INTERCETTA Maione davanti alla gradinata della Casa del Mutilato, dal lato opposto della piazza rispetto al perimetro curvo delle Regie Poste, ancora assediate da impalcature. Il cielo si è finalmente aperto un poco all’azzurro, lasciando che una lama di sole più caldo illumini gli edifici marmorei di un bianco sporco.
«Commissa’, la prossima volta che mi mandate uno scugnizzo, assicuratevi che sia pure a modo. Gli avrei dato una bella tirata d’orecchi, a quel mariolo.»
Ricciardi sorride in silenzio a quelle rimostranze, affatto pentito d’aver incaricato il ragazzino dell’Annunziata che, di primo acchito, pareva avere la faccia più discola e da scavezzacollo, di andare a recuperare il brigadiere in Questura per avvisarlo di presentarsi là prima di mezzogiorno.
A quella reazione, il brigadiere alza gli occhi al cielo.
«Tiene ragione il dottor Modo: voi vi divertite davvero un mondo,» borbotta, salendo le scale avanti a lui.
Il sorriso di Ricciardi s’incrina appena. Lancia uno sguardo fugace alla sua destra, verso la traversa che conduce a casa di Bruno. Dovrebbe esservi rientrato, ormai.
Dopo la nottata non preventivata in ospedale, gli ha detto che s’è preso un giorno di riposo. Non sa se sperare che rimanga ben chiuso là dentro o che decida di andarsene a spasso; o, ancor meglio, al bordello, dove può sperare di avere un minimo di copertura dalle ragazze o da Mamma Clara, se le camicie nere dovessero andare a prelevarlo. La verità è che, al momento, non esiste un vero luogo sicuro per nessuno di loro due.
Resiste l’impulso di guardarsi le spalle: se davvero l’OVRA lo sta sorvegliando, non vuole dare loro la soddisfazione di mostrarsi in allarme. Si affretta a tornare presente a se stesso quando si accorge che il brigadiere è già in cima alle scale. Rituffa la testa nel caso, prima di farsi distogliere nuovamente dalle preoccupazioni che la inondano.
«Maione, hai convocato Caterina Gigliolo?»
«Ah, ecco,» gli fa lui, fermandosi con una mano sulla porta incastonata tra i dentelli dei sottili pilastri in piperno. «I funerali del marito sono oggi, giusto a mezzogiorno. Capisco l’urgenza, ma mi pareva importuno seccarla. Oltre che troppo vistoso.»
Ricciardi incrocia le braccia dietro la schiena senza esprimersi su quel fatto, di cui era ben a conoscenza. Aveva sperato che Maione si facesse meno problemi, ma ha ragione sul fatto del dare troppo nell’occhio. Si astiene dunque dall’esternare critiche su quella scelta.
«Dove si terrà la funzione?» chiede invece.
«Provate a indovinare.»
«Alla Basilica della Santissima Annunziata?»
In tutta risposta, Maione rilascia un respiro secco, annuendo con stizza. Ricciardi non ne è sorpreso, né si cura di mostrarsi tale.
«Vorrà dire che andremo a porgere le nostre condoglianze di persona, più tardi.»
L’altro si lascia quasi scappare di mano la porta e sembra sul punto di protestare, ma si rimangia visibilmente ogni commento, anche se la sua occhiata sbieca è più eloquente di mille parole. Ricciardi lo ignora e si ravvia i capelli, un gesto più nervoso che utile. Ringrazia il brigadiere con un cenno del capo mentre oltrepassa la porta, entrando infine nell’atrio monumentale della struttura.
L’atmosfera, là dentro, è opprimente a dispetto degli alti soffitti e della luce soffusa che filtra dalle ampie finestre. Vi è un accalcarsi di iconografie fasciste in ogni angolo, dalle aquile ad ali spiegate in cima alle false colonne, ai fasci littori sul cornicione del soffitto, ai gessi classici atteggiati in saluti romani che sembrano sbucare dal nulla, alle teche ingombre di emblemi militari commemorativi.
Alle loro spalle, una targa dedicata a Mussolini troneggia sopra la porta d’ingresso, a sormontare due lastre marmoree decorate con bassorilievi che ripercorrono la fondazione di Roma. La statua alata della Vittoria si erge fiera in fondo alla scala centrale che conduce ai piani superiori, quasi a intimare loro il dietrofront. Maione inclina la bocca all’ingiù in un moto di malcelato fastidio, lo stesso che riserva al nuovo murale futurista del Duce quando vi passa accanto in Questura.
«Gli saranno avanzate due lire da spendere, per ’sti mutilati?» commenta a mezza voce, fissando il pavimento bianco e nero dai motivi geometrici tirato a lucido.
