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Autore: Francine    19/03/2024    1 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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14.


 

E andò avanti così, per qualche giorno.

Tiennot usciva di casa un pochino prima, raggiungeva il Verse-Eau, scaldava due cornetti, preparava il caffè e, prima che scoccassero le sei, scendeva giù per la collina, attraversava place Pigalle e bussava alla porta della chambre d’amis, la colazione come pretesto, la voglia di rivedersi come benzina.

E la sera, dopo essersi dati appuntamento da qualche parte, o aver mangiato un boccone assieme in qualche brasserie, raggiungevano la stanza di Rodrigo, le mani che iniziavano a cercarsi già nel segreto dell’ascensore, e si facevano più impellenti - e dispettose - sul pianerottolo, mentre la chiave faticava ad entrare nella serratura una, due, tre volte.

Nessuno parlava, come a non voler rompere la bolla magica in cui si erano rinchiusi, per non spezzare l’incantesimo; ma gli altri vedevano. Vedevano, e, in cuor loro, ne erano sollevati. Chi vedeva, ma non capiva, era Yngve. E si chiedeva quando, come e perché fosse iniziata quella relazione. E senza che lui se ne accorgesse.

«In pratica, me l’ha fatta sotto al naso», si lamentava, affettando carote, cipolle e gambi di sedano. E Marco, seduto all’esterno, una sigaretta tra le labbra a sfidare l’inverno parigino, si stringeva nelle spalle e, saggiamente, gli ricordava che non erano affari loro.

«Ce ne parlerà se e quando vorrà. Lui», si premurava di sottolineare per l’ennesima volta, la Gazzetta aperta per inganno. «Dovremmo essere contenti che si sia tolto quello stronzo dalla testa, no?»

Yngve incassava, con grazia.

Riprendeva a decapitare ortaggi con la stessa solerzia di un boia del Terrore - si vede che l’aria parigina manteneva in sé i germi, nemmeno poi tanto reconditi, della Rivoluzione di luglio, e li spandeva per le strade e per i vicoli come fosse un malanno di stagione. E poi, però, tornava alla carica, più pressante di prima: «E che succede se gli va male anche stavolta?», chiedeva. Per puntiglio, ché Yngve voleva avere sempre l’ultima parola, per partito preso.

«Succede che gli faremo da stampella, ancora una volta», liquidava la questione Marco, sfogliando le pagine rosa e rassicurando il compagno, per poi rilanciare: «E se fosse lui, per una volta, a spezzare il cuore di qualcuno?».

«Rodrigo è troppo perbene», ribatteva Yngve. E Marco si trovava a dovergli dare ragione, almeno su quel punto.

Quello che, sotto sotto, interessava a Marco, era il mancato manifestarsi di Milo. Si era quasi alla vigilia di S. Valentino. Quanto mancava? Un paio di giorni? Tre? 

Si erano accordati tramite email con la segretaria di produzione per le riprese, gli scatti promozionali, eccetera eccetera. Ma l’enfant prodige della cucina latitava. E come avrebbe potuto rendere ancora credibile la farsa, se le recensioni dei tre locali in lizza erano apparse sul suo sito - sul sito dedicato al concorso, semmai -, mentre non c’era traccia di alcuna menzione dei tre dolci in lizza?

O meglio: si parlava delle Nepitelle e dei Kladdkaka, e Marco sapeva che no, Milo non si era manifestato a Parigi - non ancora almeno; ma, del Plaisir d’Amour, nessuna traccia. Ed era questo, più che la baracconata del concorso, a preoccupare Marco: che Rodrigo avesse perso di vista la bussola e si fosse incamminato verso un approdo ricco di scogli a pelo d’acqua; piccoli, sì, ma in grado di sfondare qualsiasi chiglia, con la stessa grazia di un coltello caldo che affonda in un panetto di butto. Questo sì, che avrebbe mandato a gambe all’aria qualsiasi possibilità, anche la più recondita, anche qualora si fosse trattato di un’avventura con data di scadenza.

