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Autore: _Trixie_    09/03/2024    3 recensioni
"Conobbi Anita a scuola. Studiava per diventare ragioniere, proprio come me. Inusuale, a quei tempi, e per questo attirò la mia attenzione, così come quella di tutti gli altri. I nostri insegnanti erano orgogliosi di lei, ma un orgoglio divertito, quasi scanzonato, come si può essere orgogliosi di un fenomeno da baraccone. Gli altri compagni, tutti maschi come è ovvio, la deridevano apertamente, ché una ragazza che vuole farsi ragioniere non s’era mai sentito prima e la novità era degna d’esser trasformata in barzelletta. Ma Anita se ne infischiava: voleva diventare ragioniere e ci sarebbe anche riuscita, io credo, brillantemente e meglio di me, se non mi avesse incontrato. Mi innamorai di lei [...]"
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Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole: 2213 | Tempo di lettura stimato: 10 min.






 

Agnizione fuori tempo massimo





 
Se ne vanno ancora in giro a fare domande, a chiedere ai negozianti se la conoscevano, se avessero notato qualcosa di strano, se le telecamere funzionassero. E che differenza faccia non saprei proprio. No, non vanno, risponde Sergio. La signora Mainardi? Certo che la conosco, sì. No, niente di strano. Come sempre. Al solito. Che domande idiote. E poi, comunque, in paese lo sanno tutti che le telecamere della gelateria di Sergio non funzionano da almeno una decina d’anni, da quando il figlio ha trovato lavoro in Australia, in un piccolo chiosco che si vanta di vendere vero gelato italiano. Lui sapeva come far funzionare le telecamere, ma Sergio… Che poi, non capita mai nulla fuori dall’ordinario, da queste parti. Esclusa la morte della signora Mainardi, s’intende, di Anita. La mia Anita. L’Anita a cui ho giurato amore eterno, e a quel giuramento non sono mai venuto meno, però—
È il sangue di Anita, viscido e caldo sulla mia pelle fredda, che mi scorre sul viso, sulle spalle, sulle mani rugose. Il sangue di Anita è in questa pioggia leggera e insistente, incessante, inclemente, che mi inzuppa il cappello e il cappotto e i pantaloni che giusto ieri Anita ha stirato, con la riga al centro, precisa precisa come piace a me. Chissà come farò, ora. Niente più riga in mezzo alla gamba dei miei pantaloni.
E me lo merito, per quello che ho fatto ad Anita, per quello che mi sono rifiutato di vedere, per aver creduto, ostinato e testardo, che Anita avrebbe cambiato idea, che l’amore sarebbe stato abbastanza. Ho vissuto tutta la vita nell’illusione generata dalla mia speranza, voltando lo sguardo altrove, così da poter ignorare quell’ombra nel sorriso di Anita che avrebbe infranto il miraggio dell’esistenza che avevo precariamente costruito. E così, appena questo miraggio tremolava, mi sfregavo le palpebre e scuotevo la testa—e tutto si fermava di nuovo, cristallino e immobile, immutabile, secondo la mia volontà.