«Maio’,» lo redarguisce, «non siamo qui per fare dibattito.»
«Embè, tanto mica si può,» bofonchia il brigadiere, per poi seguirlo su per lo scalone, verso gli uffici.
Ricciardi si ritrova a faticare più di quanto previsto, per farsi avallare il permesso di consultare i documenti di cui necessitano. A quanto pare, dice l’addetto, servirebbe una richiesta formale controfirmata dal vicequestore; cosa che sarebbe complesso richiedere anche normalmente, figurarsi con l’OVRA pronta a tirare le fila di Garzo dall’ombra.
Alla fine riesce a convincerlo, con un po’ di moine e gettando in mezzo il suo titolo di barone, di essere lì per conto del vicequestore in persona, e che un contrattempo risulterebbe in un grave imbarazzo per l’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra di fronte alle forze militari, di cui Gigliolo era un esponente di spicco, e magari pure di fronte al generale Baistrocchi, se la voce dovesse disgraziatamente arrivare fino a Roma.
Alla menzione del Capo di Stato Maggiore, il paffuto addetto sgrana gli occhi dietro le lenti rotonde e, colto da sudorazione improvvisa, si adopera per lasciar loro accesso alle stanze dell’archivio, sebbene solo per un limitato periodo di tempo.
Forse temendo ritorsioni, decide anche di non segnare i loro nominativi nel registro delle entrate; e Ricciardi pensa che dovrà andare con Don Pierino ad accendere un cero a Santa Rita poiché, una volta tanto, la fortuna lo assiste in quel caso impossibile.
L’impiegato scatta poi in piedi come una molla, per quanto gli consenta la protesi al piede destro. Fa loro strada fino alla stanza dell’archivio: un ambiente ovale, decorato sopra l’ingresso con un affresco patriottico dell’incoronazione di Vittorio Emanuele II.
Mette poi loro davanti dei faldoni incartapecoriti, con la documentazione di leva e i ruoli matricolari dell’anno 1915 e successivi, aggiungendo che sono stati fortunati, visto che sono tornati da poco da Roma dopo essere stati battuti a macchina per l’Archivio Nazionale.
Non fornisce loro il registro dei donatori, forse contando di farla passare come una svista, ma Ricciardi non s’arrischia a tirar troppo la corda: non vuole né far passare dei guai a quel poveraccio, né dare altri possibili motivi a quelli dell’OVRA per arrestarlo.
L’impiegato si profonde in un brevissimo inchino, per poi esitare, chiaramente in difficoltà su come rivolgersi a lui.
«Se vi dovesse servire assistenza, mi trovate in guardiola, signor barone.»
Ricciardi ringrazia con un cenno del capo, in lieve imbarazzo. Mentre l’uomo chiude le doppie porte, nota che Maione gli sta indirizzando un’occhiata di sottecchi, con un sorrisetto oltremodo divertito che stride con la sua apparenza impettita e composta.
«“Signor barone”,» ripete poi, allungando un poco le vocali in modo affettato.
«Taci, Maio’,» sbuffa lui, senza durezza. «Vediamo di capirci qualcosa, piuttosto.»
Maione non se lo fa ripetere. Toltosi il berretto, apre il primo faldone, “1915”, lo sistema su un leggio e prende a scorrere i numeri di matricola. Ricciardi libera un respiro lievemente più rilassato.
Il brigadiere, col suo atteggiamento flemmatico ma affatto remissivo e tinto da una punta d’ironia, riesce sempre a infondergli calma; la sorta di calma di una diga robusta messa ad arginare un oceano di acque e che solo una falla può far scoppiare in potenza. La sua posatezza è ciò che gli serve per tenere i piedi ben piantati per terra, visto che i suoi pensieri volubili tendono a voler schizzare verso l’alto come elio in un aerostato imbizzarrito.
Il caso. Deve pensare al caso, ad Annina, a Gigliolo, e a nient’altro.
Si accosta al secondo faldone, “1916”, trovando solo dopo molti minuti il nome di Fernando Gigliolo. Assieme a Maione, ne ricostruiscono la carriera militare con un confronto incrociato dei registri, traendone l’immagine del perfetto patriota che tanto aggrada al Partito.
Arruolatosi volontario nel 1896, combattente nella Campagna di Libia nel 1912, poi assegnato già come tenente alla 2ª Armata all’inizio della Grande Guerra; combattente sul campo sin dalla Prima battaglia dell’Isonzo, distintosi a Gorizia sotto il generale Capello e promosso sul campo a capitano... un rifulgere di successi, almeno fino alla disfatta di Caporetto, unica macchia evidente.
