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Autore: Flying_lotus95    05/04/2024    0 recensioni
"Aveva quasi come l’impressione di essere tornato indietro nel tempo.
Un piacevole dejà vu che sapeva di liceo, giovinezza e spensieratezza.
Non era da lui essere nostalgico, ma di tempo, in effetti, ne era passato parecchio.
« Cosa c’è, Nishinoya-kun? » La domanda incuriosita di Shimizu lo riportò al presente.
«Nulla» Commentò Yū facendo spallucce. «Stavo solo pensando a quante ne avessero passate quei tre per arrivare fin qui».
Kiyoko osservò Maria, Asahi e Daichi solo per un breve istante e non rispose.
Non c’era davvero bisogno di troppe parole."

~~~
La storia di Maria e di come abbia imparato ad amare sé stessa e il prossimo, oltre le paure e i traumi del passato.
La storia dell'amicizia indissolubile di tre ragazzi, cresciuti con l'amore per la pallavolo, divisi dalla vita e ritrovati dall'affetto.
La storia di Hikaru e del suo sogno di diventare, un giorno, un grande pallavolista.
E la storia di come gli errori di ieri possono diventare la speranza di un domani migliore.
[Storia scritta a quattro mani con effe_95]
Genere: Romantico, Slice of life, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Nuovo personaggio
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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26. Love is a losing game.

 
 
 
Shimizu era sveglia da un pezzo, ma non si era ancora stancata di guardare Koushi.
Non ricordava una singola volta in cui avevano dormito insieme in cui non era stata lei la prima ad aprire gli occhi. Koushi aveva il sonno pesante, profondo, ma Kiyoko aveva pensato fosse un bene, considerate le ore intere che aveva passato ad osservarlo senza che lui sapesse.
Dormiva supino, con un braccio piegato dietro la testa e il viso solitamente rivolto nella sua direzione; non russava, ma aveva il respiro pesante.
Spesso la coperta gli scivolava fin sotto l’ombelico, sopra il pube, come in quell’occasione, e Kiyoko si ritrovava a sistemargliela addosso in modo che non prendesse freddo alla pancia e allo stomaco scoperti.
Qualche volta invece gli sistemava le ciocche di capelli sulla fronte, accarezzandolo.
O altre ancora aveva amato disegnare il profilo del suo viso con l’indice, sfiorandolo appena, a partire dalla fronte con le sopracciglia folte, al neo sotto l’occhio sinistro.
Koushi aveva il corpo caldo e, in particolare nelle notti di inverno come quelle, Kiyoko amava raggomitolarsi accanto a lui.
Avevano fatto l’amore nel futon quella sera, era stato diverso da tutte le altre volte.
Era stato intenso, intimo e travolgente.
Shimizu aveva ancora un ricordo vivido della loro prima volta, l’esitazione, il timore di sbagliare qualcosa, l’incertezza, ma anche l’eccitazione del proibito.
Era successo al secondo anno, durante un ritiro, era in corso una bufera di neve, la corrente era saltata nel fatiscente ostello economico in cui pernottavano. Kiyoko aveva paura di starsene da sola in quella stanza che le avevano assegnato, anche se non l’aveva detto.
Koushi era sgattaiolato da lei di nascosto, nel buio totale, facendosi male contro lo spigolo di qualche mobile durante il percorso; era stato naturale ritrovarsi in quel futon, nudi.
Kiyoko non era mai stata brava a mostrare le emozioni che provava, quelle forti non sapeva nemmeno gestirle; il giorno successivo a quell’episodio l’unica sensazione classificabile per lei era stato il tremendo bruciore tra le gambe, come prova tangibile di quanto accaduto.
Non ne aveva parlato con Koushi ovviamente, era una cosa normale, ma quella sua totale mancanza di qualsiasi reazione aveva fatto preoccupare a morte il poveretto.
Shimizu ricordava di come lui si fosse rifiutato di toccarla per settimane intere, convinto di averle fatto del male. Quando lei era semplicemente troppo felice per trovare le parole.
Chiarire non era stato facile, ma da quel momento Kiyoko si era ripromessa che con lui non avrebbe mai più nascosto nessuna delle sue emozioni, né quelle belle né quelle brutte.
Si era innamorata di lui lentamente, ogni giorno continuava ancora a farlo.
Per quella ragione aveva sentito lo stabile terreno sotto i suoi piedi vacillare all’improvviso quando Koushi le aveva parlato di quella borsa di studio in Brasile.
Shimizu non aveva avuto paura di un possibile tradimento o di un possibile allontanamento, Shimizu aveva avuto paura di sé stessa, e di quello che avrebbe potuto diventare senza quel porto sicuro nella sua vita che era Koushi.
Temeva di non essere più in grado di amare nessun altro oltre lui, ormai.
Avrebbe voluto spiegargli che non era scappata da lui quelle settimane, ma da quella verità che aveva a che fare con sé stessa e che davvero non riusciva ad accettare.
Le era bastata la sofferenza di Maria a farla venire a patti con sé stessa definitivamente.
Maria, che aveva accettato la partenza di Asahi a cuore aperto e senza ripensamenti, a differenza sua. Maria, quell’amica testarda che non la stava mai a sentire, orgogliosa, superba.
