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Autore: Adeia Di Elferas    21/03/2024    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Governatore veneziano di Ravenna aveva voluto radunare tutti i comandanti una volta di più, per essere certo di non aver sorprese il giorno in cui avrebbero sferrato l'attacco decisivo.

Benché la loro preda, Faenza, fosse così allo sbaraglio dall'aver creato un corpo di cento boia per decapitare chiunque in città avesse intenzione di appoggiare i veneziani, era necessario essere più che sicuri dei propri alleati, prima di esporsi.

Non lontano da lì, a Imola, si diceva che Ottaviano Riario sostasse assieme a un Bentivoglio ormai da giorni e nessuno capiva quale fosse il suo reale intento. Soprattutto, in molti si chiedevano come mai il papa non stesse facendo nulla o per aiutarlo o per punirlo per la sua insubordinazione. Quale che fosse l'esito di quella strana missione, comunque, di certo non sarebbe stato positivo, e Moro non voleva per alcun motivo trovarsi negli stessi imbarazzi in cui si stava trovando il figlio di Caterina Sforza.

Cristoforo aveva scelto Ravenna, come punto di ritrovo, perché si sentiva più al sicuro. Aveva fatto perquisire a fondo tutti i comandanti, sperando che nessuno di loro se la prendesse troppo, e poi li aveva accolti, mentre scendeva la sera, nel salone più spazioso del palazzo che occupava come Governatore.

Attese qualche secondo che tutti si tacitassero e poi li guardò a uno a uno. C'erano Dionigi e Vincenzo Naldi, Giampaolo Manfrone, Antonio Pio, Giulio Vitelli, Caracciolo e Lazzaro Grasso. Nel profondo, non si fidava di nessuno di loro, ma stando al soldo di Venezia, si era abituato a gestire rapporti di lavoro con uomini che cambiavano bandiera al primo aumento di stipendio.

“Siamo qui per fare il punto della situazione – iniziò a dire, indicando la mappa che aveva fatto inchiodare alla parete – dobbiamo essere veloci, perché come di certo sapete anche altri si stanno muovendo...”

“Se alludete al Riario, anche lui è in accordi con Venezia.” fece notare Lazzaro Grasso: “Dunque di fatto combatte al nostro fianco.”

“Quello è comunque figlio di sua madre.” si intromise Dionigi Naldi, che poteva parlare con cognizione di causa, avendo lavorato per molti anni al fianco e a volte contro Caterina Sforza: “E anche se sembra un idiota, la Tigre interverrà, e Venezia non otterrà un bel nulla!”

“Il Doge non si fa certo prendere per il naso da un ragazzino viziato come quello!” ribatté, con astio, Caracciolo.

“Tu non conosci quel diavolo della Sforza!” fece Vincenzo Naldi, dando man forte al parente.

“Quella è pur sempre una donna!” intervenne Giulio Vitelli: “Che mai potrà fare di così eclatante!”

“Basta!” sbottò Antonio Pio, mentre Manfrone annuiva per dargli ragione: “Questi non sono affari nostri! Noi siamo pagati per prendere Faenza, e questo faremo!”

“Ben detto.” sospirò Moro: “Quindi vorrei una volta di più che mi rammentaste i vostri piani d'attacco.”

Com'era già accaduto in due incontri precedenti, tra i comandanti si formarono in fretta due fazioni opposte. La prima, composta dai Naldi, Giulio Vitelli e da Manfrone voleva un attacco rapido e massiccio, condotto sui tre lati della città, impiegando non meno di duemila fanti e due cannoni, previo riempimento dei fossati con fascine e terra. La seconda, che contava su Caracciolo, Pio e Grasso, propendeva per una strategia più attendista, basata sull'affamare ancora un po' la città per poi attaccare quando fossero stati certi di non poter incontrare una grossa resistenza.

La discussione si protrasse anche più di quanto Moro avrebbe voluto, e alla fine il veneziano zittì tutti con un ampio gesto delle braccia e deliberò: “Non voglio un attacco frontale che potrebbe trasformarsi in un massacro... Ma ho un progetto che voglio sottoporvi, che in parte potrebbe accontentare tutti, perché rapido, ma senza grossi rischi. E il Doge ha già dato il suo benestare.”

A quelle parole tutti rimasero in silenzio, in attesa. Cristoforo non avrebbe saputo dire se a conquistare l'attenzione di tutti fosse stato il nominare Loredan, o se, semplicemente, il suo tono perentorio.