Anche Anita, questa mattina, era immobile. Pensai che da lì, dalla soglia della nostra camera, sembrava proprio morta. Ma certo mi sbagliavo, con l’età mi ero fatto più apprensivo, più ansioso. Mi ero alzato per andare il bagno e il freddo dell’alba mi spingeva ad affrettarmi verso il nostro letto. Avvicinandomi, notai l’espressione serena di Anita, rilassata. La mia ansia crebbe. Camminai più veloce, le pantofole striscianti sul pavimento. Quando le toccai la guancia, sentii un gelo tale che ancora non mi ha abbandonato e anzi è serpeggiato lungo il mio braccio, si è ramificato nel mio petto, s’è preso il mio corpo tutt’intero e lo tiene in una morsa che mi fa rabbrividire costantemente, nonostante siano passate ore da quando ho trovato Anita morta. Lì, allora, nella nostra camera, mi misi a ridire, perché non sapevo che altro avrei potuto fare. Che idiota sono stato. Certo che Anita m’era sembrata morta, poco prima: lo era. Pensai però che avrei dovuto smettere di ridire, non era decoroso, e perciò smisi, distogliendo lo sguardo da Anita, voltandole le spalle. Non l’ho più vista, né mai la guarderò più. Per il funerale, la cassa sarà chiusa.
A passi misurati ho raggiunto il salotto e ho chiamato l’ambulanza dal telefono fisso. Mi sono seduto sulla poltrona ad aspettare. Aspettavo. E il silenzio insopportabile della voce di Anita mi spinse a tapparmi le orecchie con le mani. Presi a canticchiare una melodia classica di cui non conosco il nome, né tantomeno il compositore, ma che ho ascoltato spesso, per minuti interminabili, in attesa di porter parlare con i centralini dell’ospedale per prenotare questa o quell’altra visita—con gli anni, ho iniziato a fare controlli con regolarità. E anche Anita. I suoi esami sono sempre stati migliori dei miei, ma a parte tenere sotto controllo il colesterolo e i trigliceridi, non avevo molto di cui preoccuparmi. Non sentii l’arrivo dell’ambulanza e mi alzai ad aprire la porta solo per un certo automatismo di risposta del mio corpo al suono del campanello. Ricordo parole confuse, stringhe di suoni di cui non riuscivo a cogliere il significato, una cacofonia di rumori che assaliva le mie orecchie fino a togliermi il respiro.



Mi chiedono se ho figli, mi puntano una luce negli occhi. Sento freddo e capisco di essere steso sul pavimento. È confortante, solido, robusto. Non crollerà. Il pavimento non crollerà, mi tiene quassù, al secondo piano del nostro condominio, duro contro le mie ossa, contro gli angoli del mio bacino. Me la sento di fare il viaggio in ambulanza, fino all’ospedale, con Anita?
Signor Mainardi?
Vedo le loro bocche muoversi, ma non sento nulla se non il rumore della pioggia che inizia a battere contro i vetri. Mi aspetto di vedere Anita correre attraverso il salotto per chiudere le imposte, ché altrimenti i vetri si bagnano, e li ha appena lavati. Ma non vedo Anita. Non sento la sua voce. E che gran freddo c’è qui, nel mio petto.
Signor Mainardi, mi sente? Signor Mainardi?
Sono stato io, è colpa mia e suppongo, dottore, che lo rifarei. Perciò, e la mia, dottore, è ancora una supposizione, il pentimento non sarà possibile. E nemmeno il perdono.


Conobbi Anita a scuola. Studiava per diventare ragioniere, proprio come me. Inusuale, a quei tempi, e per questo attirò la mia attenzione, così come quella di tutti gli altri. I nostri insegnanti erano orgogliosi di lei, ma un orgoglio divertito, quasi scanzonato, come si può essere orgogliosi di un fenomeno da baraccone. Gli altri compagni, tutti maschi come è ovvio, la deridevano apertamente, ché una ragazza che vuole farsi ragioniere non s’era mai sentito prima e la novità era degna d’esser trasformata in barzelletta. Ma Anita se ne infischiava: voleva diventare ragioniere e ci sarebbe anche riuscita, io credo, brillantemente e meglio di me, se non mi avesse incontrato. Mi innamorai di lei e, quando glielo confessai, mi sussurrò che anche lei sentiva il cuore sobbalzare al solo udire il mio nome e quando eravamo insieme—per lo più in biblioteca, con la scusa di studiare—sentiva come se ci fosse un foro nel suo cuore, un foro piccolo piccolo, microscopico, ma sufficiente perché la sua anima potesse uscirne tutta e riversarsi fuori. E mi diceva, Anita, che la sua anima lo faceva per cercare la mia. «E tu lo hai, un piccolo foro nel cuore? Per far uscire la tua anima e dare posto alla mia?». Sì, sì, certo, rispondevo, divertito dalla sua immaginazione. Dovresti fare la poetessa, le dicevo, ancora ridendo. Per quanto poco convenzionale, in fondo, Anita era pur sempre una ragazza, no? E tutte le ragazze erano così, prima di sposarsi: leggere, sbarazzine, sfuggenti. Quando accarezzavo la sua pelle morbida e liscia, quando mi arricciavo i suoi capelli crespi intorno alle dita, quando le sfioravo le labbra umide con le mie, era come se qualcosa mi eludesse costantemente. La toccavo, senza sentirla davvero. Ero, io temo, cieco. Incapace di afferrarla, di comprenderla, avevo costruito di lei un’idea a mia immagine e somiglianza, un’Anita che avesse i miei stessi desideri, le mie stesse aspettative. Quello spazio nel suo cuore lasciato vacante dall’anima io l’avevo riempito con il mio interesse, con il mio volere, e l’avevo chiamato amore. Fu uno sbaglio dettato dall’inesperienza, un errore di giovinezza, una fatale leggerezza.