Maria, che avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa anche se non voleva farlo.
Shimizu aveva compreso di essere fortunata, invece.
Non doveva lasciare Koushi, non era obbligata a farlo, non doveva pensare di rovinare il suo futuro con una gravidanza indesiderata, non doveva fare nulla di tutto quello.
Era fortunata e avrebbe rovinato tutto con le sue stesse mani se non si fosse fermata.
Non sarebbero stati anni facili quelli che li aspettavano, ma da quella notte Shimizu aveva cominciato ad aspettarli con maggior speranza, per affrontarli a testa alta.
Con coraggio.
Quando riabbassò nuovamente lo sguardo su Koushi, dopo essere stata sovrastata da tutti quei pensieri, lui la stava osservando con un’espressione ancora assonnata, ma rilassata.
Shimizu non sussultò, ma non si era resa conto di averlo svegliato.
Non provava la minima vergogna di essersi fatta scoprire a contemplarlo.
Le bastava pensare che quella sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrebbe visto quegli occhi fissarla in quel modo, con amore, per mettere da parte qualsiasi esitazione.
Ci sarebbero state altre notti, altre carezze, altre stelle, certo, ma erano lontane.
Koushi sollevò pigramente una mano e le accarezzò il viso con il pollice ruvido di calli.
L’aveva amata con un tale trasporto da avere avuto paura di spezzarla tre le sue braccia.
Kiyoko si lasciò accarezzare da quei palmi bollenti, familiari, ruvidi.
Occhi negli occhi.
Se non avesse saputo che avevano scuola quella mattina, che i suoi genitori sarebbero rientrati in tarda mattinata, Shimizu non avrebbe esitato a lasciarsi amare nuovamente.
Avevano tutto il tempo del mondo davanti, eppure le sembrava così poco in quel momento.
Il futuro era incerto e oscuro, una massa nebulosa contro cui non sapeva come lottare.
«Kiyoko» Koushi aveva la voce roca, trasfigurata, la chiamava per nome solamente in quelle occasioni, nei loro momenti di intimità, quando le loro anime si toccavano.
Quella mano ruvida continuava ad accarezzarle il volto con venerazione.
Si erano detti tante cose quella notte senza parlare, ne avrebbero dette altre nei giorni a seguire.
In quel momento però, Koushi sentiva la necessità di fare solamente una cosa.
Cancellare con un colpo di mano quel futuro nebuloso.
«Kiyoko» la chiamò nuovamente, con maggior dolcezza, la voce nuovamente simile a quella abituale «Tre anni, saranno tre minuti, te lo prometto». Il pollice si fermò, ma la mano rimase ferma, calda e rassicurante, solo il palmo sufficientemente grande da ricoprirla.
«Perciò, quando torno dal Brasile, sposiamoci. Voglio sposarti».
Anche in quell’occasione Shimizu non sussultò, ma sentiva il sangue nelle vene ribollire.
Appoggiò la propria mano su quella di Koushi e la scostò dal suo viso con delicatezza.
Si mise seduta, rannicchiando le ginocchia al petto sotto il piumino caldo del futon.
Fissò un punto qualsiasi di fronte a sé di quella stanza non familiare alle prime luci dell’alba.
«Non dire sciocchezze» Mormorò con voce flebile «Siamo solo dei bambini».
Non voleva essere davvero razionale in quel momento, ma doveva.
Era una promessa davvero troppo grossa quella che si stavano facendo.
Se avesse accettato … se avesse accettato e poi …
Koushi si mise a sedere a sua volta, Kiyoko se ne rese conto non perché lo guardò, ma perché sentì il piumino sulle sue gambe tirare verso sinistra, dove si trovava il ragazzo.
Se avesse guardato meglio si sarebbe resa conto che Koushi era nuovamente a petto nudo nella stanza fredda, avrebbe notato i capelli scombinati dietro la nuca e gli occhi stanchi.
Shimizu voleva quella sicurezza, quelle promesse, ma ne aveva anche paura.
«Non scappare di nuovo da me» c’era supplica nel tono di voce di Koushi.
«Puoi anche dirmi di no, non creare promesse, ma per me non cambierà le cose, Kiyoko. Tu sei la donna della mia vita e l’ho deciso da tempo. Quindi è con te, ma se non è con te, allora non è con nessuno».
Shimizu non rispose, seppellì piuttosto la bocca tra le braccia e le ginocchia, rannicchiata.
Calde lacrime silenziose le bagnavano le guance, coperte dai capelli.
Koushi le accarezzò la testa, nonostante la voce ferma gli tremavano le dita.
Doveva aver paura anche lui di un rifiuto, della distanza, della diversità.
Doveva aver paura, si, e le stava domandando sicurezza e fiducia e forza e coraggio.
Kiyoko annuì solamente, un movimento impercettibile alla vista, ma percettibile al tocco della mano che ancora le accarezzava i capelli con dolcezza e affetto.
«Va bene Koushi» Sussurrò in fine «Ti sposerò».
Furono boccioli di speranza quelli che esplosero in quegli occhi magnetici come l’ambra, due gioielli nel buio della stanza, incastonati nel viso di un angelo.
Koushi si protese in avanti verso di lei, le loro labbra si sfiorarono.