Decise, a scanso di equivoci, di mantenere la voce salda come poco prima, e iniziò a spiegare: “Io ho fatto presente al Doge che ci servono almeno seimila soldati e non meno di duemilacinquecento uomini di fatica, se vogliamo far tutto per bene, e il Doge mi ha già dato carta bianca su questo punto, visto che è per Venezia sommamente importante prendere Faenza, per poi espandere il dominio a tutta la Romagna.” gli altri annuirono, senza sollevare alcuna perplessità, così il Governatore di Ravenna riprese: “Ho preso contatti con Gabriele Calderoni, il villico che ben conoscete ormai tutti, e mi ha promesso tutti i suoi contadini. Non saranno addestrati, ma per una discreta paga e la promessa di un bottino di guerra, non si faranno problemi a rischiare la vita per noi, e a noi serve gente da mandare avanti.”

“E se i fiorentini mandano davvero aiuti a Faenza?” insinuò a quel punto Dionigi Naldi, che non vedeva nulla di male nell'usare dei contadini come carne da cannone, a patto che farlo non li mettesse in difficoltà contro un esercito meglio organizzato come poteva essere quello di Firenze.

Moro sollevò le sopracciglia e, quasi incredulo, ribatté: “Temiamo davvero che arrivi un numero ingente di fiorentini? Faenza fa fuochi da giorni, per chiedere aiuto e la Signoria ha mandato... Non so... Quanti? Cento uomini? Forse meno... E alla spicciolata... Non sono riusciti ad arrivare vivi nemmeno al limitare della città. Se Firenze avesse voluto, ci avrebbe già spazzati via.”

“State dicendo che Firenze mente, quando dice di voler aiutare i Riario a rientrare in Romagna? Vi pare tutta una farsa?” si informò l'altro Naldi, corrugando la fronte.

“Dico che le parole sono parole – perse la pazienza Cristoforo – e i fatti sono i fatti. Se Firenze avesse davvero voluto fermarci, saremmo già tutti morti.”

Nessun obiettò più, e così il Governatore poté continuare a esporre il suo piano d'attacco. L'idea era tutto sommato semplice, quasi di impostazione classica, e convinse tutti in pochi minuti.

“E allora quando attaccheremo?” domandò, con impazienza, Manfrone.

“Se siamo tutti concordi... Domattina.” rispose Moro, annuendo da solo: “Avverto Calderoni di tenere pronti i suoi.”

“Perché così presto?” provò a chiedere Antonio Pio.

“Perché io mi fido di tutti voi, ma a volte pecco d'ottimismo. Voglio mettere in pratica il piano fintanto che a nessuno viene voglia di chiacchierare troppo.” rispose Cristoforo, con un sorriso ampio e quasi convincente.

Tutti convennero e solo Lazzaro Grasso, appena prima di andarsene, ci tenne ad aggiungere, in un sussurro rivolto a Moro: “Se quello è il vostro cruccio, l'attacco andava ordinato già stanotte... Ma come dite voi, le parole sono parole e i fatti sono fatti. Qui dentro non conviene a nessuno far arrabbiare Venezia, e, soprattutto, Faenza non ha nulla da dare in cambio di un'amichevole soffiata...”

 

Caterina mise da parte la lettera di Fortunati, trattenendosi a stento dal farla a pezzi. Gli aveva chiesto di raggiungerla, o, almeno, di indagare meglio su quanto stesse combinando davvero Ottaviano a Imola, mentre il piovano le aveva solo risposto di avere pazienza, di non preoccuparsi e soprattutto di non fare nulla sull'onda della rabbia.

La donna non aveva quasi letto l'ultima parte, in cui Francesco le diceva che i Salviati erano disponibili a un incontro tra i loro figli molto presto, ma che averebbero capito benissimo, se lei avesse deciso di posticipare il tutto per via degli incresciosi fatti che stavano accadendo in Romagna. In quel momento, per lei, far conoscere i piccoli Salviati e Giovannino – era lui quello a cui più serviva il contatto con altri bambini – non era più una grande priorità. Temeva la reazione di quelli che le si erano professati alleati, e temeva anche il giudizio di Giuliano Della Rovere, che avrebbe potuto accusarla per l'insensatezza del gesto del figlio, precludendole ogni possibile futura contrattazione per il dominio delle terre romagnole.

Così, senza forze e incapace di pensare lucidamente, la Leonessa quella mattina, prima che sorgesse il sole, era andata nelle cucine a prendere una caraffa di vino scuro e si era rintanata nella sala delle letture, a quell'ora deserta. La notte insonne non le aveva lasciato altro che un senso di precarietà che si acuiva con il buio che vedeva oltre la finestra. Il sole, quel giorno, sembrava non voler arrivare mai...

