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Autore: Francine    07/03/2024    1 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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13.


 

Il campanello della chambre d’amis suonò alle undici in punto.

Rodrigo, i capelli ancora umidi per la doccia veloce, si attardò a controllare che tutto fosse in ordine nella palladiana accanto alla porta; si sistemò per l’ennesima volta un ciuffo che non aveva alcun bisogno di essere sistemato; e, accortosi di un paio di calzini che sbucavano da sotto il letto, ve li calciò con forza, nella speranza che svanissero come per magia.

E non azzardatevi a saltare fuori sul più bello!

Quale sarebbe questo più bello?, lo canzonò la voce di Marco.

Rodrigo lo ignorò ed aprì la porta.

Sulla soglia, con una busta di plastica in una mano e quella inequivocabile di un’enoteca nell’altra, Étienne sorrideva. E poi disse: «Buonasera.».

 

Piano, ragazzo. Non bruciare le tappe, suggerì la voce di Aiolos.

Quali tappe?, ribatté Rodrigo, con la testarda ostinazione ad ignorare i segnali che il proprio corpo, la coscienza e l’universo mondo gli stavano mandando. Battiti accelerati. Pupille dilatate. Sorriso da imbecille ben stampato sul viso.

Che facciamo, cumpà? Lo facciamo entrare a ‘stu poveru cristianu, o restiamo tutta la sera sul pianerottolo?

«Benvenuto», disse Rodrigo, facendosi da parte, alla buon’ora. «Prego.»

Tiennot entrò. Rodrigo richiuse la porta, come se avessero, in realtà, varcato un limite da cui non sarebbero più tornati indietro.

«Scusa il ritardo», disse Tiennot, mentre l’orologio sulla scrivania rimarcava l’esatto contrario. «Posso?»

«Lascia pure tutto lì», disse Rodrigo avvicinandosi, «e dammi il cappotto.».

Intraprendente, il ragazzo…, commentò Marco. Aiolos sogghignò, in lontananza.

Tiennot eseguì. Posò le buste sul tavolo, in un acciottolato di posate e un tintinnio inequivocabile di bicchieri, ed estrasse un tire-bouchon dalla tasca del cappotto. 

«Sono venuto preparato.»

Eh-eh!, esclamò Marco

EH?!, si aggiunse Aiolos.

«Eh?», disse Rodrigo.

«Immagino che una chambre d’amis non abbia un tire-buchon, giusto?», spiegò Tiennot ad uno stralunato Rodrigo. 

«Non credo», commentò l’Hemingway in salsa aioli, prendendo sciarpa e cappotto del proprio ospite. Li appese a due stampelle libere sullo stender di design che troneggiava accanto alla palladiana. 

«Se da qualche parte hai dei bicchieri e non c’è il tire-bouchon, i tuoi padroni di casa sono dei barbari», sentenziò Tiennot. Senza appello. E poi estrasse una serie di contenitori dalla busta di plastica, disponendoli sulla scrivania. «Come è andata la giornata?»

«Bene. Ho fatto un paio di giri verso Saint Denis a controllare un paio di indirizzi.»

«Ne è valsa la pena?»

«In parte, sì. Uno dei ristoranti era ancora al suo posto. Gli altri sono diventati un fioraio ed un negozio di giochi da tavolo.»

Bicchieri di vetro. Li ho visti?, si domandò Rodrigo, aprendo le ante di un pensile stipato tra mensole e librerie stracolme di cataloghi fotografici, libri sulla fotografia, monografie su fotografi famosi. Sì, i bicchieri c’erano. Di vetro. Panciuti quanto basta per del vino rosso. Bicchieri e tire-bouchon. Dovessi mai brindare a qualcosa, pensò Rodrigo, richiudendo l’anta.

Non si è mai abbastanza preparati, ghignò Marco.

«Questa città cambia in fretta.»