Sapevano di sale, speranza e promesse.
 
 
 
Yui era ancora frastornata all’uscita da scuola, ferma fuori i cancelli ad aspettare.
Nella testa stava ancora litigando con sé stessa, avrebbe dovuto andarsene e non stare lì ferma ad aspettarlo; ma non era riuscita a dire di no a quegli occhi risoluti e penetranti ...
Era successo all’improvviso, durante la pausa pranzo.
Yui aveva lasciato l’aula per andare a prendere qualcosa da mangiare in mensa, era stata una questione di pochi minuti, una fila modesta e scorrevole.
Aveva lasciato la sua compagna di banco e cara amica, Mao, a giocare distrattamente con il cellulare ... non riusciva dunque a spiegarsi come fosse possibile che, nel giro di pochi minuti, la scena si fosse evoluta in quel modo.
Mao teneva Daichi per il bavero della giacca nera della divisa, scuotendolo furiosamente.
Yui doveva ammettere che il suo primo pensiero non era stato quello di fermare quella situazione assurda, il suo pensiero era andato a Daichi, e al motivo per cui si trovasse lì.
Il cuore le aveva fatto un balzo nel petto senza che potesse controllarlo, era passato troppo tempo dall’ultima volta che erano stati vicini in quel modo, nella stessa stanza, viso a viso.
Yui non ricordava nemmeno quando fosse stata esattamente l’ultima volta.
«Che cosa vuoi nella nostra classe eh?!» stava gridando l’amica scuotendolo inutilmente.
Daichi non era alto, ma aveva una stazza imponente, Mao non riusciva davvero a smuoverlo.
La ragione di quel comportamento avverso era colpa di Yui e lei lo sapeva bene, se avesse spiegato a Mao, con cui aveva frequentato le medie, come erano andate davvero le cose quando si era verificato quel tremendo incidente, lei non avrebbe mai reagito in quel modo.
Yui aveva fatto un passo avanti per intervenire, ma non era servito.
Daichi si era liberato velocemente della ragazza, con un colpo diretto le aveva scostato le braccia e si era fermato davanti a Yui, sovrastandola totalmente con la sua mole.
Il suo odore l’aveva immediatamente investita, frastornandola, era vicino.
«All’uscita della scuola, al cancello. Dobbiamo parlare, non ammetto un “no”» le aveva detto risoluto, e non aveva nemmeno aspettato una risposta.
Yui si era ritrovata da sola in un secondo, con una Mao urlante nelle orecchie, frastornata e senza fiato come se avesse corso una maratona infinita.
Ci aveva pensato durante le lezioni restanti, durante gli allenamenti; aveva pensato di non aspettarlo, di andarsene via prima, di non fare nulla di quello che lui le aveva detto di fare.
Non si frequentavano apertamente fuori da scuola, non lo facevano.
L’ultima volta era stato mesi e mesi prima, quando Maria le aveva accidentalmente rovesciato addosso due bicchieri di frappè, ed era stato solamente per faccende riguardanti i club.
Yui era stata fortemente tentata dall’idea di non incontrarlo. 
Ma alla fine si era ritrovava fuori al cancello ad aspettarlo, e avrebbe mentito a sé stessa se avesse detto di averlo fatto solamente per mettere definitivamente fine a quella storia.
Si sentiva elettrizzata come se fosse ad un primo appuntamento, ed era sbagliato.
Yui guardò l’orologio da polso e aggrottò le sopracciglia, Daichi era in ritardo.
Non fece nemmeno in tempo a formulare quel pensiero e abbassare il braccio, che si sentì afferrare improvvisamente il polso e trascinare con impeto verso l’uscita, lungo la strada alberata che in primavera si riempiva di petali di ciliegio.
Daichi non le aveva dato nemmeno il tempo di prendere fiato, di capacitarsi.
«Sawamura!» L’aveva richiamato Yui, ma inutilmente «Sawamura-kun!» aveva riprovato con l’affanno, il tono di voce spezzato «Daichi!» aveva sbottato infine.
L’unico effetto che era riuscita ad ottenere, tuttavia, era stato che lui la guardasse.
Non aveva interrotto la camminata frenetica, né le aveva lasciato andare il polso.
Daichi aveva una strana espressione, arrabbiata, ribelle, allegra … Yui non sapeva dirlo.
E la spaventava non sapere o capire che cosa stesse pensando.
Nonostante fosse passato da un pezzo il tempo in cui poteva vantarsi di averne il diritto.
«Dove mi stai portando? Devi lasciarmi andare, lo sai che -»
«Usciamo» Fu la replica immediata del ragazzo, che si voltò nuovamente, ignorandola.
Yui rimase in silenzio, incredula, con la testa che le girava a lasciarsi trascinare.
Era sorpresa dalla varietà di significati che poteva avere quella parola.
Nella testa le passarono in mente tutti i motivi per cui avrebbe dovuto strattonare quel braccio e inveire con forza contro Daichi: Hayato, la gente che parlava, suo padre, Takahiro, il passato e la sua decisione di parlare con lui per farla finita una volta per tutte ...
Yui li mise tutti da parte, e pensò erroneamente che andasse bene.
Pensò che solamente per un pomeriggio, solamente per qualche ora potesse andare bene.