La 2ª Armata sparisce di fatto dai registri, annichilita, cancellata dalla memoria. Dopo un breve permesso, durante il quale presume abbia incontrato e sposato Caterina, il nome di Gigliolo riappare assegnato alla 3ª Armata, in precipitosa “ignobile” ritirata dal Cadore, per poi proseguire il servizio nella 4ª, fino alla “gloriosa” Battaglia del Solstizio.
Qui vinse la prima medaglia d’argento al valor militare; quella che, a detta della vedova Gigliolo, forse custodiva nella cassaforte. Nulla di nuovo o di utile alla loro causa, se non a confermare la sua condotta impeccabile, almeno agli occhi del regime.
«Maione,» chiama sottovoce dopo un po’, puntando l’indice sugli svolazzi d’inchiostro sbiaditi dal tempo. «Ho trovato Renato Vinciguerra. Iannello ricordava bene, hanno servito nella stessa armata subito dopo Caporetto.»
Maione molla il faldone del 1916 e passa al suo, del 1917, scorrendo insieme a lui le pagine in cerca degli altri commilitoni, col rischio di farseli sfuggire nel fitto intersecarsi di matricole, innumerevoli croci ai caduti e macchie d’umidità e inchiostro.
«Onofrio Pascale, qua,» Maione, dopo molti minuti, piazza un dito tozzo sotto quel nome semi cancellato. «Uscito vivo dalla guerra, l’età mi pare coincidere e pure l’occupazione sua e del padre. Sono orefici, no?»
«Sì, mancavano pure molti monili all’appello nel suo inventario. Lui s’è ritirato dalla carriera militare col grado di tenente colonnello.»
Mettono una matita nel libro, a segnare la pagina.
«E Antonio D’Angelo,» conclude Ricciardi, dopo altri, lenti minuti di ricerca e occhi strizzati per decifrare le differenti grafie degli archivisti. «Uscito vivo anche lui, attualmente maggiore, età plausibile, mercante di tessuti. Sono nomi e professioni comuni a Napoli, ma stanno tutti e quattro assieme a Gigliolo e tutti e quattro nella stessa divisione.»
«Diamo per buono che siano loro, commissa’, altrimenti non ne usciamo più,» suggerisce pragmaticamente Maione, stropicciandosi le palpebre. «Abbiamo conferma del fatto che abbiano davvero prestato servizio insieme... cosa che nessuno di loro ha ritenuto rilevante menzionare.»
Ricciardi annuisce in silenzio, rimuginando su quel fatto. Può essere stata una loro svista innocente, ma anche un modo per evitare collegamenti spiacevoli con Gigliolo, se le sue inclinazioni erano note. Non gli torna, però: un sospetto del genere sarebbe saltato fuori già negli interrogatori preliminari, non certo tramite minaccia dell’OVRA. Non era un qualcosa di noto ai più; o, come si sta convincendo sempre più, l’OVRA ha semplicemente tratto conclusioni affrettate. Non tanto circa la colpevolezza o meno di Gigliolo, quanto alle circostanze precise.
«E tutti e quattro sono stati rapinati...» contina a mezza voce, tamburellando sulle pagine con un crepitio sordo. Si arresta di scatto. «Le medaglie.»
«Scusate?»
«Le medaglie,» ripete Ricciardi, con più convinzione. «Caterina Gigliolo ha detto di esser quasi certa che il marito, in quella cassaforte, custodisse una medaglia vinta durante... cos’era? La “Battaglia del Solstizio”.»
«Sì, sì... come piace tanto chiamarla al Vate e agli archivisti, qua,» commenta Maione sovrappensiero, grattandosi la tempia con un dito, per poi allargare gli occhi. «Scusate, ma Iannello non ha detto che...»
«Che a Vinciguerra, tra le altre cose, era sparita una medaglia al valore. Intendevo questo.» Ricciardi tende le labbra, concentrato. «Dobbiamo ricontrollare l’inventario, ma sono quasi certo che pure Pascale e D’Angelo avessero denunciato la scomparsa di alcune medaglie. Tu te ne ricordi?»
«Non c’ho fatto molto caso, perdonatemi. Non hanno mica rubato solo quelle. Pochi oggetti piccoli, di gran valore, facilmente trasportabili... sensato, se hanno davvero usato i cunicoli sotterranei.»
«Non sono di facile accesso, no, soprattutto se cerchiamo un uomo di stazza considerevole,» concorda Ricciardi, ricordando con quanta difficoltà era sceso nella cisterna. «E, se rimaniamo sull’ipotesi dei bambini complici, non potevano comunque trasportare chissà quanto peso.»