Io e Anita abbiamo un figlio, uno solo, Renzo, e già è un miracolo. Secondo i numerosi ginecologi che consultammo un paio d’anni dopo le nozze, Anita non avrebbe potuto avere figli biologici. Definirono ostile l’utero di mia moglie e una volta mi parve di scorgere un sorriso di sollievo sul volto di Anita, all’ennesima conferma di quella diagnosi. Certo, dovevo essermi sbagliato, mi dissi. Un gioco di luci, un’ombra che per un’istante si era posata per errore su mia moglie, forse persino la mia vista affaticata dalle ore trascorse su numeri e bilanci—quante spiegazioni mi diedi, e tutte valide, per screditare quell’impressione. Non misi in discussione il desiderio di maternità di Anita, la sua volontà di diventare madre. Certo che voleva un figlio, ora che s’era sposata, ora che era moglie—e perché mai, altrimenti, avrebbe dovuto sposarmi? Non le chiesi, una volta usciti da quello studio medico, se c’avevo visto giusto o m’ero sbagliato, sul suo sorriso. Comunque, non smettemmo di provarci—e con quale abbandono Anita si lanciava ora tra le mie braccia.
Trascorse un anno appena prima che, finalmente, nascesse Renzo.



Renzo aveva la pelle diafana che subito s’arrossava per i motivi più disparati: il pannolino, il sudore, il calore, il freddo, il pianto, una smorfia. Fin dal giorno in cui nacque, Anita dovette dedicarsi a lui e lui soltanto perché Renzo richiedeva ad Anita ogni stilla di tempo che aveva, ogni istante della sua esistenza, ogni granello della sua attenzione e, quando si sentiva trascurato, anche solo per un secondo, Renzo piangeva e reclamava Anita e Anita soltanto. Io, in quando padre, lavoravo e lavoravo e lavoravo, perché non mancasse nulla in casa.
Una sera, a causa di una sfavorevole congiunzione fatta di bilanci arretrati e scadenze ravvicinate, rientrai molto tardi. Era quasi mezzanotte e Renzo non poteva avere più di un paio di mesi. Anita era seduta sul letto a gambe incrociate, con la schiena appoggiata alla testiera e il bambino tra le braccia. Lo cullava, allattandolo, e non si accorse del mio arrivo. Io, invece, mi accorsi di molte cose. Non tutte, no, ma molte: capii ciò che Anita aveva provato a spiegarmi tanti anni prima, quando mi aveva parlato del foro nel suo cuore. Io, di fori nel cuore, non ne avevo, ma sentivo la mia anima dibattersi dentro di me, cercare una via di fuga per uscire, per riversarsi su Anita e Renzo, inondarli, travolgerli, rinchiuderli come una bolla. Così, per disperata frustrazione, il mio cuore si squarciò, uno strappo violento ma dolce, che mi parve avesse il rumore di uno schiocco, e mi fece sentire leggero. Allora, Anita spostò il proprio sguardo da Renzo a me, e i suoi occhi mi accusarono, risentiti. La mia presenza mentre allattava suo figlio, mi dissi, dovette sembrarle superflua, un’intrusione.
Non sapevo del crimine che avevo già commesso, di come avevo preso Anita, tenendo la sua anima in ostaggio, e della persona che era e che sarebbe voluta diventare ne avevo fatto una moglie e una madre. Solo ora mi accorgo di quello che ho fatto, di tutta la crudeltà che ha richiesto, di tutta la banalità che la vicenda ha avuto. Ed è troppo tardi.



