggiungerlo, con l’ultimo pensiero lanciato verso quel “commissario perbene” di cui aveva solo sentito parlare e che poteva rappresentare la sua unica salvezza.

Così non era stato; qualcuno l’aveva stroncata prima, quella richiesta d’aiuto; l’aveva messa a tacere e aveva lasciato lei a marcire sottoterra come un qualcosa di rotto e inutile.

Eppure, la sua voce l’aveva raggiunto egualmente, con potenza e tenacia inusitate, travalicando spazi e confini come un qualcosa di ancora vivo e dotato di volontà; perché cercava lui, Annina, e a lui si era aggrappata in un ultimo anelito, perché era l’unico che potesse sentirla e l’unico che, anche nella morte, avrebbe comunque potuto aiutarla.

Lo scuote un tremito; di rabbia, di senso di colpa nauseante, di odio cieco per la maledizione che si porta abbarbicata addosso come filo spinato. Annina cercava lui ed è perita nel farlo; ma alla fine l’ha trovato lo stesso.

Se prima si sentiva in dovere di farle giustizia, se vi era una sparuta traccia di egoismo nel voler dar requie a quel fantasma la cui voce gli si insinuava in casa propria e nel cranio dalle viscere della terra, adesso è solo conscio di avere un debito concreto verso di lei.

Gli si smuove qualcosa di oscuro nel petto, a quella consapevolezza. Gratta e stride contro le costole e che gli fa serrare i pugni e la mascella. Non si è mai ritenuto un uomo violento, ma il pensiero di mettere le mani addosso a quel Munaciello gli provoca un moto di feroce soddisfazione, d’ira animale che gli strattona i muscoli con impulsi bassi che ha sempre ripudiato.

Si obbliga a trarre una serie di respiri profondi, sentendosi accaldato in viso e in corpo, incapace di star fermo e oscillando così nervoso sul posto, all’ombra dell’arco dell’Annunziata. Non può farsi giustizia da solo; non è per questo che è diventato commissario di polizia.

Deve quietarsi, o finirà per compiere un passo falso. Il pensiero di avere pure l’OVRA che guata ogni sua mossa non migliora il suo stato d’animo, ma è un ottimo incentivo a calmare ogni sregolatezza. Deve comunque prima trovarlo, questo Munaciello, e non lo troverà certo cedendo a una cieca collera.

Si ravvia i capelli, tirandoli un po’ troppo forte e lasciando poi scivolare la mano sul collo ancora dolente e irrigidito. Tasta con cautela la contusione, avvertendo fitte sorde e latenti: un altro ottimo memento rispetto al doversi muovere in punta di piedi, ora che ha forse in mano il bandolo della matassa.

Rivede ancora, a tratti, il volto odioso di Falco che torreggia su di lui, a dispetto della sua stazza affatto imponente. Nelle sue narici ristagna il fetore della strada che gli hanno impresso addosso. Serra la mandibola. L’hanno insultato e umiliato, ma non è quello il dettaglio su cui si impiglia suo malgrado da quella mattina.

C’è un pensiero attorno al quale ha continuato a marciare a distanza di sicurezza e che, adesso, irrompe nel suo cervello con una falcata netta: la menzione indiretta di Livia da parte di Falco. L’uomo la sorveglia, è il suo osservatore nell’ombra. Per motivi, immagina, legati all’amicizia della donna con Edda Mussolini, che ne fa una pedina sensibile nella scacchiera fascista; ma forse c’è altro, dietro, motivazioni più personali. Falco pare anche essere a conoscenza dell’infatuazione della donna per lui, e ciò gli provoca un moto d’angoscia improvviso: è una possibile arma, quella, un’arma subdola che può essere ritorta contro entrambi a piacimento. Non lo riterrebbe al di sotto della moralità di Falco, se mai ne abbia una.

Sulla correttezza di Livia, invece, non nutre alcun dubbio: non l’avrebbe mai esposto, nemmeno involontariamente. E, benché non la ami come lei vorrebbe, non significa che sia disposto a metterla in pericolo in qualsivoglia modo. L’impulso di recarsi a Villa Pignatelli lo morde repentino, irrazionale. Si chiede se Falco abbia fatto parola con lei dei sospetti infamanti che vogliono gettargli addosso; se, magari, non sia riuscito nell’intento di dipingerlo come un uomo perverso ai suoi occhi, ancor più meritevole di disprezzo.

Porta una mano a stringersi la radice del naso, soverchiato da tutto ciò che pare ruotare attorno a lui in quel momento, ancor più a stretto giro dei fantasmi che lo tormentano.

Asseconda il moto di spossatezza che gli assale le gambe e, dopo qualche istante d’esitazione, va a sedersi sull’ultimo gradino della scalinata dell’Annunziata. Intreccia le mani a coprirsi il volto, creando una zona d’ombra, coi pollici che premono sulle tempie. Il riverbero grigiastro riflesso dalle nubi si attenua sotto quel pergolato di dita, allentando anche la morsa dell’emicrania che, ormai da tre giorni, lo tartassa senza dargli respiro, fomentata dal digiuno e dall’insonnia.