Nel frattempo, Tiennot aveva estratto tutto il materiale dalle buste ed apparecchiato un desco spartano, ma elegante: un runner di stoffa bianco, due piattini di carta per il microonde, due bicchieri di vetro, una bottiglia di beaujolais, due forchettine, tovaglioli di carta e il galeotto tire-bouchon.  Aprì un contenitore ermetico e ne estrasse due moelleux au chocolat, scodellandoli in un terzo piattino. Si diresse al microonde, vi inserì i dolci, armeggiò con i watt e i tempi di cottura, e premette il tasto d’avvio. Come se stesse nel proprio laboratorio.

Come se stesse a casa sua, pensò Rodrigo.

 

Senti anche tu quest’auduri di fiori d’arancio, cumpà?, domandò la voce di Marco. Perculandolo apertamente.

Rodrigò glissò.

«Venti minuti, giusto?»

«No, qualcosa di meno», lo rassicurò Tiennot. «Bisogna solo scaldarli.»

«Apro il vino», si propose Rodrigo, dirigendosi verso la scrivania ed armeggiando con la bottiglia.

Occhio a non tagliarti una mano, lo canzonò ancora una volta la voce di Marco. Un primo appuntamento al pronto soccorso non è proprio l’ideale… Almeno, hai messo le mutande buone?

Sbuffando aria dal naso come un toro particolarmente nervoso, Rodrigo impugnò il tire-bouchon, strappò via l’alluminio che copriva il tappo, infilzò la punta nel sughero con la stessa veemenza con cui avrebbe tirato il collo a Marco, e, con studiata e raffinata lentezza, fece girare la testa della ballerina. Poi, una volta che le braccia di acciaio ebbero raggiunto la testa, Rodrigo le abbassò di colpo liberando il vino con un plop ovattato, provvidenzialmente coperto dal trillare del microonde.

«Sono pronti», annunciò Tiennot portando a tavola i moelleux. Li sistemò uno per piattino, mentre Rodrigo annusava il tappo. «Serve solo qualche minuto perché si raffreddino a sufficienza.»

Rodrigo versò il vino. 

«Perfetto. Così potremo fare quattro chiacchiere.»

Indicò una sedia all’ospite. 

«Se non ti spiace, preferirei sedermi sul bordo del letto», rispose Tiennot. Senza malizia nella voce. 

Sì, e io sono un polipo, chiosò Marco.

«Vada per il bordo del letto», concesse Rodrigo. E Tiennot, preso il proprio bicchiere, si accomodò. 

«Per fare quattro chiacchiere, va benissimo.»

«Se ti trovi più comodo a mangiare lì, per me è uguale», lo rassicurò Rodrigo.

Tiennot scosse la testa con convinzione. Come se l’altro avesse appena bestemmiato. 

«Non sopporto le briciole nel letto», spiegò. Nessuno gliel’ha chiesto, glossò Marco. E tu sei caduto di testa dal seggiolone. «Mi sanno di sciatto. E potrei sporcare le lenzuola con il vino.»

E allora perché vuoi sederti sul bordo del mio lett.. ah!, pensò Rodrigo.

Esatto, sussurrò Aiolos.

«Esistono le tintorie», replicò Rodrigo. «Davvero non hai mai mangiato a letto?»

«Solo da moccioso. Quand’ero davvero malato.»

Madonna, che palle questo!, sentenziò Marco.

«Madonna», si limitò ad esternare Rodrigo, rigirandosi il bicchiere tra le dita. «Mangiare a letto è uno dei piaceri della vita», aggiunse, prendendo a prestito una delle massime preferite di Marco. Che applaudì fuori scena.

«Se e quando ne hai il tempo.» Tiennot si lasciò sfuggire un accenno di sospiro, come a dire che sì, la vita che aveva scelto pretendeva dei sacrifici; ma che per lui, questi sacrifici non erano poi tutto questo gran peso. «Io mi alzo alle quattro, e quando torno a casa sono le tre del pomeriggio», aggiunse. «Voglio solo chiudere la porta alle mie spalle, sfilarmi i vestiti e buttarmi a peso morto sul letto.»