Non era molto, non stava chiedendo molto …
Qualche ora, una volta soltanto, non avrebbe fatto male a nessuno.
Si sarebbe resa conto di quanto si era sbagliata alla fine di quella serata. 
Fu per quel motivo che si lasciò trascinare ovunque Daichi volesse portarla.
Partirà per il Brasile, forse non lo rivedrai più. Forse vuole dirti addio, forse vuole dirtelo.
Quel pensiero era costante nella sua mente, un chiodo fisso che le suggeriva di potersi lasciare andare anche solo per un secondo, anche solo per un minuto, un’ora, un pomeriggio …
Prima che se ne rendesse conto stava intrecciando la sua mano a quella di Daichi, era calda.
Come quando erano bambini.
Come quando tornavano insieme dai rispettivi allenamenti, raccontandosi le loro giornate.
Lei saltellava, contenta, lui la imitava dopo qualche tempo, contagiato … erano felici. 
Lui la condusse al cinema, ma non ad un cinema comune.
Era uno di quei posti in cui si mandavano in produzione solamente re-watch di vecchi film. L’entrata era nascosta, un sottoscala tra due palazzi che sarebbe passato inosservato per chiunque, dato che nessun cartello ne annunciava la presenza.
Yui si domandò come facesse Daichi a conoscere quel posto.
Le pareti di mattoni a destra e sinistra erano tappezzate di volantini originali di film d’epoca.
Vicino l’entrata c’era il cartello a due piedi che annunciava il film riproposto del giorno.
Daichi andò ad acquistare i biglietti, scambiando parole amichevoli con l’anziano signore seduto dietro il botteghino, talmente vecchio da avere il volto totalmente ricoperto di rughe.
Yui osservò il titolo del film in produzione aggrottando le sopracciglia: Norwegian Wood.
Le bastò leggere la scritta: ”Tratto dal grande successo del maestro Murakami”, per comprendere il desiderio ardente di Daichi di trovarsi lì, in quel luogo.
Non conosceva quel capolavoro, non l’aveva mai letto.
«Possiamo entrare» la richiamò Daichi, sventolando i biglietti appena acquistati.
Lo sguardo di Yui indugiò ancora un po’ sul cartello arrugginito, poi guardò il ragazzo, che la aspettava tenendo sollevata la tenda rossa che faceva da separé all’entrata.
Daichi sembrava euforico, ma aveva ancora quell’espressione incomprensibile per lei.
Era come se stesse aspettando qualcosa, come se si aspettasse qualcosa da lei.
Una confessione, qualche verità.
Yui lo seguì l’istante successivo.
«Come conosci questo posto?» Gli domandò mentre entravano.
L’ambiente era minuscolo, esattamente come se l’era aspettato; in realtà, si rese conto Yui, si trovavano dentro una stanza quadrata singola, nel quale erano state sistemate quattro file di sedie scomode a destra e a sinistra. Un vecchio proiettore intralciava la strada e uno schermo macchiato di giallo occupava l’intera parete, nascondendo quello che sembrava un vecchio palco, su cui un tempo probabilmente veniva recitato del rakugo.
Vi era una sola porta d’emergenza, che portava sul retro della strada.
La stanza era vuota, ad eccezione di un signore di mezza età e un’altra coppia di liceali, due amiche probabilmente interessate ai lavori di Murakami.
«Mi ci ha portato mia sorella Reira anni fa» le spiegò Daichi a voce bassa, mentre la conduceva nella fila di mezzo del lato destro, quella da cui la visuale era decisamente migliore «Doveva essere per un re-watch di Via col vento, o del Dottor Zivago, ma non ricordo con precisione … avevo undici anni».
Yui ascoltò in silenzio, colpita da quel dettaglio del passato di Daichi che non conosceva.
Quante cose si era persa di lui in quegli anni in cui si erano frequentati per finta?
Quanto era cambiato? Quanti interessi diversi aveva sviluppato nel frattempo?
Che movenze nuove aveva assunto e quali gesti non faceva più da tempo?
Erano tutte cose che Yui non avrebbe mai saputo, e in quei tre anni lontano da lei Daichi sarebbe cambiato ancora, diventando un adulto che lei non conosceva affatto.
La morsa del Brasile le afferrò immediatamente lo stomaco, Yui strinse forte la stoffa della gonna nel pugno della mano destra mentre se ne stava seduta su quella rigida sedia di legno.
Avrebbe voluto parlare a Daichi del Brasile, ma non sapeva come affrontare l’argomento.
Voleva lasciarlo andare, ma contemporaneamente non voleva sentire che sarebbe partito …
Quei pensieri, quella morsa violenta, vennero bruscamente interrotti dal ronzare rumoroso del proiettore, che aveva cominciato a funzionare, proiettando il film sullo schermo macchiato.
Fu un inizio pacato, lento, ma interessante.
Lo stomaco le si rivoltò inaspettatamente, da qualche parte tra il suicidio di Kizuki e il momento in cui Tooru e Naoko si ritrovano a fare l’amore in quel modo disperato, innaturale.
Yui fu improvvisamente e dolorosamente conscia della presenza di Daichi al suo fianco.