In sottofondo, il chiacchiericcio e i richiami vivaci del gruppo di ragazzini che gioca rallegra quella giornata tetra. In un’altra circostanza, l’avrebbe fatto sorridere; adesso si sente sporco solo a pensare di farlo, così come si è sentito nel parlare con Cristiano.

Si chiede se anche quell’incontro fortuito non possa giocare in suo sfavore. D’altronde, però, se l’OVRA vuole accusarlo di pedofilia, non ha certo bisogno di prove concrete: basterebbe loro un solo schiocco di dita e un certificato medico falso per rinchiuderlo e gettare la chiave. È già successo a persone molto più in vista di lui.

Gli si rivolta lo stomaco, anche quello in subbuglio da giorni. L’hanno avvelenato, gli hanno messo in testa preoccupazioni che non l’hanno mai sfiorato in vita sua; lui che i bambini li ha sempre trattati con assai più rispetto di molti altri adulti. Certo, rimpiange di non poterne avere di propri, per non rischiare di condannarli alla sua stessa maledizione; ma forse ad occhi altrui è un crimine pure quello, così come è un crimine non sposarsi e non avere il giusto interesse per le donne.

Bruno gliel’ha detto, una volta, di accasarsi per vivere tranquillo. Con Livia vi sarebbe almeno una trasparenza d’intenti, oltre che un interesse reciproco, al di là del sentimentale. Però, il pensiero di ingannare qualcuno a quel modo ignobile, magari Enrica, usandola come mera copertura e non potendo nemmeno prometterle la gioia di un figlio, gli fa sembrare quasi più auspicabile la morte. La morte, adesso, gli sembra di certo più auspicabile che immaginarsi con una camicia di forza addosso, o di veder Bruno arrestato e fucilato.

Immette un respiro lento nei polmoni, ingollando aria fredda e strappandosi da quelle ennesime elucubrazioni malsane. Non è di se stesso che deve preoccuparsi e, per quanto lo asfissi il pensiero, nemmeno di Bruno. Gliel’ha giurato: ciò che conta è il caso, Annina, la sua richiesta d’aiuto.

Ha bisogno di fermarsi. Di pensare, di raccogliere le fila sfrangiate di quei due casi una ad una e di legarle tra loro in nodi solidi che non si sciolgano alla prima trazione troppo brusca. Chiude gli occhi, col buio che attenua le punture di spillo nella sua testa.

Il Munaciello e Annina sono collegati, al di là dell’omicidio. Se prima poteva essere un ragionevole sospetto, dopo la conversazione con Cristiano non ha più alcun dubbio. La natura della loro relazione è ignota, disturbante, ma innegabile. Ciò su cui non si raccapezza è il modo in cui siano collegati Annina e Fernando Gigliolo. Perché lo sono, gli è lampante, ma non trova il nodo comune concreto, se non le frequenti visite del colonnello all’Annunziata. Può solo supporlo.

Ipotizzare, nella migliore evenienza, che fosse una sua figlia illegittima, oppure che fosse finita a servizio da lui perché l’aveva presa in simpatia; e può pure immaginare che tipo di malata simpatia, considerando l’urgenza dell’OVRA di interrompere le indagini in merito.

Ma sono pur sempre supposizioni, persino quelle. Il Partito non agisce sulla base di fatti concreti, ma nel costante, latente timore che uno scandalo possa macchiarne l’immagine impeccabile da libello di propaganda; soffoca il fuoco prim’ancora che venga appiccato nel dubbio di non poterlo poi contenere, in un eccesso di forza che ne svela le fondamenta barcollanti.

La figura di Gigliolo continua a essere labile, sfocata dalla sottile patina di eroe decorato e persona onesta, sebbene riservata ed estremamente sola, che tutti sembrano dipingergli addosso.

Poi, c’è l’ombra criptica del Munaciello a torreggiare sullo sfondo. Un monaco vero o presunto tale, qualcuno che gestiva i bambini dell’Annunziata e di cui le suore si fidavano, qualcuno che li proteggeva e tutelava, pur sfruttandoli, qualcuno che aveva preso con sé Annina per un periodo, chissà perché, ma che aveva allarmato a tal punto Suor Agnese da spingerla a esporsi per mettere lui sulle sue tracce. Qualcuno che, con ogni probabilità, c’entra sia con l’omicidio di Gigliolo che con quello di Annina.

I due capi estremi del caso, opposti e complementari. Un vecchio militare prostrato dalla guerra e un’orfanella dell’Annunziata.

C’è qualcosa a far da raccordo tra loro a monte, qualcosa che gli sfugge dall’inizio, sin da quando ha messo piede in quel salotto invaso da vetri rotti; qualcosa che, adesso, sembra infine a portata di mano. Fumo che gli danza davanti agli occhi, intangibile, evanescente come gli spettri che vede.

