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Autore: Francine    29/03/2024    1 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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15.


 

Tra lenzuola sfatte e il sole che insisteva nel richiamarlo ai suoi doveri, Rodrigo sonnecchiava, indeciso se stiracchiarsi e alzarsi una volta per tutte, rassegnandosi ad affrontare di petto quella nuova giornata, oppure restarsene a crogiolare nel letto per qualche altro minuto. Una sorta di risarcimento. Perché lui era sveglio - più che sveglio - quando Tiennot si era alzato, si era ricomposto ed era uscito - senza nemmeno salutare! -, coi sensi all’erta del predatore pronto a procacciarsi un pasto succulento. Peccato che, quando Tiennot si era avvicinato a lui - in agguato dell’istante propizio per scattare, afferrargli il polso,  tirarselo addosso, e continuare un paio di discorsi lasciati a metà -, Rodrigo non fosse, in realtà, scattato, come previsto; anzi. Il torpore aveva avuto la meglio e Tiennot era uscito in punta di piedi, senza fermarsi né voltarsi indietro, quasi avesse paura di svegliarlo. 

Rodrigo sbuffò contro la federa stropicciata. Non ci si comporta così, pensò, con ancora nelle orecchie l’eco della porta che si chiudeva. 

Avrebbe dovuto metterlo ben in chiaro, più tardi. A cena. Dopo cena. E…

E mentre Rodrigo stilava un suo personalissimo piano d’azione, qualcuno bussò. Rodrigo scattò a sedere sul letto come un pupazzo caricato a molla, il cuore che faceva le capriole nel petto.

Tiennot!

Si coprì alla bell’e meglio con il lenzuolo, stringendoselo ai fianchi, e si diresse - si precipitò - alla porta.

Tiennot doveva aver cambiato idea, una volta sceso in strada, segno che era pronto - prontissimo - per i tempi supplementari - per i supplementari dei supplementari dei supplementari… e pure per i rigori. Senza golden goal. Oppure sì?

Magari ha solo dimenticato qualcosa. 

Possibile. Probabile. Sicuro.

Ma questo pensiero fece appena in tempo ad attraversargli la mente. Rodrigo era già oltre. Quale fosse stata la ragione che lo avesse sospinto a tornare à rebours, Rodrigo non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di rapirlo e tenerlo segregato in quella stanza per quarantotto ore. Almeno. Senza chiedere alcun riscatto, ça va sans dire

L’ipotesi che dall’altra parte potesse esserci qualcun altro - Isabelle. O Jacques, ad esempio - non gli passò neanche per l’anticamera del cervello. Afferrò la maniglia e aprì la porta di slancio, il lenzuolo vaporoso come le gonne di una sposa. E dietro la porta, in paziente attesa, non c’era Tiennot. Né Isabelle. Né Jacques. C’era Milo Papadopoulos in persona.

Cappotto blu scuro, sciarpa a righe multicolore - la stessa che aveva indosso l’ultima volta in cui si erano visti, in quello Starbucks di fronte a Saint Paul - , berretto di lana, barba di tre giorni e occhiali da sole. Completavano l’insieme un sorriso da pubblicità - una di quelle in cui è palese che i modelli si lavino i denti con l’acido muriatico - e una busta di croissant in una mano.

«Bonjour!», trillò, garrulo come un fringuello a primavera. Il sorriso si appannò appena. Abbassò gli occhiali da sole, lo squadrò da capo e piedi e poi disse - e poi sussurrò: «Disturbo?».

«Sì!», avrebbe voluto rispondere Rodrigo, magari sibilandolo pure, così da fargli capire di non essere solo e costringerlo a battere in ritirata, almeno per il momento. Invece il suo senso del dovere - quello che Marco chiamava, senza troppe cerimonie, il palo nel culo - lo fece optare per un più diplomatico: «No. Stavo andando a farmi la doccia.».

Si strinse il lenzuolo ai fianchi, come meglio poté, poi chiese:«Che ci fai qui?».

Milo sorrise - il lampo della tagliola nell’erba alta - poi rispose: «Se mi fai entrare, te lo dico.».

E a Rodrigo sembrò un grosso, enorme ragno pronto a mangiarsi, con raffinata lentezza, la povera mosca capitatagli a tiro. 

«O preferisci fare conversazione sul pianerottolo?»

Rodrigo si fece da parte; Milo entrò; la porta si richiuse.