Speriamo non faccia l’ennesima minchiata, si ripeteva, voltando le pagine e riducendo la giaculatoria di Yngve ad un rumore di fondo, nell’utopia che qualcuno lassù - un qualche santo volante, anche uno di quelli a mezzo servizio, con un patronato condiviso - ascoltasse la sua scalcagnata preghiera.

 

Marco non poteva sapere che il Destino, in realtà, fosse già all’opera. Perché mentre Yngve decapitava ortaggi senza pietà e Marco si stava baloccando con la Gazzetta, all’interno della cassa dell’ orologio cosmico, al di sotto del quadrante e delle lancette, gli ingranaggi continuavano a ruotare, inesorabili, incastrandosi tra di loro, secondo dopo secondo. E così, la Ruota della Fortuna, che proprio quella mattina aveva fatto capolino dal mazzo di Tarocchi di Maman Louise, s’era ormai messa in moto. E, a breve, gli ultimi interpreti avrebbero fatto il loro ingresso trionfale in scena. E, volenti o nolenti, tutti gli attanti avrebbero recitato la loro parte, fino all’ultima battuta. 

 

Il mattino seguente, venerdì, un sole sfacciato irruppe dalla finestra dell’abbaino di un certa chambre d’amis a Pigalle.

Il vento della sera prima aveva spazzato via le nuvole; e un cielo terso e struggente faceva da volta alla vita che si andava affaccendando in una città ormai in procinto di essere conquistata da una pletora di cioccolatini, rose rosse e frasi fatte d’amore, da pronunciare all’orecchio. 

A malincuore, Tiennot si fece coraggio, si stiracchiò, si alzò e abbandonò le lenzuola calde per rimettersi in marcia. Rodrigo dormiva, sfranto, i capelli scurissimi sulla federa candida e la bocca socchiusa. Si rivestì, gli scoccò un bacio a fior di pelle sulla fronte, e uscì dalla stanza, diretto al Verse-Eau, col passo svelto e deciso di chi rischia di cambiare idea da un momento all’altro. 

Percorse Rue Pigalle in direzione nord, le mani nelle tasche del piumino e l’aria adorabilmente imbecille di chi ha appena toccato il cielo con un dito. Si sentiva bene. Per la prima volta, da un bel po’ di tempo, le cose scorrevano lisce come l’olio. Senza intoppi, senza ritardi, senza tegole dispettose pronte a cadere senza un perché, e a sfondarti l’osso del collo solo perché non avevano null’altro di meglio da fare, quel giorno. E un sentimento, viscido come un tegame unto, si insinuò pian pianino nel suo cervello.

Quanto durerà?

E quella voce - non quella della ragionevolezza di Alistair, né quella protettiva di sua madre - non stava certo alludendo al fatto che, prima o poi, Rodrigo avrebbe messo le sue chiappe sul treno per Londra, e tanti saluti. Nossignore. Quello era un limite che si trovava sul loro cammino, avvolto dalla nebbia; lo avrebbero affrontato se e quando si fosse manifestato, ché era stupido fasciarsi la testa per qualcosa ancora di là da venire. Basta a ciascun giorno il suo affano, no?

Quello a cui la vocina nella mente di Tiennot alludeva era più generale.

Quanto durerà ancora questo stato di grazia?
Quanto salato sarà il conto da pagare, alla fine di questa cena?

Perché la vita è un’onda, che sale e scende, che atterra e suscita. E se per puro caso ti capita di trovarti in alto, sta’ pur sicuro che, prima o poi, il percorso ti porterà in basso, per poi risalire e ridiscendere e risalire e ridiscendere. Ancora e ancora e ancora. Chi troppo in alto sal cade sovente precipitevolissimevolmente.

Fermo al semaforo di Place Pigalle, la vetrina di Monoprix alla sua destra, Tiennot strinse le labbra e i pugni nelle tasche del piumino.

Non siate in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Tiennot inspirò ed espirò un paio di volte, piano, piano. Lasciò che il semaforo scattasse - rosso, verde, rosso, verde - e attraversò l’incrocio, ben deciso a non lasciare che il seme dell’ansia gli avvelenasse l’anima.

Giorno per giorno. Un passo alla volta. Avrebbe pagato il conto al momento opportuno; e, intanto, si sarebbe goduto il viaggio.