Un sorso dopo l'altro, quando finalmente l'aurora arrivò, Caterina si trovava già a metà caraffa. Le bruciava la bocca dello stomaco, ma non dava più peso a quel genere di fastidio.

La faceva impazzire vedere la sua vita come un'unica grande attesa di qualcosa. Aspettava il ritorno di Fortunati, aspettava delle risposte dai suoi alleati, aspettava di vedere come sarebbe finito l'assedio di Ottaviano, aspettava, perfino, di ricevere una nuova lettera da Baccino che, dopo la sua ultima, non si era più fatto vivo...

Si stava versando un calice in più, quando sentì dei passi alle sue spalle. D'istinto, si alzò in piedi e scrutò nella penombra, finché non riconobbe il profilo alto ed elegante di Galeazzo.

“Come mai sei già sveglio?” gli chiese, con la voce arrochita dal lungo silenzio.

Il ragazzo, rimasto vicino alla porta, eluse la domanda e chiese, a sua volta: “Come mai voi siete qui a bere vino a quest'ora?”

“Siediti vicino a me.” lo invitò la madre, rimettendosi comoda a sua volta.

Il Riario eseguì, tenendo in un primo momento gli occhi bassi e poi alzandoli verso quelli della madre. Il verde delle iridi del giovane era più pieno, più uniforme di quello della Tigre, eppure Caterina riusciva a scorgervi una sorta di marchio, come un qualcosa che l'avrebbe per sempre legata a lui più di quanto non fosse legata agli altri figli avuti da Girolamo Riario.

“Siete in pensiero per quello che sta facendo Ottaviano?” chiese Galeazzo, mordendosi poi le labbra carnose.

“Tuo fratello ha agito in modo sconsiderato.” scosse il capo lei: “Se... Se dovesse riuscire, Imola diventerebbe praticamente veneziana. Se dovesse fallire...”

Il silenzio che seguì pesò su entrambi in modo significativo. La Sforza fu tentata di offrire il suo calice al figlio, ma sapeva che il Riario beveva vino di rado, e di certo non a quell'ora del mattino, così lasciò perdere.

“Oggi ti andrebbe di provare a insegnare qualcosa a Giovannino?” chiese Caterina, all'improvviso.

“Gli insegno sempre qualcosa, ogni giorno.” rispose il giovane, con un breve sorriso: “Ieri gli ho insegnato la guardia alta e...”

“Intendo dire...” la voce della Leonessa si era fatta un po' più distante, e si rinfrancò solo dopo un paio di sorsi di vino: “Ormai Giovannino... Ad aprile avrà sei anni... Deve imparare davvero a leggere e scrivere... A far di conto...”

“Forse sarebbe più adatto frate Lauro...” provò a dire Galeazzo, in difficoltà.

“Tuo fratello è un terremoto... Se frate Lauro provasse a farlo sedere alla scrivania, in meno di un minuto lo si troverebbe a correre in cortile...” sospirò la milanese, con un'espressione che però poteva dirsi più compiaciuta che non contrariata: “E a volte quando la balia di Pier Maria prova a spiegargli qualche semplice calcolo, lui inizia a farle degli scherzi... Lo sai che ieri le ha infilato un rospo nella zuppa?”

Il Riario non trattenne una risata e poi disse: “No, questo mi era sfuggito...”

Anche la Sforza rise, ma poi tornò seria molto in fretta: “Speravo che avesse preso il carattere di suo padre, ma forse sono stati l'uno accanto all'altro per troppo poco tempo.”

“Messer Giovanni però mi aveva raccontato che da bambino anche lui era molto vivace...” si permise di dire Galeazzo.

In effetti anche Caterina ricordava il Medici narrare le sue marachelle, le fughe nei campi per sottrarsi agli studi, ma alla fine era diventato un uomo assennato ed equilibrato. Mordendosi l'interno della guancia, la donna ricordò però anche di come lo stesso Giovanni l'avesse sposata contro il volere della famiglia e rischiando di inimicarsi perfino Firenze... Forse non era un uomo tranquillo come sembrava...

“Hai ragione.” disse infine, guardando il figlio con un sorriso un po' triste: “Resta il fatto che non voglio che Giovannino sia un illetterato.”

“Cercherò di insegnargli qualcosa, per quello che posso.” fece allora il ragazzo, che però riteneva quel compito veramente molto complesso.

“Vorrei solo essere una brava madre.” sussurrò la Tigre, in uno slancio di sincerità: “Per tutti voi non la sono stata, e Giovannino ha passato i suoi primi anni a nascondersi in un convento...”

“Non è facile, essere genitori.” la consolò il Riario, non trovando di meglio da dire.