Lo sentiva, sentiva che le sarebbe bastato allungare il mignolo della mano destra per sfiorargli la gamba, sentiva che nel modo che avevano Tooru e Naoko di amarsi avrebbe rivisto sé stessa.
Yui non provò mai più nella vita una tale vergogna per sé stessa.
Infilò entrambe le mani tra le cosce, chiudendole strette, combattendo convulsamente con la violenza fisica che la presenza di Daichi al suo fianco le provocava e la crudezza della scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi.
Una scena che le sembrava familiare … le sudavano i palmi delle mani.
Ogni schiocco, ogni gemito, ogni respiro o lamento le risuonavano alle orecchie come se il suo stesso corpo fosse diventato corde di violino pizzicate, uno strumento.
Non si era mai sentita in quel modo.
Toccami, toccami, toccami sembrava stesse gridando al ragazzo al suo fianco.
Yui si mosse irrequieta sulla sedia, non guardò Daichi, ma se l’avesse fatto l’avrebbe trovato a ricambiare quello sguardo, e forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciar perdere.
Il film andò avanti, lasciandola infiammata, confusa. Arrivò Midori nella vita confusionaria di Tooru, con i tumulti Universitari; e un altro incontro con Naoko e quel tentativo fallito …
Yui cominciò a provare malessere.
Tooru che la baciava dappertutto e lei che non riusciva a provare nulla, il corpo non collaborava … faceva male probabilmente, doveva fare male.
Doveva fare male anche il senso di colpa di Tooru nei confronti di Kizuki, quell’amico che si era tolto la vita troppo presto, i sentimenti verso Naoko, con cui aveva fatto l’amore senza rimpianti …
Le mancò il respiro ad un certo punto, si strinse la mano attorno alla camicia all’altezza del cuore, lo fece spasmodicamente, fu tentata di aggrapparsi al braccio di Daichi.
Non ce la faceva a continuare, voleva uscire da quella sala.
Ma poi la scena terminò, così come era cominciata.
E poi ci fu quella della neve, quella della neve con Midori.
Lei non è innamorata di te? ” Domandava lei, un cappello azzurro sulla testa, la neve dietro.
Era tutto bianco.
É difficile dirlo. É davvero complicato ” Le rispondeva lui, una sciarpa chiara attorno al collo.
Altre parole, sulla responsabilità, sul fatto di non poter abbandonare Naoko e poi …
Va bene. Aspetterò, perché mi fido di te ” Le parole di Midori.
Yui si rese conto che avrebbe voluto essere lei a pronunciarle.
Ma quando mi prenderai con te, dovrai prendere solo me. Quando mi abbraccerai, dovrai pensare solo a me, capisci? ”.
“ Molto bene ”.
“ E … puoi fare quello che vuoi di me, ma non ferirmi. Sono già stata ferita abbastanza nella vita, non voglio soffrire ancora. Voglio essere felice ”.
Il film andò avanti e finì, ma Yui rimase ferma a quella frase, a quella scena.
Nella minuscola sala da teatro si percepiva il ronzio del vecchio proiettore, i singhiozzi di una delle due amiche venute a vedere il film, si sentiva l’odore del sigaro che l’uomo di mezza età aveva acceso verso il finale e la musica che accompagnava lo scorrere dei titoli di coda sbiaditi dalla luce accesa.
Yui si riscosse quando Daichi le appoggiò una mano sulla spalla.
Si era alzato, stava stiracchiando le braccia, anche lui doveva avere le spalle rigide a causa della scomoda sedia di legno su cui erano stati seduti all’incirca due ore o forse anche più.
Sembrava rilassato, contento, mentre Yui avrebbe voluto alzarsi e colpirlo in faccia con le stesse mani che le dolevano per aver tenuto stretti i pugni con troppa forza.
L’aveva fatto apposta? Daichi l’aveva davvero fatto apposta?
«Andiamo a mangiare?» domandò lui quando furono all’aperto.
Era sera, nevicava e i fiocchi attecchivano.
Yui si strinse nelle spalle, tremava, ma non solo per il freddo.
«Voglio tornare a casa» disse risoluta, mentre lo superava per salire gli scalini.
Daichi la affiancò immediatamente, incurante delle sue parole ancora una volta.
«Ma io ho fame, perciò mangiamo» non la trascinò quella volta, si vide bene dal toccarla ma, come se lei non avesse nemmeno aperto bocca, entrò nel primo ristorante disponibile.
Yui avrebbe potuto andarsene ma, anche se era arrabbiata, non si sentiva pronta a dire addio in quel modo, in realtà, avrebbe voluto che il tempo si fermasse quella sera.
Avrebbe voluto catturare un’immagine per l’eternità, una qualsiasi.
Era un ristorante fatiscente, minuscolo, avrebbe potuto definirlo squallido.
Ma a Yui sembrò un posto intimo, meraviglioso, solamente perché Daichi occupava tutta la prospettiva del suo sguardo, del suo mondo.
Il ristorante era un corridoio lungo, ma largo al massimo due, tre metri.
Sulla sinistra vi erano i tavoli a due, ammassati in linea sulla parete, a destra invece il bancone, la porta che conduceva alla cucina e una scala che portava a degli appartamenti.