«Scusa il disordine…»

Milo sembrò ignorare la situazione disperata in cui versava la stanza. Era come se qualcuno vi avesse sganciato una bomba H. 

Posò la busta sull’ultimo centimetro quadrato rimasto libero della scrivania, afferrò una sedia miracolosamente vuota e vi si accomodò con un gioco di bacino che avrebbe suscitato l’ammirazione - e l’invidia -  dello stesso Comandante William T. Ryker.

«Dammi un minuto», e Rodrigo sparì in bagno.

Quando ne uscì, presentabile a sufficienza - un paio di jeans stazzonati addosso e una t-shirt stropicciata - Milo lo aspettava. Non si era mosso dal suo posto, le gambe accavallate e l’aria di chi ha tutto il tempo di questo mondo. E anche dell’altro. E Rodrigo pensò - e  Rodrigo seppe - che la chiacchierata che Milo aveva in previsione di fare sarebbe stata molto, ma molto intensa. Meglio prendere il toro per le corna.

«Che ci fai a Parigi? Non ti aspettavo prima di…»

«Se la montagna non va a Maometto eccetera eccetera…» Milo gli passò la busta. «Ti ho portato la colazione. Li ho presi qui sotto e non ho la più pallida idea di come siano, ma non dovrebbero essere malaccio.»

«Grazie.» Ma ora non ho fame, avrebbe voluto aggiungere, e non tanto perché si era già sbafato due croissant amorevolmente forniti da Tiennot - e debitamente smaltiti proprio grazie a Tiennot -, ma perché la presenza di Milo in quella stanza non preannunciava nulla di buono. E non era mai saggio mettersi a mangiare quando c’era la papabile eventualità che una scure ti stesse per cadere tra capo e collo.

«Non hai fame?», chiese Milo. «Tranquillo, non sono mica avvelenati…»

«Preferisco mangiarli dopo», glissò Rodrigo, posando nuovamente la busta sulla scrivania e sedendosi sul letto. «Sai, in caso di attacco di fame improvviso…»

«Come preferisci.» Milo si liberò della sciarpa e sbottonò il cappotto. E poi entrò subito in argomento: «Sono felice di trovarti bene. E sono felice di non essere piombato qui in un momento poco opportuno…».

«La prossima volta chiama», suggerì Rodrigo.

«Giusto», concordò Milo. «Ma sono partito da Londra ad un orario scriteriato e non volevo disturbare.»

Pausa.

«Noi due dobbiamo parlare.»

 

Dobbiamo parlare.

Eccola lì, la bomba da millemila megatoni, il Congegno di Fine di Mondo pronto all’uso.

Dobbiamo parlare.

Una semplice locuzione che, in qualsiasi lingua esistente del globo terracqueo - estinte, presenti o anche solo immaginarie - è foriera di un solo, semplice messaggio: guai in vista. E guai grossi, a giudicare dalla postura distaccata con cui Milo riempiva letteralmente la stanza. Una statua in un museo, pensò Rodrigo. Annuì. Tacque. E Milo continuò.

«Hai svolto un ottimo lavoro. E, come ti ho detto, sono felice di vedere che hai voltato pagina. Non interrompermi», intimò, quando vide Rodrigo dischiudere appena le labbra. «Le tue recensioni sui locali sono ottime. E mi piacerebbe affidarti quest’incarico ancora, in futuro. Ma…»

Perché c’era un ma, che galleggiava nel discorso di Milo, appena sotto il pelo dell’acqua. Rodrigo lo sapeva. E non sarebbe stato un ma piacevole.

«… siamo a due giorni dalla proclamazione del vincitore. E se so vita morte e miracoli delle Nepitelle e dei Kladd… come caspita si chiamano loro… Non interrompermi, ho detto.» Milo si schiarì la voce: «Non ho la più pallida idea di come siano fatti ‘sti benedetti Plaisir d’Amour.».

«Ho specificato ad Adriano quale fosse il problema», si difese Rodrigo. E, a voler spaccare il capello in quattro, era stata la prima cosa di cui aveva parlato con Adriano non appena Tiennot aveva dichiarato di non voler partecipare a quel benedetto concorso.

«Sì, ma siamo a due giorni dalla finale», protestò Milo. «E vorrei saperne qualcosa di più, su questo dolce. Ora, essendo San Valentino non occorre un medium per ipotizzare che ci sia di mezzo del cioccolato…»

«Ma non avrebbero dovuto fornire due righe sul dolce? Una cosa per sommi capi, su cui io avrei dovuto ricamare sopra, e farla passare per una tua recensione?»

