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Autore: Francine    26/02/2024    2 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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11.


 

«Ti si è incantato il disco, Tiennot?»

Accomodata sul suo sgabello preferito e armata di cucchiaino, Maman Louise raccoglieva con cura la schiuma del cappuccino dalla tazza ormai vuota. Il tintinnare dei suoi braccialetti faceva da grazioso controcanto alla voce maschile che, dagli altoparlanti, cantava con struggente malinconia.

«Sarà la terza volta che ascolto Le vent nous portera

Tiennot si affacciò dal laboratorio e le sorrise. «Porta pazienza, Milou. Oggi è il mio compleanno. Domani tutto tornerà alla normalità.»

«Bah», sbuffò lei. «Altri cinque minuti e torno davvero indietro nel tempo.»

Tiennot incassò e fece per rientrare nel laboratorio, quando sua madre gli si parò davanti. «E questo di chi è?»

Nelle sue mani stringeva uno smartphone. Ultrasottile, custodia nera, uno sfondo in scala di grigi.

«Dove…», lo hai trovato?, avrebbe voluto chiederle. Ma si limitò ad andare con lo sguardo da sua madre allo smartphone, e viceversa, un paio di volte. E un altro paio ancora. Così, tanto per essere sicuro di vederci ancora bene.

«Era nel retro», rispose Françoise. «L’ho trovato sotto la panca, accanto alla porta.»

«Forse tua figlia lo ha trovato ieri e lo ha lasciato lì, nella speranza che il proprietario torni…»

«In quel caso, tua sorella lo avrebbe lasciato qui, nel secondo cassetto sotto la cassa. Nel reparto degli oggetti smarriti.»

 

Françoise si avvicinò al bancone e aprì il suddetto cassetto. Conteneva gli oggetti più disparati: due foulard, un paio di occhiali da sole, un pacchetto di gomme da cancellare, un portamine fuxia, una mappa pieghevole di Parigi, un orologio da polso, una confezione di sei di calzini, e altre cose che gli avventori distratti lasciavano al Verse-Eau. Alcuni - pochi, a voler essere sinceri - tornavano a cercarle. Altri - turisti o avventori di passaggio, per lo più - no; e il secondo cassetto, alla fine dell’anno, veniva svuotato e il suo contenuto deferito o alla pattumiera, o a padre Jacques, che lo avrebbe dato in beneficenza.

«E di chi potrebbe essere, Fanchon?»

Maman Louise osservava con estremo interesse la scena.

«Non lo so», confessò Françoise, posando il telefono sul tavolo. «C’è il blocco, ho paura di fare casini. E poi lo sai, a me dà fastidio. Mi sembra di frugare nella vita delle persone.»

Uno sbuffo, più simile ad uno stantuffo, e Maman Louise si rivolse a Tiennot.

«Pensaci tu.»

«Io?»

«Sissignore», insistette il donnone, il tintinnio di braccialetti ed orecchini come coro greco. «Questi cosi sono di vitale importanza, oggigiorno. Magari qui dentro ci sono dei documenti. Dei documenti importanti. Sai bene anche tu che rogna galattica sia perdere certe cose, no?»

Sbuffando a sua volta, Tiennot si avvicinò e prese tra le mani il cellulare. No. Non dirmi che…, pensò, temendo e accettando, con una certezza che non aveva bisogno di essere comprovata, a chi appartenesse esattamente quel coso. 

«Allora?», lo incalzò maman Louise. «Ti decidi o no?»

«Come siamo curiose, stamattina», la canzonò Tiennot. E poi si decise. Premette un tasto laterale ed apparvero i nove puntini della combinazione. E adesso?, si chiese. Poi, come spinto da una illuminazione divina, tracciò una Z sul display. Il telefono si sbloccò.

Sentendosi un Arsène Lupin 2.0, Tiennot ne esaminò il contenuto. Qualche appunto sparso. La scansione del passaporto. Fotografie.

«Allora?»