Con questi pensieri in cuore, raggiunse il Carousel des Abbesses, le guance arrossate, e una serie di programmi e progetti per la prossima domenica. Si sarebbe ritagliato tutta la giornata per passarla con Rodrigo. Avrebbe pensato lui alle vettovaglie, lo avrebbe raggiunto in camera e si sarebbero barricati dentro, fino al mattino successivo. A costo di ingoiare la chiave. Perché Tiennot aveva imparato, in quella manciata scarsa di giorni, che sì, mangiare a letto - fare tutta una serie di cose, a letto - non solo era divertente, se fatto con la persona giusta, ma era anche necessario. Era una sorta di autogratificazione, uno zuccherino con cui addolcire la più schifosa e tosta delle giornate. Uno spazio sacro, per così dire, in cui includere solo ciò che ti fa stare bene, e da cui sbattere fuori senza troppe cerimonie tutto il veleno del mondo.

E, con un sorriso soddisfatto, scartabellando col pensiero tutta una serie di opzioni da esplorare e condividere con Rodrigo, Tiennot sfilò davanti alla vetrina del Verse-Eau ed entrò nel locale, annunciato da un allegro scampanellio.

Non c’era il solito traffico delle otto del mattino - quel giorno si era attardato cinque minuti in più, ma pazienza; non era morto nessuno, in sua assenza, no? - ma i suoi occhi registrarono due novità. 

La prima: un ragazzo biondo, alto, che pareva appena sceso dal piedistallo di un museo per sgranchirsi le gambe tra i comuni mortali, si era seduto al posto di Ruy - l’etichetta Hemingway in salsa aioli era finita nella soffitta polverosa del cervello di Tiennot -, e guardava fuori, come se stesse aspettando qualcuno. Il fidanzato, pensò Tiennot, il cui personalissimo radar raramente faceva cilecca.

La seconda: una donna lo aspettava al bancone, una ventiquattrore gonfia di carte e scaroffie sul punto di esplodere su uno sgabello, proprio di fianco a lei. 

Giaccone scuro, pantaloni a sigaretta, occhiali da sole e capelli perfettamente acconciati. Un velo di trucco e una borsa capiente sotto braccio completavano il quadro generale. Il fatto che aspettasse espressamente lui fu confermato dall’ampio - e sollevato - sguardo che sua madre gli rivolse, e dall’ampio - e anche un po’ seccato - sorriso che la donna sfoderò vedendolo entrare nel locale. Piegò la testa da un lato, con fare civettuolo, e si voltò apertamente verso di lui, andandogli incontro.

«Monsieur Arnoul», disse lei, tendendogli la mano e macinando - schiacciando - il pavimento sotto le suole dei suoi mocassini italiani. «Sono Shaina Cohen. Felice di conoscerla.» 

Il suo francese era buono. Molto buono. Tuttavia, Tiennot non capiva cosa diamine potesse volere quella donna da lui.

«Buongiorno», rispose. Come se non fosse sicuro della risposta giusta da dare. «Cosa posso fare per lei?»

Probabilmente era un’altra falena attirata da quell’assurdità del concorso. Qualcuno che voleva assolutamente incastrarlo a fare qualcosa di tremendamente noioso, quanto inutile e superfluo. O magari provare a piazzargli una polizza assicurativa di qualche genere. Ne erano arrivati a carrettate, di personaggi simili, sorriso smagliante e proposta irrinunciabile nella tasca dei calzoni. 

Bastava solo dimostrarsi degli psicopatici, cosicché perdessero ogni velleità di voler chiacchierare con un matto. Perché una persona gentile, ma ferma, può essere lavorata ai fianchi; la si può assillare, assediare ed espugnare per stanchezza. Ma uno psicopatico, no; uno psicopatico è un tizio che ha scritto in fronte una parola sola, ma a caratteri cubitali. GUAI. E la prima cosa che si insegna, alla Scuola degli Scocciatori, è di evitare come la Peste tutti coloro che possono dare rogne. Perché quelle rogne ricadranno sulla testa e sulle spalle dello sfortunato piazzista/agente immobilliare/assicuratore. Una delle tante regole non scritte del Pacchetto Sopravvivenza, insomma.