«Tutti i giorni?», domandò Rodrigo, accavallando una gamba sull’altra.

«Domeniche escluse», rispose Tiennot, sorseggiando il vino. «Come vedi, la mia vita sociale è alquanto...»

«Sacrificata?», propose Rodrigo.

«Sacrificata», e Tiennot si fece scivolare quell’aggettivo in punta di lingua, come se ne stesse assaporando la consistenza. «Non proprio, perché a me fare il pasticcere piace. Però, suppongo che, agli occhi del resto del mondo, sacrificata possa calzare a pennello.»

Rodrigo tacque.

Il resto del mondo, pensò. E fu quando sentì lo sguardo di Tiennot su di sé che si accorse di aver dato corpo a quel pensiero. 

«L’ho fatto di nuovo, vero?», chiese, alzando le mani in segno di resa. «Ho pensato a voce alta.»

Tiennot annuì. «Tranquillo, succede anche a me», lo rassicurò.

«Inconvenienti del mestiere», spiegò Rodrigo, contento di non essere il solo che, ogni tanto e in maniera del tutto inopportuna, dava la stura al marasma che gli si agitava nella testa. «Alle volte una frase proprio non vuole venire. E uno deve provare a sentire come suona, a voce alta. Sai, perché sia credibile e non il deliquio di un pazzo.»

«Ma tu non scrivi guide?»

E bravo il nostro Zorro, che si è fatto trovare con le braghe calate, ridacchiò Marco, da qualche parte del suo cervello.

«Sì», rispose Rodrigo. «Anche.»

«Anche?»

Niente. Questo non molla, commentò Aiolos.

Tu, al posto suo, che faresti? La bella statuina?, domandò Marco, ormai alla guida stabile della mente di Rodrigo.

No, rispose la Voce della Coscienza titolare di Cattedra. Gli farei sputare tutto. Fino all’ultima sillaba.

Appunto…

«Anche.» Rodrigo posò il bicchiere, rinunciando a mandare a quel paese i suoi due - dico due - personalissimi Grilli Parlanti. «In questo mondo, si comincia dalla gavetta. Non è che tutti sono lì, pronti, ad aspettare il tuo Saggio, la tua Idea, il tuo Romanzo. Anzi.»

«Immagino», chiosò Tiennot. «Se anche solo un decimo di tutti coloro che si ficcano in testa di essere i nuovi Hemingway ha inviato il proprio manoscritto ad una casa editrice…»

«Hai centrato il punto», convenne Rodrigo. «Siamo tutti scrittori, i lettori son dati per dispersi, da qualche parte, nel Grande Oceano d’Inchiostro.»

«Quindi, che altro scrive uno scrittore di guide?» Tiennot si mise comodo, sporgendosi in avanti, le gambe accavallate e lo sguardo attento. «O sono forse troppo curioso?»

In effetti, commentò Aiolos. Marco si limitò a ridere. A sogghignare, per la precisione. E fu questo a far scorrere un lungo, lunghissimo brivido sulla nuca di Ruy.

«No, no. Figurati», rispose Rodrigo. Pensando l’esatto contrario. Si sentiva come un insetto sul vetrino di uno scienziato, camice, occhiali in punta di naso, bisturi in mano e un malcelato - malcelatissimo - desiderio di vivisezionare la povera bestia fin oltre il necessario. «Domanda legittima. Si comincia facendo un po’ di tutto, dalle fotocopie, ai caffè, ai controlli dei controlli dei controlli di bozze.»

«Capisco…»

«Se poi hai una marcia in più, diventi ghost writer

«Ghost writer

«Esatto. Hai presente quando un personaggio famoso decide di scrivere un libro, perché non è abbastanza lo scempio di carta che si fa su questo pianeta?» La testa di Tiennot andò su e giù un paio di volte. «Ora, il personaggio famoso, se siamo fortunati, azzecca un congiuntivo. Ma da qui a scrivere, ce ne corre. E allora la casa editrice chiama un povero Cristo senza nome, bravo a dipanare la matassa ingarbugliata che c’è nella zucca del personaggio famoso. Io sono il povero Cristo.»