Overdose di sonniferi, questo ha detto il dottore.
Ha notato vuoti di memoria, di recente? Oggetti dimenticati? Appuntamenti saltati?
Eravamo io e Renzo, in ospedale. Non risposi. Non perché non volessi, è solo che la mia mente si incagliava nell’immagine di Anita nel nostro letto—Anita morta.
Magari non ricordava di aver già preso le pillole. Purtroppo…
Tu non ti ricordi nulla, papà?
Lo shock, purtroppo…
Un errore, probabilmente, non sarebbe la prima volta, come inciampare per le scale. Dopo una certa età, purtroppo…
Incidenti banali che diventano pericolosi…
Già, purtroppo…




Dell’immagine di Anita morta stesa sul nostro letto è soprattutto il sorriso sereno a incatenarmi. Piove ancora, da questa mattina, come quando ho trovato Anita, morta e stesa sul nostro letto. Con quel sorriso sereno…
Renzo mi ha riportato a casa dall’ospedale e mi ha consigliato di dormire, di riposare. Giusto il tempo di tornare dalla moglie, spiegarle la situazione e poi torna. Si è raccomandato, Renzo, di stendermi sul divano. Ho annuito, ma poi sono sceso in strada, ho chinato la testa quando Sergio, quello della gelateria, mi ha fatto le condoglianze tra una domanda degli agenti e l’altra. Ho attraversato la strada e ho preso a costeggiare l’argine del fiume.
Non ho portato con me l’ombrello, solo il cappello, ma è un’abitudine, non una scelta ragionata. Anche se ha la tesa larga, non basta certo a ripararmi il viso dalla pioggia. Sento le gocce leggere, ma affilate, come uncini nella pelle. Non c’è rumore, intorno a me. Non sento i miei passi sull’asfalto, né le macchine che mi passano accanto di tanto in tanto. Non sento il rumore del fiume, che sono certo si faccia più insistente man mano che mi avvicino alla curva, dove la corrente è maggiore a causa di un brusco dislivello. Talvolta, da Sergio, soprattutto nelle sere d’estate, si discute di come sia facile scavalcare il parapetto dell’argine in quel punto. La gente sempre da lì si butta, lo sanno tutti.
Povero Sergio. Domani gli faranno le stesse domande. Lo conosceva bene, il signor Mainardi? Ha notato qualcosa di strano, negli ultimi tempi? Le telecamere del suo negozio funzionano?
Diranno che non ho retto il dolore della perdita di Anita, che cercavo di mettere fine alla mia sofferenza. E questo, almeno, è vero: che soffro, che soffro indicibilmente. Ma è per la mia cieca stoltezza. E per il mio pentimento, che non arriverà mai.
Io, un figlio, lo volevo.
L’acqua del fiume è fredda come il corpo di Anita, mi riempie il cuore squarciato, mi toglie il respiro.




È il sorriso sereno di Anita stesa sul nostro letto, morta, a trascinarmi sul fondo, nell’abisso dei ricordi, fino al giorno in cui, nello studio del ginecologo, ci confermarono per l’ennesima volta che no, la signora Mainardi difficilmente sarebbe potuta rimanere incinta.
Sollievo, sì, quel giorno Anita era sollevata.
Come quando la trovai morta, stesa sul nostro letto, questa mattina.
   
 
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