E il pensiero e il timore e l’accettazione, con magnanima clemenza, gli fornirono tutte le evidenze, una accanto all’altra, cosicché non sussistessero più dubbi. O speranze. O scappatoie. Di alcun tipo. A prova di idiota.

«Credo di aver capito di chi è», rispose Tiennot, aprendo una Nota intitolata Parigi. C’era un indirizzo. Il posto dove alloggiava. Pigalle. Aveva detto di stare in una chambre d’amis, no?, si rammentò, appuntandosi mentalmente l’indirizzo. Mise il blocco tasti e infilò il telefono nel cassetto degli oggetti smarriti, chiudendolo con un gesto secco. 

«L’Hemingway in salsa aioli deve averlo perso ieri».

«Ma bisogna avvertirlo», disse Françoise, sgranando gli occhi.

«Vedrai che se ne accorgerà da solo», ribatté Tiennot, tornando in laboratorio.

«No, Tiennot», insistette la donna. «Bisogna avvisarlo, e bisogna farlo subito.»

«Anche volendo», la interruppe lui, « il suo telefono è qui».

«Portaglielo. Tanto qui non c’è nessuno.»

«E io che ne so di dove alloggia?»

«Ma come, non ne avete parlato ieri sera a cena?»

«E tu…» come lo sai? 

Ma la domanda rimase lì, muta, impigliata tra le labbra. E come diamine avrebbe potuto saperlo altrimenti, se non grazie a quella lingua lunga di Coco? Magari si è pure vantata, pensò Tiennot, immaginandosi la scena di sua sorella e sua madre che, sedute al tavolo della cucina, si passavano lo smalto sulle unghie e chiacchieravano della sua serata romantica, come due sensali fuori tempo massimo.

Le elucubrazioni sul modo in cui avrebbe fatto scontare a sua sorella quell’ennesima bravata, furono interrotte dalla voce squillante di Maman Louise, che riecheggiò nel Verse-Eau con la potenza di una cannonata.

«Davvero?! E come è andata, come è andata?»

 

A puttane. Metaforiche. Ché se fossero state vere, sarebbe andata meglio, avrebbe voluto rispondere Tiennot. E se si fossero trovati nel loro appartamento, lo avrebbe anche fatto; ma si trattenne. Non era il caso. C’era solo Papa Nouriet sprofondato nella sua poltrona preferita, con Salsiccia che sonnecchiava paziente sotto al tavolino. E, probabilmente, Papa Nouriet ne aveva sentite - e dette - di ben più pesanti nel corso della sua lunga vita. Ciò nonostante, un pudore inaspettato fece serrare le labbra di Tiennot.

«Allora?», l’incalzò Milou, che forse quel giorno aveva lasciato buonsenso e preveggenza sul comodino, accanto alle pillole per la pressione e ai bigodini.

«Al solito», rispose Tiennot per cavarsi dall’impaccio. «Tienilo tu», disse a sua madre. «Quando tua figlia ci farà la grazia di manifestarsi, chiedile di avvisare l’Hemingway in salsa aioli. Ci penserà lei.»

«Oggi tua sorella non viene», lo rimbeccò Françoise. «Te ne sei dimenticato?»

«Non viene?»

«No», ripetè Françoise. «Ha un esame, oggi.»

Tiennot si strinse nelle spalle. «Pazienza. Vorrà dire che glielo porterà se e quando avrà finito.»

«No.» E in quel monosillabo Françoise infuse tutta la propria determinazione. E la propria autorità materna. «Quel povero ragazzo potrebbe avere bisogno del suo telefono. Magari lo sta cercando. Prima che blocchi le carte di credito, è il caso di scoprire dove alloggia e fare un salto a riportarglielo. Subito.»

Discorso chiuso.