Le pareti bianche, tappezzate di mattonelle dello stesso colore, rendevano l’ambiente asettico, nessuno era seduto a quei tavoli, solamente Daichi, che l’aspettava.
Yui indugiò fuori dalla porta di vetro solo alcuni secondi, lui dava colore a tutto.
La divisa nera, la sciarpa rossa, il colletto bianco della camicia, i capelli scuri …
A distanza di anni, nella memoria non avrebbe avuto altro che quell’immagine, tra i mille ricordi che avrebbero potuto affollare la sua mente quello sarebbe stato il primo: Daichi seduto a quel tavolo, in un ristorante che ricordava la sala d’attesa di un ospedale con quelle luci al neon sul soffitto e le piastrelle bianche, con il menù aperto davanti al viso, ma che guardava lei, evidentemente arrabbiato, sebbene le sorridesse.
Yui gli si mise seduta davanti, arrabbiata a sua volta.
«Prendiamo il sushi?» le domandò Daichi, come se nemmeno la vedesse quella rabbia.
Un cameriere, che non era nient’altro che il cuoco stesso, si avvicinò per sistemare una bottiglia d’acqua al centro del tavolo, Daichi l’aveva richiesta prima che lei entrasse.
«Il sushi non mi va» lo sfidò lei, capricciosa.
Yui non poteva fare a meno di provare un pizzico di divertimento nel comportarsi in quel modo, era passato troppo tempo dall’ultima volta che avevano bisticciato, troppo tempo dall’ultima volta che avevano mostrato dei sentimenti anche solo lontanamente così sinceri.
Daichi ricambiò il suo sguardo per un istante, con quel sorriso sereno, prima di ordinare un’intera portata di sushi di vario genere, l’offerta del giorno.
Ma Daichi non era mai stato tanto capriccioso quando erano bambini, stava vincendo lui a quel gioco di rabbia repressa che avevano intrapreso forse volutamente.
«Ti è piaciuto il film?» Le domandò all’improvviso lui, cambiando argomento.
O forse no, forse voleva ancora provocarla, toccarla sui nervi scoperti, continuando quel gioco che, inaspettatamente, aveva scoperto di saper condurre piuttosto bene.
«L’ho trovato pesante» Fu il suo unico commento, abbassando lo sguardo mentre si impegnava a separare le bacchette, giusto per non doverlo guardare negli occhi.
Altrimenti Daichi si sarebbe reso conto che stava mentendo, l’avrebbe fatto no?
O anche lei aveva sviluppato pensieri e modi di fare che lui non riconosceva?
O anche lei di lì a tre anni sarebbe cambiata tanto da diventare per lui irriconoscibile?
Il solo pensarlo le dava la nausea.
«La recitazione era sublime» La rimbeccò Daichi, quasi immediatamente.
Arrivò il sushi, ne era una quantità industriale, avrebbero pagato per lasciarlo nel piatto.
Yui si servì per prima, in modo tale da riempirsi la bocca per non dover rispondere.
«Kiko Mizuhara ha reso Midori reale» Daichi non si lasciò scoraggiare dal suo ingozzarsi improvviso per non dover parlare con lui «Midori è sincera con i suoi sentimenti, non credi anche tu? Tutti dovremmo avere il suo coraggio» Le stava dicendo che avrebbe potuto parlare anche da solo per tutto il tempo, d’altronde, aveva ordinato quel sushi ma non lo stava mangiando, non ne aveva toccato nemmeno un pezzo. Le bacchette erano ancora attaccate.
Yui sentì un cattivo sapore in bocca, mandò giù il boccone con un sorso d’acqua, appoggiò le bacchette nel piatto.
«Rinko Kikuchi ha reso Naoko reale!» Ribatté «Naoko non ha sbagliato. E scegliere non era un’opzione per lei, non credi anche tu?» Lo scimmiottò, ma non con ilarità.
Io e te non abbiamo avuto il tempo di scegliere, Daichi. Di sceglierci.
Daichi lasciò andare la morsa, l’aveva portata a vedere quel film perché voleva scuoterla, voleva che lei capisse che cosa non era in grado di dirle a parole, ci era riuscito.
Yui si pentì di aver replicato in quel modo, riportando a galla schegge di vetro sepolte.
«Qual è il senso?» Domandò allora con voce leggermente più gentile.
Daichi prese il primo roll di sushi tra le bacchette, non lo infilò in bocca, gli diede un piccolo morso e lo appoggiò sul piatto, giocando con la foglia d’alga nera, la trovava amara.
Yui gli stava chiedendo il senso del film, il senso del libro, o il senso di qualcos’altro?
«Che la morte non è l’antitesi della vita, ma solamente una sua parte intrinseca».
Fu una replica monotona, come se fosse stata ripetuta numerose volte «O almeno, questo è quello che ho capito io» Concluse alla fine Daichi, sospirando.
Fuori dal vetro la neve continuava a cadere, i fiocchi scomparivano a contatto con la luce dei lampioni, il cielo era nero come la pece e non vi si scorgeva una sola stella quella sera.
Era una notte che entrambi avrebbero ricordato per sempre.