Così Tiennot, fedele alla linea impostata da Rémy prima di lui, mise su l’espressione più stralunata del suo repertorio. E la donna sbatté le ciglia, perplessa.

«Sono Shaina Cohen», ripeté. Quasi scandendo il proprio nome e cognome. «Sono l’assistente personale del signor Papadopoulos. Sono qui per il sopralluogo.»

«Sopralluogo?», ripeté, nella pia speranza di guadagnare del tempo che, ormai, pareva essere scaduto. E che la signora Cohen non avrebbe dilazionato ulteriormente.

«Il sopralluogo. Certamente», ripeté Shaina abbandonando la sua mano e fissandolo dritto nelle palle degli occhi. A Tiennot ricordò un qualche tipo di serpente. Un cobra, pronto ad ipnotizzare la propria, incauta vittima con un movimento ondulatorio della testa, prima di sputarle veleno negli occhi. 

«Per la sfida di S. Valentino. Ricorda?» Pausa. «Abbiamo concordato che ci saremmo incontrati a pochi giorni dall’evento per discutere tutti i dettagli. Oggi. A quest’ora. Mezz’ora fa, per amore di precisione.»

Shaina lo fissò perplessa, poi scattò, diretta come un pugno alla mascella:«Lei ha letto quella email? Anzi, ha letto quelle email, vero signor Arnoul?».  

 

La realtà era che no, Tiennot non le aveva lette, né quella, né le altre che erano fioccate da che i tre locali erano stati scelti per la sfida. Non le aveva aperte affatto. Perché mai avrebbe dovuto? Tutta quella faccenda era un’incombenza che spettava a Coco, solo ed esclusivamente a lei. E Coco sì, che le aveva lette, una ad una, rispondendo a nome del fratello a tutto ciò che Shaina Cohen le domandava. Ma Coco aveva anche deciso di guadagnare tempo, il più possibile, tutta presa com’era dal cercare di produrre una sua versione del Plaisir d’Amour che fosse almeno commestibile, e non le costasse una denuncia per avvelenamento da parte di Milo Papadopoulos.

«No», rispose Tiennot. Non era con lui che quella donna avrebbe dovuto parlare, ma con Coco. Coco che, tanto per non smentirsi, non solo non si era presentata per risolvere la questione, ma gliene aveva debitamente taciuto ogni aspetto possibile ed immaginabile, a cominciare dal fatto di aver preso un impegno a suo nome, perseverando nell’errare.

Shaina si accigliò.

«Come sarebbe a dire no?», domandò. «Ma io con chi ho avuto quello scambio di email, mi scusi?»

«Con mia sorella», rispose Tiennot, superandola e portandosi dietro al bancone. «Tutta questa storia è una sua idea. Io non c’entro nulla. Ero contrario a partecipare, ma mia sorella ha iscritto il Verse-Eau nonostante tutto.» 

«Ma le email sono a nome suo», insistette Shaina. Prese il proprio iPad dalla ventiquattrore e glielo mise di fronte. «Ecco qui.»

E Tiennot guardò assieme a Françoise la prova inequivocabile della colpevolezza di Coco. Una dozzina di scambi telematici con Shaina, in cui le due decidevano per filo e per segno come si sarebbe dipanata quella vicenda. C’era però un piccolo, piccolissimo problema. Quella scriteriata aveva firmato a nome suo.

Un velo di furore cieco scese sul viso di Tiennot. 

Io la strozzo. La strozzo. E nascondo il cadavere in cantina.

«Signora Cohen…»

«Mi chiami Shaina.»

«Shaina», la accontentò Tiennot. «Credo ci sia stato un colossale equivoco.»

«Signor Arnoul…» Lui non le disse di chiamarlo pure Étienne. «Gli errori capitano. Succedono. Volenti o nolenti. Ed il mio lavoro è quello di scovarli, eliminarli e far tornare tutto l’ingranaggio a scorrere liscio come l’olio. Senza intoppi.»

Tiennot annuì.