«Sì. Ma questi dementi hanno preso un po’ troppo alla lettera l’espressione “per sommi capi”», protestò Milo. Estrasse il telefono dalla tasca del cappotto, fece scorrere l’indice sullo schermo - una, due, tre volte - e poi aprì una cartella. Vi scartabellò per qualche istante e poi si schiarì la voce: «Il Plaisir d’Amour è un dolce al cioccolato aromatizzato al Cointreau. E basta. Tu capisci? Cosa ne deduco, da questa roba? Che cos’è? Un cioccolatino? Un bigné ripieno? Una bestia mitologica?».

 

«Ma allora perché hai scelto loro?», avrebbe voluto chiedere Rodrigo. In quella scena madre vedeva un enorme scaricabarile ai suoi danni da parte di Milo, quando sarebbe stato più igienico - nel senso più letterale del termine - domandarsi le motivazioni dietro alla scelta del Verse Eau. Per frapporre un concorrente tra Yngve e Marco, quasi fosse uno scudo, o una zeppa per tenere aperta una porta, logico. Qualcuno da piazzare in mezzo ai due contendenti e uscirne tutti sani e salvi e con le ossa ancora più o meno integre e l’onore più o meno intatto. Peccato che la strategia di Milo fosse finita a gambe all’aria prima ancora di cominciare. Ma si era forse premurato di porre un argine, un freno a quel delirio? No. Certo che no. Milo aveva continuato dritto per la propria strada, un treno lanciato nella notte, ché The Show Must go On, giusto? E allora, in nome del Cielo, perché piombare in quella stanza pronto a scaricargli sul groppone colpe non sue?

Questo avrebbe voluto chiedere Rodrigo, esplorando a fondo i perché e i percome di tutta la faccenda. Milo aveva tutto il tempo di questo mondo e dell’altro a disposizione, giusto? Beh, non sarebbe stato il solo.

Ma queste risoluzioni battagliere rimasero chiuse nel Cassetto delle Pie Intenzioni. E fu solo quando, a dispetto di tutti i buoni propositi possibili ed immaginabili, udì la sua voce scandire: «No, non è Cointreau. È Mandarinetto. Isolabella», che Rodrigo seppe con assoluta certezza di essersi messo il cappio al collo con le sue proprie mani. E di aver anche spiccato di propria sponte l’ultimo, fatale salto. Tanto per fare trentuno.

 

«Come, scusa?»

Milo lo fissava con un’espressione interessata - interessatissima -, più che pronto a saperne di più sulla faccenda. «E tu come lo sai?»

 

E Rodrigo si ritrovò messo all’angolo, ché non aveva più senso mentire. C’erano almeno un paio di motivi per cui avrebbe potuto avere quell’informazione. Per sentito dire, una confidenza nata sull’onda di una non meglio identificata affinità, simpatia, amicizia, o roba simile. Oppure avendolo assaggiato, e ricevendo la giusta informazione da parte del diretto interessato. E allora perché non l’hai ancora comunicato ad Adriano?, si domandò, giocando a fare l’Avvocato del Diavolo di se stesso.

«Scusami se te lo faccio notare», proseguì Milo, «ma Adriano sta aspettando te

Il est trop tard pour avoir peur. Anche se quella non era la Parigi degli anni ‘60, e Milo tutto era tranne che un delinquente come Michel. Forse.

Così, sospirando e maledicendosi di lì fino al giorno del giudizio, Rodrigo disse: «Fammi parlare.».

«Sono tutto orecchie.» Milo allargò le braccia e distese le gambe. «Prego.»

«L’ho assaggiato», rivelò Rodrigo.

«Lo hai assaggiato…»

«Fammi. Parlare.»

«Certo che ti faccio parlare», ribatté Milo. «Ti faccio parlare fino a quando non mi avrai spiegato per filo e per segno per quale cazzo di motivo non hai passato queste informazioni ad Adriano!»

«Punto primo, l’ho assaggiato ieri sera.» Non era proprio tutta la verità e nient’altro che la verità, ma il diavolo non si annida forse nei dettagli? Sì. Certo che sì. E Rodrigo ritenne più prudente fornire a Milo il minor numero di indizi possibile. Soggetto. Predicato Verbale. Complemento. Evitando qualsiasi velleità di inserire una copula.