«Immagino volessero pure far ricadere la colpa sulla servitù, mascherandoli come furtarelli che non dessero nell’occhio.»
«Sì, ma con tutti gli oggetti preziosi che puoi trovare in un’abitazione, perché rubare proprio delle medaglie? Sono placcate, ma non valgono chissà cosa e non sono nemmeno facilmente rivendibili.»
«Perché si ha in odio l’esercito o perché si vuol fare uno sfregio a qualcuno, commissa’.»
«O, magari, entrambe le cose,» mormora Ricciardi, oscillando appena sul posto, i palmi piantati ai lati del faldone a sostenersi. «Un disertore che è stato tradito, forse?»
«E perché non ammazzare anche gli altri tre, oltre a Gigliolo? E perché ora, poi, dopo più di quindici anni?» ribatte Maione, con una vena d’esasperazione. «A me pare che stiamo cercando un pazzo, qua, non un ladro.»
Ricciardi scuote appena il capo, non escludendo in cuor suo l’ipotesi: se prima ci stava capendo poco, di quell’omicidio, adesso gli pare di capirci ancora meno, soprattutto se nell’equazione deve incastrarci anche Annina e il Munaciello.
Il punto è proprio questo: Annina e Gigliolo sono collegati ai furti, in qualche modo, ma viaggiano su un sistema diverso e parallelo, messo in correlazione al resto dal Munaciello. Come, però? Perché il furto a casa Gigliolo è stato diverso dagli altri ed è finito in tragedia?
Non crede di potersi dare risposta certa adesso; per ora, sarebbe un passo avanti anche solo capire il nodo comune tra D’Angelo, Pascale e Vinciguerra.
Ripensa allo studio di Gigliolo e gli si para davanti l’immagine di Bruno che, poggiato insofferente allo stipite, posava gli occhi su un busto romano nell’angolo e, poi, su una teca ricolma di medaglie al valore. Le rivede sfavillare al sole sul loro velluto rosso: il vetro era chiuso, non ne mancava nessuna. La cassaforte, invece, era spalancata; aperta con una chiave che Gigliolo si portava probabilmente addosso.
Gira il capo verso Maione, con un lieve sussulto.
«No, Maio’. La domanda non è perché rubare delle medaglie; ma perché rubare proprio quelle medaglie.»
Il brigadiere si acciglia, interdetto, ma Ricciardi non vi fa caso e riprende a sfogliare rapido le pagine del registro, tornando a dove hanno messo delle matite a segnare i nomi di Vinciguerra, Pascale e D’Angelo. Un fremito vittorioso lo attraversa nel constatare ciò che sospettava. Ticchetta la mina sul foglio, lasciandovi leggeri granelli di grafite.
«Leggi qua: tutti e quattro si erano guadagnati una medaglia d’argento al valor militare sul Piave, nella stessa giornata e nella stessa azione bellica. Hanno fatto saltare un deposito di munizioni austriaco in un’incursione notturna, il 23 giugno 1918.»
Maione annuisce lentamente, ma lo squadra dubbioso.
«D’accordo, e questo che ci dice sul ladro e presunto omicida?» Al suo silenzio, Maione scrolla appena le spalle. «Commissario, datemi retta: qua ci stiamo a ’mbriglià.»
Ricciardi scuote la testa con decisione.
«No, no, deve... deve essere questo, il dettaglio chiave,» ripete, scollando gli occhi dal registro e puntandoli verso la vetrata, da cui si scorge l’affaccendato viavai davanti alle Poste in costruzione. «È questo, che ci sta sfuggendo dall’inizio, è...»
Si interrompe nel riabbassare lo sguardo sul registro. Non ci aveva fatto molto caso, finora, ma vi è una piccola croce in inchiostro rosso, diversa da quella ai caduti, a segnare alcuni nomi. A un rapido esame, conclude che stia a segnalare i feriti in battaglia, come riportato nel breve riepilogo sotto ogni nome e matricola.
«È alto, commissa’, chhiù alto ’e vuje, pure si sta tutto sgarrupato.»
La voce di Cristiano riemerge squillante, ancora freschissima nella sua memoria.
«È sciancato, uno zoppo.»
«Raffaele,» lo prende per la spalla d’istinto, colto da un fremito incontenibile, «ricontrolla i registri e vedi se qualcun altro, oltre ai nostri quattro, ha preso parte a questa precisa azione bellica il 23 giugno 1918, al Passo del Tonale. E vedi se è rimasto ferito.»
L’altro lo squadra interrogativo, ma con quel sottile strato d’aspettativa di quando sa che lui è arrivato a una conclusione ancora troppo fumosa per essere tradotta in parole. Annuisce secco.