Serra di più gli occhi e, a forza, strizzandosi le tempie, rievoca il fantasma di Gigliolo a cui non ha nemmeno più pensato troppo, offuscato dal richiamo ben più potente di Annina. Ode di nuovo la sua voce profonda, lo rivede mentre si agita sul posto, spaesato. La ferita sulla fronte, frastagliata, sanguinante; lacrime vermiglie che gli sporcano il pizzetto. Gli occhi bianchi che vagano, per poi fissare un punto preciso. Stupiti di vedere qualcuno, proprio lì, proprio davanti a…

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Riapre di scatto gli occhi, mancando un colpo, il respiro mozzo, il bandolo della matassa stretto tra le mani.

La linea dello sguardo di Gigliolo. Ci ripensa, la vede di nuovo. Ripercorre il momento in cui l’ha ricostruita in quel salotto, arenandosi su un mobiletto insignificante, privo di qualsivoglia interesse. Guardava in basso, Gigliolo. Guardava in basso.

Rivede, in una serie di lampi, il figlio piccolo di Beniamino e Assunta, quando è apparso all’uscio; e pure quel bambino all’Annunziata, accovacciato dietro una porta; e pure Cristiano, or ora; e pure Annina stessa, quando ha trovato il suo fantasma. Anche lui ha guardato in basso, per rivolgersi a quei bambini. Anche lui ha abbassato gli occhi, per trovare i loro.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

La certezza si fa strada in lui come un fiume in piena: Annina era lì. Annina aveva assistito all’omicidio, l’ultima persona su cui Gigliolo aveva posato lo sguardo. E Annina doveva essere andata da Gigliolo a sua insaputa, se lui l’aveva apostrofata così, con sorpresa. Eppure, pareva conoscerla, sì, sapere esattamente chi fosse.

Rivede il suo volto pieno incorniciato dal pizzetto, le sopracciglia corrugate, il misto di meraviglia e apprensione che gli ha suscitato l’intruso. La sua prima impressione era stata corretta: non è certo la reazione scomposta che si ha dinanzi a un ladro.

Ricciardi doma il fremito esaltato che gli scuote le dita. Funziona, ha senso, il ragionamento fila; almeno finché un ingranaggio del meccanismo non si inceppa di nuovo: perché Annina era lì, quella notte? Soprattutto, con chi? Chi ha assalito Gigliolo alle spalle, fracassandogli la testa sul tavolo di fronte ad Annina?

Manca ancora un anello, un passaggio, manca lo snodo fondamentale.

Scosta brusco le mani dal volto, lasciando spaziare lo sguardo sulla piazza squadrata su cui incombono gli edifici rossicci, quasi sanguigni nella luce smorta. Il gruppetto di bambini continua a rincorrersi attorno alla fontana in cerchi infiniti, levando un coro di schiamazzi e scalpiccio di scarpe consunte, ridendo quando l’inseguitore ne acchiappa uno e lo costringe a invertire i ruoli.

Corrono e corrono a perdifiato come correva anche Annina nelle viscere della terra, in cerchi sempre più ampi e rapidi, una ruota umana che gira e gira attorno a un perno invisibile, muovendo l’interrogativo che lo insegue sin da quella notte gelida: chi è il Munaciello?


 

Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
SCUSATE per queste 2.000 parole prive di dialogo, ma il nostro eroe aveva bisogno di un ben meritato momento di riflessione per mettere insieme un po' di pezzi (e spero che nel momento-revelation vi sia partito il filtro giallo dei flashback alla CSI, perché l'intento era quello). E ho quasi citato il titolo, come da contratto per ogni storia che si rispetti!
Ora, chissà se ciò che ha intuito è giusto o meno, e chissà se voi l'avevate ipotizzato; in ogni caso, ci tengo a specificare che a questo punto siamo a 4 giorni dall'omicidio Gigliolo e che Ricciardi avrà dormito forse 12 ore complessive e mangiato 3 pasti scarsi. Giuro che lo sto dicendo seriamente, sono fattori che ho messo in conto mentre scrivevo: il cervello, se non dormi e non mangi, non carbura. Se vedi pure i fantasmi, addio. Bello il detective tenebroso e insonne e sensitivo, però ha anche i suoi svantaggi (una mia piccola presa in giro del trope, diciamo).
Normalmente, Ricciardi è sveglio (- Non mi pare. - -Silenzio, Bruno.-) e avrebbe potuto fare il collegamento logico che vedete qua già due volte. Invece, gli ho fatto avere solo una sorta di "sensazione" che qualcosa non tornasse. Quindi, in realtà, la morale della storia è che vi tocca dormire e mangiare il giusto, se volete fare i commissari.
Scherzi a parte, ora posso dirlo: sta arrivando il bello (e la parte su cui mi sto impallando, ma quella è un'altra storia)
Grazie a tutti voi che continuate a leggere e commentare, mi fate felicissima ♥
A venerdì... e, nell'attesa, ho pubblicato una piccola one shot semicomica sul primo incontro tra Ricciardi e Modo (Un corpo e mezzo), se dovesse interessarvi qualcosa di più leggero ;)

-Light-

 
   
 
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