«Fammi indovinare. Consegna a domicilio, immagino…», domandò Milo, usando il tono più caustico del suo repertorio, già di per sé affilato e di tutto rispetto.

«Immagini bene», tagliò corto Rodrigo. «Problemi?»

«No. Affatto. Te l’ho già detto. Cosa fai e chi ti fai, nel tuo tempo libero, non sono fatti miei. Ma se la tua vita privata manda a carte quarantotto il lavoro che io ti ho commissionato e che ti ho pagato, beh, allora sì. Sì, sono affari miei. Perché, a costo di sembrare un disco rotto, io ho delle scadenze. E tu non hai rispettato le tue.»

«Non sono d’accordo», protestò Rodrigo. «Ho inviato il materiale richiestomi e ho specificato, spe-ci-fi-ca-to, il problema ad Adriano non appena si è manifestato.»

«Ma hai o non hai tenuto per te le informazioni sul Plaisir d’Amour?», insistette Milo.

«L’ho. Assaggiato. Ieri. Sera», ripeté Rodrigo, facendo appello a tutta la calma in suo possesso. Prendere a pugni un amico è una cosa spiacevole. Prendere a pugni il tuo datore di lavoro appartiene al Campionato Olimpico di tutte le Spiacevolezze esistenti a questo mondo.

Milo indicò il cestino della carta straccia, da cui occhieggiava la busta con il logo del Verse-Eau. «Prima o dopo… No, guarda. Lascia stare. Lasciamo. Stare.» 

Milo si alzò dalla sedia e misurò a grandi passi la stanza, evitando prodigiosamente tutto ciò che si trovava sparso e abbandonato sulla moquette. «Poco male. Manda una e-mail ad Adriano. Il pezzo deve andare online entro domani a mezzogiorno e…»

«No.»

«Come sarebbe a dire no?» Milo si era fermato, spalle alla porta. Sembrava un gabbiano che zompettava tra i relitti sulla spiaggia dopo un uragano.

Rodrigo si passò una mano davanti agli occhi, in cerca delle parole giuste da dire.

«Sarebbe a dire che la situazione è molto più complessa di così», rispose Rodrigo. 

«Quanto?», domandò Milo.

«Senti, siediti ché mi stai facendo venire il mal di mare», protestò Rodrigo ricadendo sul letto a peso morto. 

Milo riguadagnò la sedia. 

«Adesso ti spiego tutto. Tanto avrei dovuto farlo comunque, oggi. Mi hai risparmiato una telefonata.» Ignorò l’occhiataccia che l’altro gli rivolse e poi Rodrigo aggiunse: «Però devi ascoltare tutto. Tutto. Fino all’ultima parola. Intesi?».

Milo si passò una mano sulle labbra, come a mimare una chiusura-lampo, e attese. E Rodrigo raccontò tutto, dalla reticenza a far uscire il Plaisir d’Amour prima di San Valentino; alla decisione ferma - perentoria - di Tiennot di non volerne sapere di partecipare al concorso; ai tentativi catastrofici di fornire una pallida imitazione; al felice approdo tra le braccia di Tiennot; alla degustazione del Plaisir d’Amour poche ore prima.

 

«Non l’ho programmato», disse Rodrigo, chiudendo il suo monologo. «È solo successo. E mi rendo conto che questo ha pregiudicato in parte il mio lavoro. Per cui ritengo giusto rinegoziare il contratto e…»

Milo fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. E fu in quel momento che Rodrigo si accorse che Milo aveva divorato entrambi i croissant che aveva portato. 

«Avevi fame…», constatò.

«I croissant in treno fanno schifo. Non prenderli mai. Mai, intesi?» 

Milo ingoiò l’ultimo boccone e si grattò il mento.

«Fammi pensare…», disse. «Se non partecipa, sono guai.»

«In che senso?»

«Nel senso che è troppo tardi per avere paura», e Rodrigo sentì un lungo, lunghissimo brivido rotolargli giù, per la colonna vertebrale. Sì, Milo sarebbe potuto benissimo essere un ottimo Michel, altroché. 

«Arrivati a questo punto», continuò, «non conviene loro ritirarsi. La penale da pagare sarebbe mostruosa.».

«Quanto?», chiese Rodrigo.

«La cifra esatta non la ricordo», confessò Milo. «Dovremmo sentire Shaina. Ma dovrebbe ammontare a circa… venticinque, trentamila euro? O una cifra del genere.»