Sbuffando, Tiennot avanzò a passo di carica verso la cassa, aprì il cassetto quasi volesse scardinarlo e prese - arraffò - il cellulare con la stessa grazia di un Roc affamato. E parecchio incazzato, tale da far sembrare una mammoletta quello che aveva affondato la nave di Sinbad. Sbloccò lo schermo e fece finta di frugare tra gli appunti. Bloccò per l’ennesima volta il telefono, se lo mise nella tasca posteriore dei jeans e si diresse a spron battuto verso il laboratorio.

«Vado e torno», disse - ringhiò - infilandosi il cappotto e buttando di malagrazia la sciarpa attorno al collo. Era caduta la neve, quella notte. Una bella nevicata di inizio febbraio, giusto una spruzzata di cipria sul nasino di una bella donna. Non durerà, vaticinò Tiennot, infilando la porta sul retro ed uscendo in strada.

«Aspetta!»

Sulla soglia, Françoise lo fissava stringendo tra le mani due bicchieri da asporto ed una busta di carta. Tiennot tentennò. Sua madre distese le braccia davanti a sé.

«Non credo che oggi verrà. Portagli la colazione. Offre la casa.»

«Cosa?!»

Senza accorgersene, Tiennot era tornato indietro. 

«Scusami?»

«Quel telefono era qui, ieri sera. Dopo che siete stati a cena», disse Françoise.
«E tu?» come fai a saperlo?

Un sospiro, una ciocca di capelli scivolati sullo sprone del grembiule, Françoise aggiunse: «Tua sorella era con me, quando ha mandato quei messaggi. Non la giustifico. Anzi. Le ho fatto una bella lavata di capo. Ma quel ragazzo non ha perso il telefono ieri, durante l’orario di lavoro. L’ha perso dopo.».

Tiennot tacque. Sua madre gli mise tra le mani i due bicchieri da asporto e la busta coi croissant. «Non so cosa sia successo, e non sono fatti miei», proseguì, sistemando la sciarpa attorno al collo del figlio. «Ma portagli quel cellulare. Potrebbe averne bisogno.».

«E la colazione?», domandò Tiennot, indicando col mento busta e bicchieri.

«A stomaco pieno è tutto più facile», rispose lei. Sorrise, girò sui tacchi e si chiuse la porta alle spalle.

 

«Fanchon, si può sapere che sta succedendo? E si può sapere perché sono sempre l’ultima a sapere le cose? Queste cose rovinano gli affari. Di sicuro, i miei

Maman Louise aveva un’aria particolarmente stizzita. Tamburellava le unghie laccate di rosso scuro sulla superficie lucida del bancone, in attesa di una risposta.

Françoise si strinse nelle spalle.

«Ne so quanto te, Milou», rispose. «Sai anche tu com’è fatto Tiennot, no?»

«Secondo me, tu ne sai più di quanto vuoi darmela a bere», replicò il donnone, tintinnio argentino d'ordinanza e sguardo cupo. «Anzi, fai una cosa. Preparami un altro cappuccino, così mi spieghi tutto per filo e per segno. E spegni questa maledetta lagna!»


«Dove cazzo è finito?!»

Rodrigo aveva rivoltato la stanza da cima a fondo, ma niente; nessuna traccia del suo smartphone. Era come se si fosse volatilizzato. Puff. Svanito in una bolla di fumo. Solo che uno smartphone non è esattamente una colomba che scompare nel doppiofondo del cilindro del prestigiatore. Doveva essergli caduto da qualche parte. Sì, ma dove?, si chiedeva, imponendosi di restare calmo. Al ristorante? Lungo il tragitto di ritorno? Al Verse-Eau?

Rue du Dragon porta sfiga!, sentenziò tra sé e sé, lasciandosi cadere sul bordo del letto. E adesso?

E adesso non ti resta che vestirti, armarti di santa pazienza e percorrere la strada a ritroso. Anzi, au rebours, come dicono qui. E sperare di trovarlo in uno dei tre posti.

La voce di Aiolos avrebbe detto questo, col suo solito tono pacato da persona saggia, che cerca di evitare al prossimo suo d’affogare in un bicchiere d’acqua.