Con il tempo, Yui avrebbe dimenticato i dettagli, avrebbe dimenticato che Daichi indossava una sciarpa rossa, avrebbe dimenticato il colore cianotico delle sue mani infreddolite, la linea delle vene violacee sul dorso, l’odore di cucinato, il roll di sushi mangiucchiato a metà e la posizione degli oggetti sul tavolo, ma le parole che si erano detti non le avrebbe dimenticate.
Anche quel ricordo non sarebbe stato l’antitesi del loro rapporto, ma solo una parte intrinseca di esso.
«La finiamo qui, Daichi?».
Non aveva usato il suo nome a caso, e non aveva pronunciato quelle parole nel momento sbagliato. Yui voleva ricordarlo in quel modo, voleva finirla lì, nel migliore dei modi.
Non le importava nemmeno più sapere se sarebbe partito o meno …
No, tutto sommato era meglio che partisse, doveva farlo per il suo futuro.
Non aveva messo in conto che Daichi potesse pensarla diversamente.
«Tre minuti, Yui. Ti do tre minuti. Se in tre minuti non mi dici che mi am-».
Si alzò di scatto, di botto, senza dargli il tempo di pronunciare la vocale di quell’unica parola che avrebbe rovinato tutto. Yui era furente, lo guardava ferita, con gli occhi infiammati.
Strinse forte i pugni lungo i fianchi, si morse il labbro inferiore, fremette, poi si calmò.
Afferrò di fretta la cartella, arrotolò la sciarpa e uscì dal locale, nell’aria gelida.
Daichi lasciò un mucchio di banconote sul tavolo e le fu immediatamente dietro.
Yui non aveva davvero sperato che lasciasse perdere, ma non ce la faceva.
Ad oltrepassare quella linea non ci sarebbe stato ritorno, e Hayato le era improvvisamente tornato in mente, investendola con una secchiata di sensi di colpa ghiacciati e soffocanti.
«Yui, non devi scappare!» le gridò immediatamente dietro Daichi, aveva l’affanno.
Lei continuò a camminare imperterrita, diretta verso casa nell’aria gelida di fine Novembre.
Avresti dovuto lasciarmi dire addio senza aggiungere altro, Daichi!
Avrebbe voluto gridargli contro, prendendolo a pugni sul petto.
«Non dobbiamo scappare! Siamo degli adulti ormai, non – Oh, mi scusi!».
Daichi aveva l’affanno ma continuava a parlare, sbatteva contro i pedoni e si scusava, ogni tanto si interrompeva per scansare qualcuno, facendo contemporaneamente attenzione a stare dietro di lei per non perderla di vista.
E Yui continuava a sperare che non lo facesse.
Continuava a sperare che sarebbero rimasti divisi da un semaforo rosso, due metri di strisce bianche tra loro. Continuava a sperare di potersi finalmente fermare, di poterlo guardare un’ultima volta, sotto la neve che scendeva, la luce rossa e quella gialla dei fari delle macchine, tra il traffico e il gelo e dirgli addio senza aggiungere parole o verità taciute.
Non fu accontentata, il semaforo rimase verde e Daichi continuò a seguirla.
La città venne presto sostituita dalla familiarità del quartiere in cui vivevano entrambi.
Fu solamente quando Yui raggiunse casa sua, e fu costretta a fermarsi per infilare le chiavi nel cancello pedonale, che Daichi si fermò a sua volta, ma solamente per afferrarle il polso ed impedirle di compiere quel gesto. Yui guardò impotente le chiavi che tintinnavano per terra.
Il petto di entrambi si alzava ed abbassava frenetico, faceva male per l’aria fredda che avevano ingerito nella corsa.
«Daichi ti prego … non possiamo» Rassegnazione «Non posso».
Due parole che Yui mormorò, era stanca e non aveva nemmeno provato a liberarsi il polso dalla sua stretta, si guardavano per la prima volta davvero negli occhi ed erano vicini come forse non lo erano mai stati davvero. Daichi le strattonò il polso, avvicinandola a sé.
Yui trattenne automaticamente il respiro, i muscoli del braccio tesi nello sforzo.
«Non puoi perché te la fai con Hayato alle mie spalle?!».
Daichi esplose, lasciando andare finalmente quella strana rabbia silenziosa che aveva fatto da compagna alla loro uscita, e Yui comprese finalmente, la confessione che lui aveva aspettato tutta la sera e che non era mai arrivata.
Strattonò violentemente il braccio, provava vergogna ora che era consapevole che lui sapesse.
Daichi non mollò la presa e le fece male, in ben più di un senso.
«E tu che cosa vuoi da me, quando devi andartene in Brasile per tre anni?!» sbottò furiosa, aveva smesso di cercare di liberarsi, si era avvicinata ancora di più a lui.
Avevano l’affanno, i petti che quasi si toccavano con quei cuori galoppanti di rabbia e adrenalina, tanto valeva vomitarsi tutto addosso ad un passo dalla fine o dalla salvezza.
Daichi non mostrò alcun segno di turbamento a quella confessione sputata in faccia.
«Si, esatto, io me ne parto per il Brasile! Non abbiamo più tempo per fingere».
Non sembrava voler cedere di un solo passo.
Daichi si stava giocando tutto con lei quella sera, era l’ultima mano per lui.
O vinceva o perdeva, ma finiva lì, qualsiasi cosa fosse.
A Yui toccava solamente il compito di imbrogliare le carte.