«Per cinquemila euro di montepremi?» Rodrigo sbarrò gli occhi. «Non è un po’ esagerato?»

Milo scosse la testa. 

«No. Qui si lavora con tempi strettissimi. E lo facciamo ben presente nel momento in cui i concorrenti firmano un regolare contratto», spiegò. «Serve come deterrente. Sai, per evitare che a qualcuno balzi in capo l’idea di iscriversi per poi ripensarci all’ultimo minuto. Perché non ci vado di mezzo solo io, e chi lavora con me. Ci va di mezzo pure lo sponsor. E credimi, agli sponsor non piace quando tu non tieni fede alla tua parte del contratto…»

«Quindi, conviene che partecipino…» 

 

Quella di Rodrigo suonava come una resa. Una mera constatazione dei fatti. E, in un angolo della sua testa, si chiese fino a che punto Tiennot sarebbe stato disposto ad andare avanti. Anche a costo di dover chiedere un prestito in banca per pagare la penale? E se la banca non gliel’avesse fornito? Che cosa sarebbe successo, allora?

«Direi di sì», convenne Milo. «Anche con una crostata industriale. Meglio una figura di merda colossale, che finire a gambe all’aria, no?»

Dipende, avrebbe voluto ribattere Rodrigo; ma in quel momento il cellulare di Milo vibrò e il diretto interessato lo riestrasse dalla tasca del cappotto.

«Parli del diavolo», disse, guardando lo schermo. «Shaina.»

«Un momento», disse Rodrigo avanzando verso di lui. «Shaina sa che sei qui?»

«No.»

«Comesarebbeadireno?!» Ci mancava anche una Shaina furiosa e sul piede di guerra! «Senti, io non voglio andarci di mezzo.»

«Nessuno ci andrà di mezzo», si affrettò a chiarire Milo; ma, stranamente, Rodrigo non si sentì affatto sollevato da quella promessa. Anzi. «Ciao, Shaina! Sono qui con Rodrigo. Aspetta che ti metto in vivavoce!»

E il timbro allegro di Shaina riempì la stanza come se lei fosse stata lì con loro, in tutti i suoi centosessantadue centimetri di determinazione, ventiquattrore gonfissima e rossetto rosso brillante.

 

«Abbiamo un problema», disse lei, saltando i convenevoli ed entrando subito in argomento; segno, questo, che la situazione doveva essere precipitata e occorreva agire prima di subito per evitare che tutto il progetto deragliasse.

«Cioè?», chiese Milo. 

E Shaina gli raccontò della conversazione appena avuta con Tiennot; del fatto che chi avrebbe partecipato al programma non era un cuoco professionista; e del fatto che, a meno di ventiquattro ore dalle riprese, erano con ogni buona probabilità senza il terzo concorrente.

«Io adesso sono davanti al Susumella», proseguì Shaina. «Controllo che non siano impazziti anche qui e poi ti richiamo. Anzi, porta le chiappe qui. Dobbiamo parlare di quell’altra cosa…»

«Va bene, prendo un taxi e…»

«Ti ho prenotato un Uber», rispose Shaina. E una notifica si manifestò sullo smartphone di Milo. «Il tassista si chiama Aboubakar. Ed è già in zona. Ti conviene scendere. Rodrigo, ci vediamo una di queste sere?»

«Quando avete finito con il programma», rispose lui. Ben sapendo che, nell’istante successivo all’ultimo ciak, tutta la troupe sarebbe tornata di gran carriera alla base per programmare, fin nei minimi dettagli, il prossimo impegno.

«D’accordo», rispose lei. E chiuse la chiamata.

«Che ti avevo detto?», chiese Milo, ricacciandosi in tasca il cellulare. «Chi è causa del suo mal pianga se stesso…»

«Ma non si può proprio fare nulla?»

Milo prese la sciarpa, se la drappeggiò attorno al collo e studiò la propria immagine sulla palladiana. 

«Che resti fra me e te», disse, rimirandosi e sistemando il berretto, «a me piacerebbe che a partecipare fosse la dilettante allo sbaraglio e non il pasticcere professionista. E che magari battesse quegli altri due. Sarebbe divertente.».

«Una lavanda gastrica non è poi così divertente.»

Milo si voltò. «Addirittura?», chiese, gli occhiali da sole tra le dita. 

Rodrigo annuì. «Così pare.»