«Ma qui siamo oltre l’errore. Qui c’è del dolo

«No, aspetti…», provò ad intervenire Françoise.

«No, non aspetto», e Tiennot sentì le fauci della serpe chiudersi attorno alla sua caviglia. «Voi avete preso un impegno con il signor Papadopoulos. Vede questa firma?»

Shaina gli mostrò un documento con tanto di firma digitale, ovviamente falsificata da Coco.

«Questa è o non è la sua firma, signor Arnoul? Ci pensi bene, prima di rispondere.»

Tiennot serrò i denti, i pugni e l’anima.

«È la firma digitale del locale», scelse di rispondere. Non era proprio la verità, ché era la sua, quella, di firma; ma siccome un locale non è un’entità a sé stante, qualcuno aveva dovuto farne le funzioni. E a chi altri era toccato in sorte di assolvere quel compito?

 «Maman, andresti a controllare i croissant in cottura, per favore?»

Françoise non se lo fece ripetere due volte. Abbozzò un sorriso costernato a Shaina e si infilò dietro la porta del laboratorio, la mano nella tasca del grembiule alla ricerca del cellulare con cui convocare, seduta stante, Coco al Verse-Eau.

 «È la firma digitale del locale», ripeté, con maggiore calma, tornando ad occuparsi di Shaina.

 «Questa firma riporta il suo nome», puntualizzò lei.

 «Credo di capire quale sia il busillis.» Pausa ad effetto.  «Il nome è sì il mio, ma il locale appartiene anche a mia sorella Coralie. Parteciperà lei, alla gara.»

Shaina sbatté le ciglia, perplessa.  «Mi scusi, ma allora perché ha iscritto lei

 «Ha iscritto il locale», puntualizzò Étienne, per l’ennesima volta.

 «No, signor Arnoul.» Il dito di Shaina, l’unghia laccata di rosso scuro, riprese a scorrere sull’iPad. Aprì e chiuse diverse cartelle, scartabellandone il contenuto, fino a quando non trovò quello che cercava; e mostrò il file a Tiennot.  «Ha iscritto specificatamente lei.»

E Tiennot vide, compilato in ogni sua parte, il modulo di adesione a quell’assurdità di gara a cui Coco aveva abboccato, senza nemmeno bisogno di vedere l’esca. E sì, quella donna aveva ragione. Alla voce PARTECIPANTE figurava il suo nome - il suo nome per esteso: Étienne Rémy Arnoul.

 «Io non capisco…», si lasciò sfuggire, per dare a sua madre il tempo di trovare quella scriteriata, incosciente, scapestrata di Coco.

 «Quando ci si iscrive al concorso, è obbligatorio compilare questo formulario. In tutte le sue parti. Altrimenti la registrazione non va a buon fine.»

Shaina gli stava spiegando tutto, passo passo, come se stesse parlando con un moccioso particolarmente ottuso - enfasi su ottuso.

 «E l’unico ad avere diritto a partecipare è un cuoco. O un pasticcere. Qualcuno, insomma, che abbia conseguito un diploma professionale.» Pausa. «Questa è una gara tra professionisti. Non una sagra di paese. Nessun vero cuoco si abbasserebbe a partecipare se sapesse che i suoi avversari sono casalinghe, pensionati o food blogger

Tiennot annuì, la calma apollinea che lasciava il passo, piano piano, ad un furore sempre più cieco e sempre più assoluto.

 «Mi dica, signor Arnoul: sua sorella è una professionista? Perché, in tal caso, sarei curiosa di sapere come mai abbia iscritto lei…»

In un altro momento, le labbra di Tiennot si sarebbero arricciate all’insù in un sorrisetto divertito al pensiero - all’idea platonica - di Coco tra pentole, padelle, fornelli, senza che nessuno ci lasciasse le penne. Ma quel sorrisetto morì senza appello, mentre i suoi occhi gli rimandavano il suo nome - il suo nome per esteso - nella casella relativa al partecipante.