«Subito, commissario.»
«Io vado a richiedere i registri degli invalidi e mutilati dell’anno 1918, poi torno ad aiutarti,» conclude, congedandosi con una breve pacca e sfrecciando subito verso l’uscita.
Scende le scale quasi saltando i gradini e, pochi minuti di manfrine e salamelecchi più tardi, torna a passo di carica nella stanza dell’archivio, portando sottobraccio un pesante tomo che l’impiegato gli ha prelevato da una teca sottochiave, raccomandandogli la massima premura.
Lo posa sul leggio accanto a Maione, ancora curvo a consultare i ruoli matricolari, e gli si fa poi di nuovo accanto. Scorrono assieme le pagine, lui quella a sinistra e l’altro quella a destra, gomito a gomito, in un ritmo di lettura che ben presto diviene metodico e sincronizzato.
È Maione il primo a esalare un sospiro soddisfatto, mandandolo quasi in fibrillazione.
«Ecco, ecco... Cesare Lionetti. Stessa giornata, stessa azione, medaglia d’argento pure lui... ah,» storce poi la bocca. «Alla memoria. È caduto in battaglia.»
«Non importa, Maio’, continuiamo,» lo incita Ricciardi, domando il moto di delusione in mezzo al petto e rituffandosi tra le fitte righe d’inchiostro.
Ne trovano altri tre deceduti, prima che Ricciardi freni il dito su un nome, il polpastrello che quasi trema contro la carta sottile.
«Arturo Esposito,» pronuncia, con le palpebre che sfarfallano per mettere a fuoco il resto. «È ancora vivo. Medaglia d’argento al valor militare. Segnato come ferito nell’azione sul Passo del Tonale.»
Maione è svelto a leggere il numero di matricola per poi aprire il registro degli invalidi, sfogliandolo il più rapidamente che può senza strappare le pagine. Ricciardi stringe le mani sui margini dell’altro libro, gli occhi inchiodati su quel nome. Un fremito gli attraversa la schiena.
«Commissario, eccolo,» annuncia Maione, picchiettando l’unghia sulla pagina. «Arturo Esposito, ferito gravemente alla gamba sinistra e congedato con onore dopo la Battaglia del Solstizio. Ha percepito una pensione sino a gennaio del 1925, quando...» s’interrompe brevemente, poi la sua voce assume una sfumatura più intensa, «...ha preso i voti ed è stata revocata.»
Ricciardi si sente il suo sguardo addosso, ma non lo ricambia, ancora impuntato sul nome dinanzi a sé, quasi potesse farlo uscire dalla pagina. Gli salta all’occhio tutto, adesso, del breve specchietto identificativo che lo accompagna.
Nessun familiare. Allevato all’Annunziata. Un metro e ottantasette d’altezza per novantadue chili di peso. Addetto idraulico ai lavori fognari in Napoli centro del 1913.
A ogni dettaglio che si incastra nella ruota dentata di quel meccanismo, Ricciardi sente montare in sé la cupa euforia che lo accompagna quando si avvicina un passo alla volta al colpevole. Fissa quel nome, vergato con eguale precisione e non dissimile da tutti gli altri che lo attorniano, e sente le labbra inclinarsi impercettibilmente, in una smorfia a mezza via tra il vittorioso e la repulsione.
Un unico pensiero emerge dal magma caotico degli altri, un’eco urlata che si sovrappone al richiamo di Annina; un pensiero che gli sfugge infine ad alta voce, in un’impennata trionfante:
«T’ho trovato, Munaciello.»
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
c'è voluto un bel po' di tempo, ma finalmente il nostro Munaciello ha un nome! Non un volto, ancora, ma per quello ci sarà tempo.
Se non vi torna qualcosa... beh, tranquilli: non torna nemmeno a Ricciardi, ma nei prossimi capitoli tutti i nodi verranno al pettine ;)
Giusto per chiarezza: io non ci potevo credere e mi sembrava fin troppo conveniente, ma la documentazione di leva all'epoca della Prima guerra mondiale riportava tutte le informazioni che trovate nel capitolo. Nome dell'arruolato, nome e mestiere del padre, eventuale mestiere dell'arruolato, data e luogo di nascita... una manna per gli investigatori, insomma! (e per me, il cero a santa Rita lo accendo io).
Invece, i registri matricolari documentavano la carriera strettamente militare, incluse onorificenze e ferimenti, con qualche dato anagrafico più scarno.
Quisquilie a parte, spero che il capitolo vi sia piaciuto <3
Grazie a tutti coloro che continuano a leggere, commentare e votare questa storia!
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