«Ne avevo sentito parlare», disse Tiennot, prendendo un altro sorso di vino. «Solo, non pensavo che restassero anonimi.»

«E invece, sì», commentò Rodrigo. «Hai presente le autobiografie degli sportivi? In quel caso, c’è un giornalista che si occupa di acconciare il libro per il pubblico. Ma l’autobiografia non la scrive il giornalista. La scrive il ghost writer, assieme al giornalista.»

«In pratica», e Tiennot posò il bicchiere sulla scrivania, «tu ed io abbiamo qualcosa che ci accomuna. Siamo artigiani, in un certo senso.».

Artigiani.

Messa così, la situazione sembrava meno triste di quanto Rodrigo avesse sempre considerato. Molto meno triste. Sì, vedere il nome di qualcun altro a firma del tuo, di lavoro, era seccante per l’ego. Ma a questo mondo occorreva pur mangiare; e il suo, di lavoro, era pagato bene. Specie se a staccare gli assegni c’era qualcuno di assennato - e generoso - come Milo.

«Artigiani», ripeté Rodrigo, lo sguardo al soffitto della stanza, come in cerca di un’illuminazione improvvisa. «Mi piace.»

«Spero ti piaccia anche questo.» 

 

La voce di Tiennot gli arrivò da vicino. Molto vicino. Troppo, forse. Rodrigo abbassò la testa e se lo trovò di fronte, a pochi centimetri di distanza. La gazzella davanti al leone, sghignazzò Marco. E Rodrigo capì perché una gazzella fugge a gambe levate quando intravede il leone ai margini del proprio campo visivo. Perché il leone è un animale poderoso, grande e forte, che impiega poco - pochissimo - per coprire la distanza che lo separa dalla sua preda, e romperle l’osso del collo. Senza rancore, si deve pur campare. Ma il leone è soprattutto un predatore. E, come tutti i predatori, dispone di uno sguardo magnetico, che piomba le gambe della vittima, inchiodandola al terreno. E se - e quando - la vittima prova a scappare, una volta incrociato lo sguardo del predatore, è troppo tardi. Lo sanno entrambi. Così come sanno entrambi che l’una cercherà la salvezza nella fuga mentre l’altro le piomberà lo stesso addosso, magari concedendole un margine di pochi secondi, così da illuderla e da rendere la caccia più divertente. Per il predatore, s’intende.

E Rodrigo si sentì quasi annegare in quello sguardo di un blu impossibile. I marosi che schiaffeggiano il relitto a cui un povero naufrago si aggrappa nella pia, piissima speranza che il mare non lo inghiotta come se fosse un canapé. O un salatino. O un’oliva ripiena. O un moelleux au chocolat.

 

«Tieni», e nel campo visivo di Rodrigo apparve un piattino. Di carta, con una forchetta accanto. «Si è freddato al punto giusto.»

Sbatté le palpebre una volta, due, tre. E poi, sentendosi un completo cretino, tirò fuori un sorriso stiracchiato e disse: «Grazie.».

Prese il moelleux e lo fissò come si fissa un oggetto alieno, tanto per non mostrare a Tiennot di essere arrossito fino alla punta dei capelli.

Imbecille, si disse. E nessuno si unì al coro.

Sì, imbecille. Era chiaro che Tiennot si stava baloccando con lui, come avrebbe fatto un gatto con un topolino di pezza. O forse no? O forse era solo lui, Rodrigo, che vedeva cose che, nella realtà oggettiva del mondo reale, non esistevano?

Mi ha solo passato ‘sto benedetto dolce, si redarguì. Niente di meno, niente di più.

Il problema era che avere a che fare con Tiennot era come avere a che fare con il gatto di cui sopra: un’aggraziata figuretta dallo sguardo tanto meraviglioso quanto indecifrabile. E sapere cosa stesse passando, in quel momento, nella testa di Tiennot, equivaleva a centrare un bersaglio ad occhi chiusi, dopo aver girato sul proprio asse, e con una quantità di alcol in corpo capace di uccidere un bue.