Ma quella mattina, la voce di Aiolos se ne restava in silenzio, come se quelli non fossero fatti suoi. Forse, dopo averglielo caldeggiato più di una volta, si era decisa ad andare davvero a farsi benedire - a farsi fottere, a voler essere precisi - e lo aveva piantato in asso proprio quando ne aveva più bisogno.

Mi sta bene, si disse Rodrigo, le mani nei capelli.

Sbuffò, diede un calcio allo zaino - fortunatamente vuoto - e si risolse a prendere il toro per le corna. Si sarebbe vestito, sarebbe tornato a vedere se, per qualche fortuito caso, avessero ritrovato il suo smartphone al Verse-Eau o da Giselle,e, nel malaugurato caso in cui le cose fossero andate male, avrebbe provveduto a bloccare le carte di credito.

«Paga col cellulare! Lo fanno tutti, è così pratico!», disse, scimmiottando la voce di Aiolia. «Dannato stronzo. E ancora più stronzo io, che ti ho dato retta!»

Si infilò il resto - camicia, maglione, scarpe, sciarpa e cappotto - prese le chiavi e controllò un’altra volta di avere ancora almeno il portafogli.

Afferrò la maniglia della porta e la spalancò di impeto, pronto a lanciarsi alla carica, alla ricerca del cellulare… solo per trovarsi davanti Tiennot.


«E tu…» che ci fai qui?

Ma anche, Come hai fatto a trovarmi?

E pure, Come hai fatto ad entrare?

E infine, Che sta succedendo?

Rodrigo avrebbe potuto propinargli una di queste quattro versioni, tra le altre che salivano a galla nel brodo primordiale del suo cervello, come pesci attirati dalle lampare; invece scelse di fissare Tiennot come se si fosse or ora teletrasportato da Plutone. O forse da uno o due sistemi solari più in là.

«Ho portato la colazione», disse Tiennot, mostrandogli la busta di carta e i due bicchieri termici, come a dimostrare le sue buone e pacifiche intenzioni. Come se questo spiegasse tutto. Come se fosse la cosa più normale del mondo. «Mi fai entrare, o restiamo sul pianerottolo?»

Come se si fosse appena da un incantesimo, tipo il sonno centenario della Bella Addormentata nel Bosco - È il bosco a dormire, non lei!, avrebbe puntualizzato la vocina petulante di Aiolos -, Rodrigo si fece da parte e lo lasciò passare. Tiennot scivolò dentro. La porta, questa volta, si richiuse alle sue spalle. 

«Poggia pure qui», disse Rodrigo, avanzando verso la scrivania sotto alle finestre e scansando il portatile, il taccuino con gli appunti e un’altra serie di cianfrusaglie alla deriva.

Tiennot eseguì.

«Scusa il disordine, non aspettavo ospiti», biascicò Rodrigo, tirando lenzuola e piumone in un colpo solo per coprire alla meno peggio il letto sfatto, mentre Tiennot scioglieva la sciarpa e slacciava il cappotto.

«No, scusami tu piuttosto», disse, guardando fuori dalla finestra gli abbaini blu stinto che incorniciavano una vista spettacolare: la cupola del Sacré Cœur in lontananza, uno sbuffo di panna in un cielo grigio acciaio. «Che posto fantastico.»

«Sì. Verissimo», concordò Rodrigo. «Centrale, silenzioso. I proprietari sono adorabili.»

«Devo ricordarmene», proseguì Tiennot. «Sai, per quando vengono certi parenti…»

«Ho presente.» Rodrigo si liberò del proprio cappotto e lo buttò sul letto. «Dammi la giacca.»

Tiennot si voltò. «No, non ti preoccupare», ribatté. «Non mi fermo. Stavi uscendo e non voglio disturbare.»

«Hai portato la colazione…», disse Rodrigo.

«Per non bussare a mani vuote», replicò Tiennot. Si frugò nelle tasche e ne estrasse il telefono di Rodrigo. «Lo hai lasciato al Verse-Eau. Ieri sera.»