 «E sono sicura che sua sorella non sia neppure iscritta ai Marmittoni, giusto?», rincarò la dose Shaina.  «Perché vede, signor Arnoul, io mi adopero al massimo, nel mio lavoro. E sono sicura, sono più che sicura, che non non ci sia tra i Marmittoni nessuna Coralie Arnoul.»

 «No», disse Tiennot, il volto livido e la mascella serrata. 

 «Signor Arnoul…» Shaina allontanò l’iPad dalle sue mani, nella malaugurata ipotesi che potesse scagliarlo contro la prima parete disponibile. «Siamo a pochi giorni dalla messa in onda. Non vorrete ritirarvi proprio adesso, vero

«Sarebbe possibile?», domandò Tiennot. Sapeva che, dietro a quell’eventualità sventolatagli sotto al naso, si nascondeva, piuttosto, un’arma a doppio taglio, che l’avrebbe sì, salvato; ma a quale prezzo? Alto, tanto per cambiare, si rispose; ma fissò Shaina, come se fosse la sua personalissima Fata Madrina pronta a salvargli le chiappe ancora una volta.

«Certo. Tutto è possibile», rispose lei, come da programma.

«Ma?»

Shaina sorrise. Era venuto a vedere il piatto, e lei di sicuro non si sarebbe fatta trovare con una misera coppia di nove. Per quanto, una coppia di nove è sempre meglio di una mano spaiata. «Ma a questo mondo tutto ha un prezzo, monsieur Arnoul», rispose lei. 

«A quanto ammonterebbe la penale?» 

Lo chiese senza starci a girare troppo attorno. I serpenti vanno presi per il collo, affinché non si rigirino e mordano. Ma Shaina non era una cobra, no; mano a mano che quella conversazione proseguiva, Shaina si stava dimostrando più una bizzarra versione di un serpente costrittore. Un boa. O un’anaconda verde, di quelle che - si favoleggiava - vivessero indisturbate nel Rio delle Amazzoni.

Sto solo facendo il mio lavoro, diceva la postura di quella giovane donna. Niente di personale.

Lei prese una penna dalla borsa, strappò un foglietto da un bloc-notes e scrisse la cifra.

«Sta scherzando?»

«No.» Pausa. «Sono serissima.»

«Credo sia opportuno che io senta il mio avvocato», le fece notare Tiennot. 

«Mi sembra una saggia idea», ribatté lei. «Ha meno di ventiquattr’ore di tempo, signor Arnoul, per prendere una decisione.»

«Altrimenti?»

Lei non si fece intimorire dal tono di sfida con cui Tiennot pronunciò quella domanda. 

«La penale potrà sembrarle alta…»

 «Alta? Avanti, è più alta del premio del premio finale!»

 «… ma arrivati a questo punto, il problema riguarda tutti. Le rammento che il ritirarsi dalla gara, a pochi giorni dalla messa in onda, inciderà sul lavoro dell’intero gruppo. Il mio, quello del fotografo, quello della squadra, quello del signor Papadopoulos e quello degli altri concorrenti.»

«Mi pare assurdo che non ci si possa ritirare!»

Shaina prese la borsa per il manico, armeggiò con il cellulare e si guardò intorno.

«Signor Arnoul», e sembrò cercare il tono più conciliante di tutto il suo repertorio, «certo che è possibile ritirarsi. Ma ci sono delle tempistiche da rispettare. Un termine superato il quale no, non è più possibile tornare indietro, se non per cause di forza maggiore. Cause improrogabili e non dipendenti dalla propria volontà.».

Tacque per un istante, spaziando con lo sguardo nel locale. 

«Questo significa che, ad esempio, o il locale è dichiarato inagibile per una calamità naturale; oppure perché, nel frattempo, il concorrente è passato a miglior vita.» Pausa. «E siccome il Verse-Eau è ancora in piedi e perfettamente funzionante, e lei è qui, vivo e vegeto…»

Prese la borsa, girò sui tacchi ed uscì dal Verse-Eau a passo di marcia. Come un panzer lanciato per il pendio della Collina.

 

 «Ma si può sapere cos’è successo?»

Françoise era riemersa dal laboratorio, un vassoio di croissant tra le mani e l’aria terrea.