Che ti passa per la testa?

 

Questa era una buona domanda. Un’ottima domanda. Una domanda alla quale, però, neppure il diretto interpellato avrebbe saputo, né potuto rispondere. Perché Tiennot stesso, in quel momento, non era ben conscio del perché si trovasse in quella chambre d’amis a mangiare un dolce fatto apposta per una persona con la quale si erano mandati a quel paese - a fare in culo, a voler essere precisi - meno di ventiquattro ore prima. Era come se qualcosa fosse scattato dentro di lui, una specie di interruttore. E Tiennot - una parte di Tiennot, almeno: quella assennata e giudiziosa e poco incline ai colpi di testa - tremava fin nel midollo, perché sapeva che cosa sarebbe successo. Così come sapeva che non ne sarebbe venuto fuori nulla di buono. 

Non aveva forse  spento il pilota automatico anche con Isaac? 

E che cos’era successo, dopo?

Chi aveva dovuto raccogliere i cocci, dopo?

Lui. Bibi. E Coco, che aveva visto un suo caro amico tornarsene in fretta e furia a Helsinki, senza nemmeno salutare, con il CD dei Noir Désir nello zaino.

Eppure, qualcosa, dentro Tiennot, si era messo al posto di guida e, dopo aver allacciato le cinture e controllato gli specchietti, aveva acceso il motore ed era partito, il piede a tavoletta sull’acceleratore. E lui, come in un incantesimo, si stava lasciando trasportare. 

Signori, in carrozza! 

Ma dove, di preciso, fosse diretto quel treno non era chiaro. Tiennot sentiva - Tiennot sapeva - che l’Hemingway in salsa aioli faceva parte del percorso; ma In che modo? e In quale misura?, queste erano domande che restavano sullo sfondo, sfocate e nebulose. 

Rodrigo lo fissava come si osserva un matto appena scappato dal manicomio, con la neppure poi tanto recondita paura che possa mettersi ad urlare, a picchiare qualcuno e/o a spogliarsi e correre via, in costume adamitico. E non necessariamente in quest’ordine.

Però, se Étienne Rémy Arnoul aveva un pregio, era quello di portare a compimento le imprese che iniziava, dalle più felici alle più disperate. Come questa in cui si era venuto a trovare. Nella quale ti sei andato a cacciare, semmai. Di testa, per altro, avrebbe sbuffato Alistair. E lui, tanto per cambiare, gli avrebbe tenuto prima il muso; e poi gli avrebbe detto che sì, aveva ragione.

Sì, ci si era andato ad infilare coi propri piedini in quella chambre d’amis affacciata sul Sacré Cœur. E adesso?

Adesso si va fino in fondo, e poi si vedrà, si rispose Tiennot. Al massimo, avrò perso un cliente, aggiunse, come per autoassolversi.

Perché quello che Tiennot si ostinava a non voler riconoscere, neppure con se stesso, era che a lui, quel ragazzo dai capelli scurissimi e gli occhi verdi - che non te ne saresti accorto, se non dopo essergli andato a sbattere contro -, dall’aria sempiternamente spaesata e l’espressione perenne di un bambino a cui hanno appena bucato il pallone; a lui, quel ragazzo piaceva. Eccome, se gli piaceva.

E per una volta  - una soltanto - non ci sarebbe stato niente di male nel concedersi una sana toccata e fuga. Senza troppe complicazioni. Giusto per tornare in sella e scrollarsi dalle spalle un senso di colpa che gli calzava addosso, ormai, come una seconda pelle.