Rodrigo allungò una mano e prese lo smartphone. 

«Grazie», disse, soffiando fuori l’aria con lo stesso, identico impeto di un palloncino che si sgonfia. «Oddio, grazie. Mi hai salvato…»

«Di nulla.» Pausa. «Per fortuna, lo hai perso da me. Fai più attenzione, la prossima volta.»

E fece per riannodare sciarpa e cappotto, quando Rodrigo, smartphone stretto tra le dita, gli chiese in automatico: «Dove vai?», incagliatosi, però, su un altro pensiero. A ripetizione. Prossima volta? Quale prossima volta?

«Torno al Verse-Eau», rispose Tiennot, squadrandolo con un’espressione indecifrabile. «Stavi uscendo, non voglio farti perdere tempo.»

«No. Tu adesso aspetti un momento.»

 

La voce di Rodrigo, bassa e pronta allo scontro, gli aveva piombato le gambe, la maniglia ancora stretta tra le dita. 

«Pardon

Rodrigo si alzò. 

Si avvicinò alla soglia.

Richiuse la porta.

«Stavo uscendo come un indemoniato alla ricerca del cellulare», spiegò. «Avrei battuto a ritroso il percorso di ieri, pregando che tu o Giselle l’aveste trovato.» Tiennot annuì. «Tu mi appari sulla soglia di casa, una casa non mia, e me lo riporti. Io ti ringrazio di cuore. Ma adesso ti siedi e parliamo. Da persone civili.»

«Ho da fare al…»

«Ti ruberò mezz’ora. Il tempo di un caffè.» E a quest’ora il tuo locale è un mortorio. Lo so io e lo sai tu.

«Non devi andare in giro?», gli chiese Tiennot. «Sai, per la tua guida.»

«La guida può aspettare», ribatté Rodrigo. Tanto, ormai…

Tiennot capitolò. Alzò le mani, in segno di resa e tornò sui suoi passi, lasciandosi cadere su una sedia miracolosamente vuota in tutta quella mala bolgia che si spacciava per una chambre d’amis. «D’accordo…»

«Quanto sei testardo…», borbottò Rodrigo avvicinandosi. 

Il bue che dice cornuto all’asino, annotò la voce della coscienza, quella proba e sempiternamente inascoltata di Aiolos, emersa per l’occasione dalla latitanza. E, sempre per l’occasione, dai recessi della sua crapa e’ ciucco, la voce di Marco si unì a fare da coro: Quando il porco spezza la catena, va dall’altro porco e si streca

Fottetevi. Tutti e due.

Coprì alla bell’e meglio il delirio in cui aveva trasformato la chambre d’amis - scalciando sotto il letto calzini e mutande e fazzoletti e - e si avvicinò al proprio ospite. Aprì - squarciò - la busta di carta e ne estrasse due croissant. «Grazie. Con tutto quello che è successo…»

«Idea di mia madre», si affrettò a chiarire Tiennot. «Ha insistito perché ti riportassi il telefono al più presto.» Pausa. «Aveva ragione lei.»

«Mi avete salvato», rispose Rodrigo, addentando il proprio croissant e scoprendo di avere una voragine al posto dello stomaco. Una voragine tale che minacciava di portarsi appresso lui, Tiennot, la stanza, l’Opéra e mezza Pigalle. Boulevard de Clichy incluso. «Qui dentro c’è metà della mia vita e buona parte del mio lavoro.» Per non parlare della carta di credito, del biglietto di ritorno, eccetera eccetera…

«Immagino», disse Tiennot, con nonchalance, mentre prendeva un bicchiere termico e lo liberava dal coperchio. 

«Come…» hai fatto a capire dove abito? Questa avrebbe dovuto essere la domanda di Rodrigo, domanda logica e puntuale, pertinente e più che giustificata. Ma Tiennot non gli lasciò il tempo di darle corpo e fiato.