Milo ci pensò su, poi disse: «Guarda, sarei anche disposto a correre il rischio. Ma bisogna vedere se si possa fare.». Inforcò gli occhiali da sole. «Facciamo così. Io parlerò oggi con questa pasticcera pasticciona. E con Kanon.»

«Kanon?»

«Sissignore. Sguinzaglierò i mastini della guerra.»

«Liberare», lo corresse Rodrigo. «Il verso è Liberate i mastini della guerra

«Giusto», ribatté Milo, a mezza bocca. «Sarà il caso che il mio mastino si guadagni il tozzo di pane che gli allungo.»

Si diresse alla porta, afferrò la maniglia e disse: «Fossi in te, io non mi farei troppe illusioni. E cercherei di convincere il tuo pasticcere a partecipare. Direi che un ascendente ce l’hai, se ti ha portato il dolce a domicilio, no?».

«Vaffanculo, Milo»

«Fai strada. Se sei in ballo, devi ballare. E già che ci sei, manda quel pezzo ad Adriano.»

«Ti ho già detto che…»

«E io ti ho detto già la parola magica. Spon-sor», sillabò Milo. «Il pezzo deve essere sul sito, a prescindere dalle paturnie del tuo pasticcere.»

«Non è il mio pasticcere!»

«Se partecipa, amen. Se non partecipa, per Dio solo sa quale motivo, sul sito deve comparire uno straccio d’informazione. O lo sponsor chiederà la mia, di testa. E non ho nessuna intenzione di andarci di mezzo io per la cocciutaggine altrui. Intesi?»

E senza attendere risposta, Milo si chiuse la porta alle spalle, entrò in ascensore, schiacciò il tasto del rez-de-chaussée e chiamò Shaina.

 

«Quale sarebbe quest’altra cosa?»

Dall’altra parte della linea Shaina emise un ringhio basso. 

Brutto, bruttissimo segno, pensò Milo.

«Ti ricordi di quel tizio che ti avevo sottoposto, qualche mese fa?», chiese Shaina.

«Quale tizio?», ribatté Milo. «Quale dei ventordici aspiranti…»

«Quello che aveva un curriculum buono. Forse anche troppo.» Shaina tacque per un istante, poi aggiunse: «Quello che mi hai detto di cestinare seduta stante e di segnalare l’email come spam? Quello.».

Occazzo… «Sei sicura?»

«Potrei sbagliarmi», disse lei, ben sapendo - e lo sapevano entrambi - che difficilmente Shaina si sbagliava, e di certo mai si lanciava in affermazioni non comprovate da fatti. «Ma mi è sembrato proprio lo stesso tizio della foto.»

Uno così, non te lo dimentichi davvero, sottintendeva il tono di lei.

L’ascensore atterrò con un tonfo e Milo fissò in cagnesco il tizio dall’altra parte dello specchio - il quale ricambiò la cortesia.

«E non vorrei», proseguì Shaina, «che si accollasse mentre stiamo lavorando. Sai com’è, mi pare un po’ troppo fortuito che anche lui sia qui, proprio adesso, proprio mentre siamo qui anche noi. Mi sembra di ricordare che risiedesse a Stoccolma…».

Perfetto. Ci mancava anche quest’altra, colossale, rottura di coglioni!, pensò Milo, quasi scardinando la porta in ferro battuto dell’ascensore dei primi del Novecento, e chiudendosela alle spalle con un sonoro schianto. La madre di tutte le rotture di coglioni!

«Magari è qui in vacanza e lo hai incontrato per caso…», tentò.

«Per caso? In un Café che pare un buco? Non ci credi neppure tu.» E Milo dovette darle ragione. «Il Verse-Eau è finito sul tuo account Instagram, dopotutto», aggiunse Shaina. «Potrebbe averlo visto lì, e…»

«Le congetture non aiutano», disse Milo, uscendo a grandi passi dal palazzo. Aboubakar era già lì, che l’aspettava. Montò in auto, confermò l’indirizzo, poi chiese a Shaina: «Lui ti ha visto?».

«Era già lì quando sono entrata», rispose lei. «Ci siamo ignorati. Ma io non sono te

 «Giusta osservazione», convenne Milo.  «Non credo che avrà la faccia tosta di accollarsi proprio adesso. Sarebbe da idioti. In ogni caso, stai tranquilla. Se quella piattola dovesse farsi vivo, ci penserò io.»

 
   
 
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