Rodrigo sarebbe ripartito, prima o poi; forse più prima, che poi. Non gli aveva detto, giusto la sera prima, di avere una vita a Londra? E anche se Londra-Parigi era una distanza colmabile in un paio d’ore di treno, Tiennot non si faceva illusioni: stava vivendo la versione aggiornata e corretta di un amorazzo estivo, uno di quelli che finiscono per sempre quando la corriera è ormai in stazione e la rentrée è ad un paio di giorni di distanza. Solo che loro due, al posto del sale, del sole, della crema solare e dei falò di mezzanotte, avrebbero avuto la neve, le Sacré Cœur oltre la finestra e un paio di Plaisir d’Amour per accompagnamento.

Com’era? We’ll always have Paris, no?, avrebbe chiosato Alistair.

Poteva andarci peggio, si rincuorò Tiennot alzandosi, prendendo il proprio piattino e accomodandosi alla scrivania, le ginocchia a sfiorare quelle di Rodrigo.

«Niente creme», disse, quasi giustificandosi. «Non avrebbero retto alla passeggiata fin qui.»

«Ah, capisco», disse Rodrigo, con il tono di chi no, non capiva affatto. Oppure era molto, molto bravo a fingere. «Dove sei andato di bello, a cena?»

Niente, mi tocca prenderla alla lontana…

Round up the usual suspects, avrebbe chiosato Alistair.

«In un posto molto carino», rispose, restando sul vago. Il viso di Rodrigo si illuminò, e la mente di Tiennot fu attraversata da un’idea: Rodrigo, seduto a chiacchierare con Christiane al tavolo da pranzo un po’ sbilenco, mentre Alistair lo fulminava con gli occhi ad ogni sua mossa. «Però non ti posso dare l’indirizzo.»

Rodrigo lo fissò, interdetto.

«Sono stato a cena a casa di amici», spiegò Tiennot. «Sai, Alistair? Oggi è il suo giorno libero.»

«Ah, giusto», disse Rodrigo, colpito da un’illuminazione improvvisa. «Aspetta. Oggi è ancora il tuo compleanno.»

«Per questo il dolce l’ho portato io.»

«Mi spiace, hai fatto tutta questa strada…»

Play it, Sam. Play As Time Goes by. 

E niente, non ci arrivava. Un motivo in più perché quel ragazzo gli piacesse.

Lo aveva capito quella mattina stessa, mentre, marciando verso la chambre d’amis con la colazione, i due caffè e il telefono di Rodrigo nella tasca della giacca, si stava domandando con spassionata curiosità chi diamine glielo facesse fare di prendersi tutto quel disturbo. A parte sua madre. Che, se proprio avesse voluto, avrebbe potuto risolverla lei, quell’incombenza. E poi, eccolo lì, sul pianerottolo silenzioso, l’aria stralunata e la maniglia stretta tra le dita. Gli era apparso diverso. Più deciso. Più uomo e meno bamboccio. E l’Epifania - una di quelle con dignità di maiuscola e gravità tale da far impallidire Joyce -, lo aveva travolto in pieno, senza tanti complimenti, con tanto di montante allo stomaco e fuochi d’artificio nel petto.

La domanda era: dove diamine si era andato a cacciare quel Rodrigo? 

Si era imbarcato su di un cargo battente bandiera liberiana, oppure era lì, da qualche parte, sotto la corazza di buone maniere e cortesia, in attesa di saltare fuori e fare scempio di lui?

Che devo fare con te? Mandami un segnale, santo Cielo, pensava Tiennot, osservandolo masticare con gusto il Plaisir d’Amour, gli occhi socchiusi dalla soddisfazione. Il suo orgoglio di pasticcere ruggì di piacere; ma il suo orgoglio di uomo premeva per strappargli via i vestiti e altri, ben più appaganti ed accorati sospiri.

 

«Squisito», commentò Rodrigo, servendosi ancora. «Squi-si-to», si premurò di sillabare, gli occhi spalancati dalla felicità, quella smarginata di un bambino da solo a solo con una montagna di meringhe extra-large.

«Sono contento», rispose Tiennot. «Non si sente troppo il liquore?», domandò poi, per pura cortesia. Lui sapeva che no, non aveva esagerato né con il liquore, né con qualsiasi altro ingrediente, perché tutto, nella ricetta, era stato pesato e calibrato con meticolosa attenzione.