«Ho sbirciato nel telefono alla ricerca di uno straccio di informazione, o di un contatto e-mail», ammise - confessò - Tiennot. 

E Rodrigo si sentì gelare le viscere. Occristo, pensò. Occristo non avrai visto…

«So che non avrei dovuto. Ma non avevo altro modo per...»

La testa di Rodrigo andò su e giù un paio di volte. Meccanicamente, come quella di un automa uscito da un film espressionista.

«Ho trovato una nota. Parigi. E così ho scoperto dove abiti.» Pausa. «Mi dispiace. Seriamente, ma…»

Rodrigo tornò a respirare. «No, capisco…», disse, con il tono di chi, in realtà, non capisce affatto, ma si adegua a quanto la sorte gli ha scaricato tra capo e collo. «Ma come hai fatto ad entrare?»

«Era tutto nella nota. Indirizzo, piano, eccetera. Anche il codice per aprire il portone», spiegò Tiennot. «Ho suonato ad una delle due porte e mi ha aperto una donna. Mi ha spiegato lei che questa è la tua stanza. E poi tu hai aperto la porta come se la volessi scardinare.»

«Stavo per uscire alla ricerca dello smartphone», concluse Rodrigo. «Sai, per evitare di bloccare la carta di credito…»

«Comprensibile», chiosò Tiennot. Un sorso generoso di caffè. Una pausa. Poi il bicchiere sulla scrivania. «Tranquillo. Non ho invaso la tua privacy. Non più del necessario.» Ah, beh.

Così la prossima volta impari.

E poi, sempre la voce di Marco, ormai accomodatosi in pianta stabile: Okay. Ma a questo giro chi è che non si è fatto una chilata di cazzi propri? Chiedo per un amico.

 

Ignorandoli, Rodrigo alzò una mano, come a dire a Tiennot: Fa niente. E poi lo disse: «Fa niente…».

Tiennot mandò giù un altro sorso di caffè. 

«Okay. Se questo è tutto, io…» andrei.

«No, aspetta», disse Rodrigo. «Ad essere sincero, vorrei mettere le cose in chiaro. Una volta per tutte.»

Sant’Iddio, quanto sei pesante, sussurrò Aiolos.

Diciamo le cose come stanno, rincarò la dose Marco. La parola giusta - Non la voglio sapere, ‘sta parola giusta, tentò di stopparlo Rodrigo, come un terzino d’altri tempi. Invano. - è chiumm’. Senza se e senza ma. E senza o. 

Tiennot annuì, inconsapevolmente unendosi alla congiura.

 

Tu quoque?

«Ti devo delle scuse. La verità è che non avrei dovuto dire quelle cose, ieri sera.»

«Ma le pensi?», chiese Tiennot, rigirandosi il bicchiere tra le dita.

 

E con ciò, signore e signori, la teoria del porco eccetera eccetera non solo ha carattere transitivo e riflessivo, ma è anche ampiamente comprovata, chiosò Marco.

Rodrigo lo ignorò e tirò dritto.  

«Sì», confessò, guardando Tiennot dritto nelle palle degli occhi. «Sì, le penso. Ma non è questo il punto. Il punto è che tu volevi solo sfogarti e io ho invaso la tua privacy...»

«…con la delicatezza di un rinoceronte in un negozio di cristalleria», concluse Tiennot, un angolo delle labbra piegato all’insù. 

«Touché», ammise Rodrigo. «Non avrei dovuto.»

«No, non avresti dovuto», convenne Tiennot. «Così come io non avrei dovuto raccontarti qualcosa di così privato.».

«E?»

Rodrigo lo aspettava al varco, senza sceneggiate. Perché anche Tiennot l’aveva fatta fuori dal vaso, e Rodrigo non avrebbe considerato la questione chiusa se e solo se Tiennot non gli avesse porto le sue scuse. Marco approvò. E, del tutto ignaro del dibattito logico che stava avvenendo nella zucca di Rodrigo, Tiennot convenne che aveva ragione.