Tiennot non rispose. Fissò per qualche istante un punto indefinito del bancone davanti a sé, le mani strette a pugno e le nocche sbiancate.

 «Mamma, io devo assentarmi un attimo», disse, infine, riemergendo dal proprio malmostosissimo silenzio.

 «Dove vai?», gli sibilò lei.

 «Devo pensare. Devo pensare e devo sbollire. Hai chiamato quella disgraziata?»

 «Non risponde. Le ho lasciato un messaggio e continuerò a chiamarla fino a che non ci farà la grazia di comparire qui.» Silenzio. «Tiennot, non…»

 «No, mamma. Per favore.» La voce bassa, lo sguardo rivolto al locale, Tiennot aggiunse: «Devo calmarmi. Se comparisse adesso, non so che cosa potrei fare.».

Diede una manata di stizza al bancone, sollevò il basculante ed uscì, le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto e l’umore che virava al fortunale.

In quella, il ragazzo seduto al posto di Rodrigo si alzò, recuperò le sue cose e si avvicinò alla cassa per pagare.

Ti sei goduto lo spettacolo?, pensò Françoise, guardandolo con la coda dell’occhio, mentre Tiennot spariva oltre la vetrina del Café e scivolava via, lungo le strade lastricate di porfido.

Françoise ricapitolò il conto e batté lo scontrino. E pregò che Rodrigo riuscisse nel miracolo di farlo ragionare.

 «Torni a trovarci», disse al ragazzo, con un ampio - ampissimo - sorriso di circostanza; quello che metteva su quando le cose andavano alla malora, ma non ci si poteva permettere il lusso di dimostrarlo.

 «Certamente», rispose lui, con un tono di voce molto, molto sicuro di sé. Troppo, per i gusti di Fanchon.  «Ho sentito che parteciperete al concorso di Papadopoulos.»

«Scusi?», e sbatté il cassetto del registratore di cassa.

 «Mi spiace», disse il ragazzo, mentendo spudoratamente. «Non era mia intenzione origliare la vostra conversazione, ma quella donna… Cavoli, strillava come una strega a cui hanno pestato i calli!»

 «Oh, mi dispiace», disse Françoise. Con tutta l’aria di chi no, non è dispiaciuto affatto. Anzi. «Sono sicura che se dovesse tornare dopo il concorso, troverà un posto più tranquillo», gli promise.

 «Ci conto.» Le sorrise, un gesto collaudato e civettuolo, e annuì.  «Questo posto mi piace. Sa, mi piacerebbe trasferirmi qui, a Montmartre. Sarebbe bello venire a far colazione qui, tutte le mattine.» Pausa. «Il mio compagno adora questo posto, sa?»

 Françoise sorrise. «Lo ringrazi da parte mia.»

 «A dopo il concorso, allora», proseguì il ragazzo, come se niente fosse. Poi la guardò dritto nelle palle degli occhi, e aggiunse: «Che vinca il migliore!».

E con un sorriso strafottente - uno di quelli che attira i pugni come il miele fa con gli orsi - girò sui tacchi ed uscì dal locale, lo scampanellio allegro della porta come discrepante coro d’accompagnamento.

Françoise sbuffò. Ci mancava lo stronzo giornaliero, pensò, sistemando i croissant sull’alzata di cristallo. Prese uno strofinaccio, della carta assorbente e un disinfettante, e si diresse al tavolo di fronte alla vetrata, per pulirlo dalle briciole. Mentre spolverava, si accorse di un quaderno, poco più grande di un taccuino, la copertina verde smeraldo contro lo schienale della poltrona. Lo avrà dimenticato quell’imbecille, pensò, prendendolo e sfogliandolo, sovrappensiero. Aiolia, lesse, chiedendosi che razza di nome fosse, quello.

Un nome da imbecille, sentenziò lei. Qualcuno entrò nel Verse-Eau. Françoise mise su il suo sorriso migliore e più determinato. Si diresse al bancone e ripose - e confinò - quel quaderno dalla copertina verde smeraldo dentro al cassetto degli oggetti perduti, sperando, con tutto il cuore, che quel tizio non si sarebbe fatto più vedere.


   
 
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