La pasticceria è l’arte della precisione, diceva Rémy, e Tiennot ne aveva fatto il proprio mantra.

«No, anzi», confermò Rodrigo. «Ce n’è appena un sentore, ma è incisivo al punto giusto. Non ti asfalta la bocca, coprendo il resto, ma ti lascia quel buon retrogusto di Cointreau…»

«No, non è Cointreau.» 

Tiennot si concesse un sorrisetto. Ci cascavano tutti. Anche lui, quando Rémy gli aveva concesso di assaggiare il Plaisir d’Amour per la prima volta, aveva dato la stessa, identica risposta. Cointreau. E quanto si era sentito figo nell’aver dato l’unica risposta possibile. Un sentore agrumato; e cosa vuoi che sia se non Cointreau? E invece, quella volta era stato Rémy a sorridere, prima di tirare fuori una bottiglia di un liquido rosso arancio brillante e spiegargli che no, no era affatto Cointreau. Era…

«Mandarinetto Isolabella.» 

«Prego?»

«È un liquore italiano. Piemontese, per la precisione», spiegò. «Al mandarino. Si sposa meglio con il cacao amaro.»

«Adesso che me lo fai notare…» Rodrigo prese un’altra forchettata e assaporò il boccone con lentezza e attenzione, gli occhi chiusi e l'espressione seria. A Tiennot venne quasi da ridere.

«Tranquillo, tutti coloro che assaggiano il Plaisir d’Amour per la prima volta commettono questo errore.»

E l’ultimo, prelibato boccone si infilò di traverso nella gola di Rodrigo. Il quale cominciò a tossire senza ritegno. Tiennot gli si avvicinò, gli diede un paio di pacche sulle spalle. Niente. Versò del vino nel bicchiere e glielo porse. Rodrigo si alzò dalla sedia e bevve, strabuzzando gli occhi quando sentì in bocca un sapore diverso dall’acqua. E fu in quel momento che il boccone dispettoso smise di ostruirgli le vie respiratorie, e si incamminò di buon grado verso il proprio destino, lungo l’esofago.

«V… vino?», balbettò Rodrigo.

«Questo c’era», si giustificò Tiennot. «Ha funzionato, mi pare…»

«Hai ragione anche tu. Scusami un attimo.» 

Rodrigo sparì dietro una porta e Tiennot sentì lo scorrere dell’acqua nel lavandino. Quando tornò, si sedette sul bordo del letto, il viso umido e l’aria stralunata.

«Tutto bene?», chiese Tiennot, prendendo una sedia e piazzandoglisi davanti.

«Sì. Sì», rispose Rodrigo. «Mi hai solo colto alla sprovvista.»

«Ma davvero non avevi capito che?»

«No.» Rodrigo, gli occhi un po’ arrossati, lo scrutava con la stessa curiosità con cui si fissa un fenomeno da baraccone piuttosto interessante. Per capire dove stia il trucco. «Come avrei potuto indovinare?»

«Pensavo fosse palese.»

Amico mio, I think this is the beginning of a beautiful friendship.

«Se sapessi leggere il pensiero, forse», ribatté Rodrigo pacatamente. «Ma io non sono nella tua testa. E anche se avessi la telepatia, sarebbe scortese farmi i fatti tuoi.»

«Siamo prossimi a S. Valentino, no?», insistette Tiennot. Come se quello fosse l’indizio cardine, l’impronta digitale sull’arma del delitto che inchioda l’assassino alle proprie colpe e responsabilità, senza altra ombra di dubbio.