«E avrei potuto risparmiarmi quella battuta», chiosò Tiennot. «Il problema sai qual è?»

La testa di Rodrigo andò da sinistra a destra un paio di volte.

«Il problema è che ho capito chi sono… tradendo Bibi.»

Tiennot lo soffiò via con un fil di voce, come se fosse una confessione estorta ad un imputato dopo un lungo, lunghissimo interrogatorio in pieno stile Torquemada. Un Torquemada che s’era alzato dal letto con più di un diavolo per capello, e pronto, prontissimo, a portarsi appresso il mondo intero in un tripudio di fuoco e fiamme.

Ma non aveva appena detto che non avrebbe dovuto raccontare qualcosa di così privato?, sentì domandare la voce di Aiolos, con un improbabile sottofondo di popcorn sgranocchiati e aroma di burro fuso.

Si vede che fa Coerenza di cognome, chiosò Marco, rumore di ravanamento nel sacchetto.

Ma Rodrigo non registrò appieno né le obiezioni del coro, né il volume con cui Tiennot si lasciò sfuggire la sua confessione; nel cervello di Rodrigo, di solito attento ai dettagli, avevano iniziato a suonare a distesa una miriade di campanelli, nemmeno avesse fatto jackpot al caro, vecchio flipper di paese.

 

Ho capito chi sono tradendo Bibi.

 

E questo, anche agli occhi di chi, come Rodrigo, si ostinava a non voler vedere la verità anche dopo esservi andato a sbattere contro - a cozzarvi a muso duro, suggerì Marco -, portava ad una sola ed unica conclusione logica possibile. 

Alzò lo sguardo, come a cercare conferma nel viso di Tiennot.

«Sì», disse. Annuendo. «Giochiamo nella stessa squadra.»

Silenzio.

«Altrimenti», aggiunse Tiennot, «per quale altro motivo mia sorella avrebbe spedito me al posto suo?».

Alleluja! Alleluja nell’alto dei cieli, concordarono all’unisono la voce di Aiolos e quella di Marco. Rodrigo si aggregò. E poi disse: «In effetti… adesso che mi ci fai pensare…».

«Perché, scusa, non lo avevi capito?», domandò Tiennot, sinceramente interessato ai contorti e tortuosi passaggi logici - o presunti tali - che avvenivano dentro alla scatola cranica dell’Hemingway in salsa aioli.

«No», si lasciò sfuggire Rodrigo. Con lo stesso tono e lo stesso, flebile afflato di cui sopra. «Non è che quando vado a cena con una persona penso al dopo…»

Male, sentenziò la voce di Marco.

«No?»

«No!» E poi, per rimediare alla veemenza con cui aveva risposto, si affrettò ad aggiungere: «Esco con una persona se mi va di uscire con una persona. Se mi piace quella persona…».

Un luccichio pericoloso attraversò il viso di Tiennot; ma non gli chiese se gli piacesse, quanto gli piacesse, e in che modo gli piacesse. Si limitò ad un accenno di sorriso, quel tanto appena, e ribatté: «Comprensibile».

Rodrigo si ritrovò a respirare, ma qualcosa gli suggerì che forse - ma solo forse, eh - non era scampato allo sfondapiedi - termine tecnico - del suo ospite. Il quale, posate le mani sulle ginocchia, si sporse in avanti e propose: «Pari e patta e palla al centro?».

«Pari e patta e palla al centro», ripeté Rodrigo. Sollevato. «Mi è dispiaciuto buttare all’aria una bella serata.»

«Basta. Il passato è passato. Non parliamone più.» Tiennot gettò il bicchiere nel cestino della carta straccia e si alzò. «Però adesso devo proprio andare.»

«Non…» mangi il tuo croissant?, avrebbe voluto chiedergli, ma si limitò ad indicare la scrivania.

«Quello è per te», rispose Tiennot. «Io sono a posto così.»

«D’accordo. Passo dopo a saldare il conto.»

«Nossignore. Offre la casa.»