“Sono sicura che tu sarai un ottimo padre, quando sarà il momento.” dichiarò la donna, guardando il figlio con convinzione, mentre il vino bevuto a stomaco vuoto cominciava a darle una certa sonnolenza.

Galeazzo deglutì e fu sul punto di dire che, per il momento, non si sentiva pronto ad avvicinare una donna, figurarsi a crescere dei figli, ma alla fine tacque.

Nello stesso tempo, la Leonessa si trovò a pensare che per il suo quintogenito ci sarebbe voluta la donna giusta, una donna che non lo giudicasse e che lo aspettasse, che gli permettesse di aprirsi con calma, vincendo la sua naturale timidezza, una donna, in definitiva, che lo capisse ancora prima di amarlo.

“Adesso vado a stendermi un attimo...” sbuffò la milanese, lanciando uno sguardo incerto al vino che restava nella caraffa, e decidendo di non finirlo: “Se arrivasse qualche lettera o qualche ospite, vieni a chiamarmi subito, intesi?”

“Intesi.” annuì Galeazzo.

Passandogli accanto, la madre gli accarezzò la guancia resa ispida dalla barba del giorno prima e gli disse: “So che mi renderai ancora più orgogliosa di te.”

 

La mattina del 10 novembre, Vincenzo Naldi era il più agitato tra tutti i condottieri che stavano per prendere parte all'attacco. Il piano era tutto sommato semplice, ma prevedeva di catturare la rocca prima ancora di mettere concretamente sotto assedio la città.

Calderoni avrebbe portato i suoi contadini dal lato opposto alla porta Montanara, che era l'unica che non fosse ancora stata murata per difesa, e nel frattempo i soldati avrebbero riempito i fossati e piazzato i cannoni verso porta Imola, portandoli dalla rocca, che quindi era la priorità assoluta.

“So come fare.” disse Vincenzo, quando arrivarono gli altri comandanti, per coordinarsi prima dell'attacco: “Lasciate che parli io col castellano Cortez. Cesare Viarana verrà con me.” aggiunse, indicando uno dei luogotenenti, che era già in accordi con lui.

“Se volete fare questo tentativo, fatelo.” concesse Moro: “Ma con discrezione. E sappiate che non potete promettere nulla a Cortez, da parte di Venezia. Il Doge è stato molto chiaro.”

Naldi annuì e, nel giro di un quarto d'ora, si trovava sotto la rocca a chiedere udienza. Venne ricevuto subito, e lui e Viarana vennero perquisiti come due ladri. Passati al setaccio, vennero condotti bendati fino in una stanza buia e lì trovarono il castellano.

“Che c'è?” chiese Cortez, con un accento spagnolo così marcato da rendere le sue poche parole quasi incomprensibili: “Che c'è a dirme? Non credete che lascio la rocca in mano a voi... Ladrones.”

Vincenzo fece un cenno a Cesare, che estrasse dalla scarsella una lettera e la porse al castellano. Gli occhi rapaci dello spagnolo la lessero, non senza fatica, e poi si sollevarono verso i due uomini.

Naldi sapeva che Cortez non avrebbe potuto capire che quel documento fosse un falso, ma temeva comunque che stesse per mettersi a gridare dando loro non solo dei 'ladrones', ma anche dei falsari.

Il castellano, invece, ripiegò con cura il foglio e poi disse: “Forse non ho capito bene... Mi spiegate.”

“Se voi cederete la rocca – si schiarì la voce Vincenzo – Venezia vi farà avere diecimila ducati, di cui seimila come indennizzo per tutta l'artiglieria che qui si trova.”

“E chi me lo giura?” chiese lo spagnolo, sospettoso.

“Vi basterà portare quella lettera al Governatore Moro tra cinque giorni – mentì Naldi, senza fare una piega – e lui vi salderà l'intera cifra.”

“E perché non è venuto questo Moro?” indagò Cortez.

“Perché sperava che tra soldati di valore quale io e voi siamo, ci intendessimo meglio. Lui ormai vive solo per far di conto e gestire i denari del Doge...” anche quella menzogna passò dalle labbra di Vincenzo senza provocare la minima alterazione nella sua espressione neutra.

“Bene.” fece il castellano, decidendo con una fretta quasi spiazzante: “Dite che i vostri si mettano qui fuori... Sarà come se ci arrendiamo.”

Comprendendo il bisogno di Cortez di simulare una resa non legata al denaro, per non rischiare reprimende e punizioni da parte dei suoi, Naldi fece un profondo inchino, seguito a ruota da Viarana, e lo ringraziò.