«Vero. Ma tu avevi parlato di una sorpresa», gli fece notare Rodrigo. «Il che poteva stare a significare qualcosa di nuovo…»

«… o qualcosa di inaspettato», glossò Tiennot con testardaggine. «E da come si sono messe le cose al Verse-Eau, ti saresti mai aspettato di assaggiare il Plaisir d’Amour

Rodrigo inspirò ed espirò un paio di volte. Con lentezza. Riempiendosi i polmoni. Poi disse - poi confessò -: «No.». Silenzio. «Anzi», riprese poi, «mi sarei giocato anche le mutande che per quest’anno niente Plaisir d’Amour. Per tigna, più che altro.».

«Per fortuna che non l’hai fatto, altrimenti…» Tiennot sospirò. «C’è modo e modo di mettere la gente in mutande.» E se non lo capisci adesso…

«Come se ti dispiacesse…»

Il cuore di Tiennot perse un paio di battiti. Si stava aprendo una falla, in quella maschera di cortesia? O forse era affetto da personalità multiple e il Rodrigo di quella mattina stava facendo capolino, per rimanere in pianta stabile?

«Hai di nuovo pensato a voce alta?»

«No.»

C’era qualcosa, adesso, nello sguardo dell’Hemingway in salsa aioli; qualcosa che regalò a Tiennot un delizioso - deliziosissimo - e piacevole - piacevolissimo - brivido lungo schiena.

Rodrigo si sporse in avanti e gli accarezzò la mascella. 

«Dimmi solo una cosa…» Tiennot annuì. «Perché hai voluto farmi assaggiare questo dolce? Perché sei venuto a portarmelo a domicilio? E non tirare in ballo la guida. Non ci credi neppure tu.»

Tiennot sospirò. «Non ci arrivi?»

«Voglio sentirtelo dire.»

«E va bene», concesse. «Primo, perché ormai mi ero incaponito a fartelo assaggiare. La costanza va premiata, no? E se ti avessi lasciato assaggiare la versione di Coco, ti avrei avuto sulla coscienza per tutta la vita.»

«E secondo?»

«Secondo», riprese Tiennot, «perché al Verse-Eau c’è troppa gente. Troppa gente che chiacchiera. E da quando è saltata fuori quella rogna del concorso, curiosi e ficcanaso sono decuplicati.».

«E terzo?»

Perché sì, c’era un terzo punto. Lo sapevano entrambi. E Rodrigo, la mente una tantum libera dal cicaleccio continuo di Aiolos e Marco, aveva deciso di prendere l’iniziativa e spingere Tiennot a dire tutto quello che gli passava per la testa, una volta per tutte. E Tiennot, che nulla sapeva del bailamme che di solito aveva luogo nel cervello dell’altro, si trovò con le spalle al muro. E non poté far altro che chiudere gli occhi e tacere, cercandosi le parole nelle tasche della giacca di velluto bordeaux, con lentezza, con calma; così da assicurarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che fossero le parole giuste da dire.

«Perché, ad un certo punto, ho iniziato a desiderare che tu guardassi me come fai con mia sorella.»

«E perché? A me tua sorella non interessa», sussurrò Rodrigo. «Io gioco nell’altra squadra. Lo sai.»

«Sì. Tuttavia…»

Rodrigo pose fine a quella replica sterile sporgendosi in avanti e sfiorandogli le labbra in un gesto delicato. «Convinto?»

«No», replicò Tiennot, la voce di un paio di ottave più bassa. «Non ancora. Ho bisogno di un altro paio di spiegazioni.»

«Quanto tempo hai?»

«Tutto il tempo del mondo.»

E fu quindi il turno di Tiennot. 

Si fece avanti, catturando le labbra di Rodrigo, finendogli addosso e spingendolo con la schiena sul letto. E poi fu un concerto di fruscii di lenzuola, di giacche scivolate giù da spalle e braccia, di camicie sfilate, scarpe abbandonate da qualche parte, alla deriva sul pavimento. E poi, i calzoni scesero a metà gamba, i respiri si fecero sempre più corti e interrotti, e una mano vagò, peregrina, alla ricerca dell’interruttore per spegnere la luce, mentre si mappavano il corpo e l’anima, scambiandosi fiato e pelle.

Fuori iniziò a nevicare.

 
   
 
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