«Ma…»

«Niente ma. È un’idea di mia madre, e fidati. Non vuoi fare incazzare mia madre.»

«Mai sia», disse Rodrigo, alzando le mani in segno di resa. «Ringraziala da parte mia.»

«Sarà fatto.» Tiennot si annodò la sciarpa e si avvicinò alla porta.

Fermalo!, ruggì la voce di Aiolos.

Se non lo fai tu, lo faccio io, promise Marco.

E Rodrigo obbedì.

«Un’ultima cosa.»

Tiennot si voltò appena, la maniglia tra le dita.

«Sai quei moelleux al cioccolato? Quelli che, tra una cosa e l’altra, non sono riuscito ad assaggiare? Se passo più tardi, li trovo?»

«No», rispose Tiennot. «Sono già finiti.»

«La mia solita fortuna», sbuffò Rodrigo.

«Li rifaccio nel pomeriggio», disse Tiennot. Stupendo se stesso per primo. «Se vuoi…»

«Io oggi sono in giro», borbottò Rodrigo, afferrando il cellulare e controllando l’agenda. «Posso passare più tardi. In chiusura. O domani…»

«Stasera», propose Tiennot. «Io ho un impegno a cena, però mi libero per le undici.»

«Scanni tua sorella?»

«Come hai fatto a capirlo?» Tiennot sollevò le sopracciglia. «No, ho una cena. Dopo, sono libero.»

«Va benissimo», rispose Rodrigo. «Alle undici al Verse-Eau?»

«No. Te li porto io.»

«Come, li porti tu?», chiese, perplesso. «Non hanno bisogno di essere scaldati?»

«Funziona, quello?» 

Il mento di Tiennot indicò qualcosa alle spalle di Rodrigo. Che si voltò. E vide, sommerso da un cuscino e da un paio di jeans, il forno a microonde che Isabelle aveva messo a sua disposizione su un tavolino, assieme ad un bollitore elettrico, qualche bicchiere termico, una manciata di bustine di tè e del dolcificante.

«Credo di sì.» Ci pensò un po’ su, poi tornò a guardare Tiennot e aggiunse: «Sì, funziona. Ci ho scaldato un paio di ramen precotti.».

Lo sguardo di Tiennot si allargò di preoccupazione.

«Non è colpa mia se i ristoranti son chiusi il lunedì.» Rodrigo si strinse nelle spalle. «Bisogna pur mangiare, no?»

«E quello me lo chiami mangiare

«Sopravvivenza, suona meglio», ribatté Rodrigo. «Avessi avuto un fornello a gas, mi sarei esibito nel mio migliore cowboy gourmet

«Ho paura a chiedere.»

«Si prende un barattolo di fagioli. Si toglie l’acqua di conserva, questo sa farlo anche un imbecille. Si aggiunge olio, sale, salvia etc etc e lo si fa scaldare sul fornello.»

«E non scoppia?»

«No», rispose serio Rodrigo. Serissimo. «Apri il barattolo, possibilmente senza mozzarti una mano.» Pausa. «Dovresti provare, una volta.»

«Prima o poi», ribatté Tiennot, col tono di chi pensa, invece, Piuttosto crepo di fame e muoio di stenti. «Ci vediamo alle undici.»

E poi, con fare proditorio, si sporse verso Rodrigo, esibendosi in una bise - destra, sinistra, destra - più lenta del solito, sfiorando per tre volte le guance di Rodrigo, che ancora non avevano incontrato il rasoio, con le proprie, sbarbate alla perfezione.

Quindi infilò la porta e, senza dire né ah, né bah, se la richiuse alle spalle, lasciando Rodrigo più perplesso del solito e con addosso il sentore inteso del proprio dopobarba.

 

Ma tu ci sei o ci fai?, sussurrò la voce di Marco.

Per me ci fa, chiosò Aiolos.

Per me ci è, ribatté Marco. Ma c’è ancora margine di miglioramento.

Tu dici?

Lascia fare a zio…

 
   
 
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