 

Ottaviano aveva convinto Melchiorre Ramazzotto a entrare in Imola come suo rappresentante e a chiedere un colloqui con il castellano della rocca. All'inizio si era sentito relativamente tranquillo, dato che il condottiero che aveva scelto sembrava aver creduto subito alle sue proposte economiche e aveva anche accettato di buon grado che il pagamento avvenisse solo a fine missione. Quel giorno, invece, non riusciva a stare fermo nemmeno un secondo, sicuro che nella rocca stesse accadendo l'irreparabile.

A renderlo così inquieto era stato l'arrivo in città di Giampaolo Manfrone, appena arrivato da Faenza. L'uomo si era subito chiuso nella rocca assieme a Ramazzotto e da quasi un giorno non si avevano notizie né dell'uno né dell'altro.

Ermes Bentivoglio non aveva aiutato minimamente il Riario a calmarsi, raccontandogli di come Manfrone fosse tra i fautori dell'assedio di Faenza. La città era stata abilmente raggirata, la rocca era caduta subito – si diceva forse per tradimento – e le mura cominciavano a disfarsi in macerie sotto i colpi di cannone dei Naldi e degli altri condottieri inviati da Loredan.

Giampaolo Manfrone era un vero uomo del Doge e anche se Ottaviano aveva accordi con Venezia, era certo che la Serenissima l'avrebbe schiacciato, se avesse saputo, magari tramite Ramazzotto, i suoi secondi fini. Quella che gli era parsa un'idea semplice e geniale, si poteva trasformare nella sua fine.

“Quei maledetti!” il grido di Ermes proruppe nella tenda di Ottaviano con una violenza da farlo saltare sul posto: “E meno male che Ramazzotto era amico tuo!”

Il Riario, vedendosi puntare contro l'indice, si strinse istintivamente nelle spalle, come se quel semplice dito potesse trafiggerlo come una spada. Il Bentivoglio gli sciorinò una serie di insulti personali molto pesanti, e poi imprecò perfino contro se stesso, per essere stato così sciocco da seguire un imbecille quale era Ottaviano.

“Ma... Che... Che è successo..?” riuscì a balbettare il Riario, temendo di acuire le grida del bolognese, ma bisognoso di scoprire l'esito della missione di Ramazzotto.

Ermes si premette la mano sugli occhi e poi spiegò: “Il tuo amico ha stretto un accordo con Manfrone per consegnare la città ai veneziani, facendo come se noi non ci fossimo. Manfrone ne è stato felice e ha lasciato Imola. Allora Ramazzotto si è procurato un incontro con gli Anziani di Imola, che gli hanno dato l'incarico di vendere la città a chi vuole lui!”

“E lui... Lui ha scelto Venezia..?” chiese, terrorizzato, Ottaviano.

“Guido Vaina e Giovanni da Sassatello l'hanno convinto a rimettere Imola al papa!” sbottò il bolognese: “E il papa ne farà di tutto, di certo, tranne che darla a te!”

“Ma Giuliano è mio parente...” balbettò il Riario, cercando di appigliarsi a quell'esile speranza.

“Giulio II non darà mai Imola a te, dopo questa confusione...” scosse il capo Ermes: “E tua madre sarà furiosa!”

Mentre il Bentivoglio tornava a imprecare, maledicendo il giorno in cui aveva accettato di stanziare tempo e uomini per quell'impresa folle, Ottaviano sentì il cuore prendere velocità. Era vero: sua madre sarebbe stata furiosa... Era tutto finito. Il papa non avrebbe mai concesso a lui la città... E forse non l'avrebbe più concessa nemmeno alla Tigre, aggrappandosi al fatto che i Riario non si erano dimostrati affidabili...

“Adesso i miei uomini reclameranno...” fece Ermes, affranto: “Avevo promesso loro un bel bottino di guerra...”

“Dovremmo ritirarci a San Pietro in Bagno...” disse il Riario, quasi tra sé, ricordando il posto in cui era morto Giovanni Medici qualche anno prima: “Lì ci sono uomini amici di Bologna e non nemici della mia famiglia...”

“E sia.” concesse Ermes, non vedendo altre soluzioni nell'immediato: “Ma lungo la strada darò il via libera ai miei soldati di fare razzia a Mordano, Bubano e Bagnara. Almeno si sfogheranno un po'...”

Nel sentir nominare Mordano, Ottaviano avvertì un nodo stringersi allo stomaco e vide davanti a sé l'immagine della madre, com'era stata molti anni prima, furiosa perfino con il suo amatissimo Giacomo Feo, proprio per una razzia e una strage avvenuta a Mordano...

“Che Dio ci assista...” deglutì, senza avere, però, la forza di fermare il Bentivoglio.

 

 

   
 
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