«Basta menzogne, basta imposizioni, basta bugie, non mi è rimasto il tempo per questo!»
Daichi la scosse ancora, e no, Yui non lo riconosceva.
Non conosceva quella determinazione, ma solo un bambino piagnucolone.
Avrebbe venduto il cuore per conoscere invece l’uomo.
«Daichi, smettila! Non ho -».
«Quindi va bene fare la puttana con tutti finché non sono io?».
Yui aveva i capelli corti scombinati sulla fronte dalla violenza con cui Daichi l’aveva scossa, sollevò il mento e puntò lo sguardo fisso in quello di lui.
«Si, io sono così Daichi» Gli disse e non scostò lo sguardo «E non capisco come tu possa pensare che io sia davvero ancora la bambina di un tempo».
Aveva gli occhi lucidi, ma non una lacrima era caduta, le belle labbra a forma di cuore si incrinarono in un sorriso spezzato e ironico, che sapeva di amarezza come la risata che seguì.
«Quella bambina è morta con quel bambino ... quel giorno infame ...».
Smise di lottare e lasciò che Daichi, quel bambino che ora era cresciuto, la sorreggesse per le spalle. Lui appoggiò la fronte alla sua, chiuse gli occhi e scosse la testa, pelle contro pelle.
«Quel bambino era uno sciocco».
Rimasero in silenzio per secondi, minuti o ore, non importava.
«Voglio restare con Hayato, Daichi. Lasciami andare».
Daichi fremette e le mani che le avevano tenute ferme le spalle salirono sulla sua gola, per fermarsi sulla mascella, con una tale veemenza da dare l’impressione che volesse plasmarla come creta, come Yui aveva fatto innumerevoli volte con l’immagine di lui.
«Se mi dici che mi ami non me ne vado» le sussurrò, le labbra si sfiorarono «Se ammetti di essere stanca delle bugie, allora non me ne vado».
Sei sleale, Daichi.
Prima che se ne rendessero conto furono avvolti in un bacio senza respiro.
Le labbra si divoravano, i denti mordevano, le lingue lottavano furiosamente.
Daichi la spinse verso un muretto e la aiutò a sedervisi sopra, Yui gli avvolse le braccia attorno alle spalle, fu scossa da un brivido lungo tutta la spina dorsale e le accadde una cosa che non aveva mai provato prima in vita sua, qualcosa che avrebbe dovuto provare come tutte le altre donne, ma che per lei non funzionava.
Una scossa all’altezza del pube, una sensazione di bagnato.
Si rese conto che si sarebbe lasciata prendere su quel muretto senza pudore.
Fu un pensiero talmente sconvolgente che servì a farle riprendere i sensi. Allontanò Daichi con una spinta e lo colpì sulla guancia a pugno chiuso, facendogli parecchio male.
Scese dal muretto e si aggiustò la gonna con mani tremanti, terrorizzata.
«Non ti amo!» Sibilò stringendosi le mani al petto «Anzi, non sopporto la vista della tua faccia perché mi ricorda quel maledetto giorno!» Il veleno le scorreva nelle vene insieme al dolore e alla menzogna.
«Hayato è la salvezza per me!». Ma mentire era facile in quello stato febbrile.
«Non rovinare anche questo, ti prego!».
Yui ripensò alla loro conversazione nel ristorante. Lei non era affatto Midori.
Non aveva un briciolo di coraggio, non era in grado di aspettare.
Non era nemmeno in grado di affrontare quello che sarebbe venuto come Daichi.
Non aveva quella fiducia in sé stessa e quella forza.
«Mi dispiace, io … volevo solo essere gentile con te!».
Stava mentendo, ma non sapeva che cosa dire, che cosa inventare dopo quel bacio.
Avresti davvero dovuto lasciare che ti dicessi addio a quel semaforo, stupido!
Avresti dovuto lasciarmi con un sorriso, allora non mi avresti odiata …
Non voglio che mi odi … non voglio che ti dimentichi di me.
«Vai in Brasile e sparisci dalla mia vita! Non voglio rivederti, mai più!».
L’ultima frase la gridò, ma Daichi non si era mosso da dove si era beccato lo schiaffo.
Aveva il viso ancora voltato verso sinistra, l’ematoma rosso che si allargava sulla guancia squadrata, il petto che si abbassava e alzava frenetico, ma aveva compreso ogni singola parola, ogni singola bugia, e sebbene sapesse di avere a che fare solo con menzogne, lo accettò.
Ma morire sarebbe stato di certo meno doloroso.
Inaspettatamente, fuori contesto e totalmente inaspettato, una macchina si fermò davanti la casa, sul marciapiede accanto al luogo dove si trovavano, ancora immobili.
Era una Mercedes Benz Classe C, uno degli ultimi modelli, lucida e curata.
Daichi e Yui la guardarono, lui aveva le mani davanti agli occhi per la luce accecante dei fari, che venne spenta nel momento in cui la macchina smise di rombare, ormai immobile.
Ne scese un uomo distinto, in suite ed elegante, che si abbottonava la giacca con una mano sola. Daichi non lo incontrava da anni, ed era ironico dovesse farlo nel momento peggiore, quello in cui il suo cuore era totalmente in frantumi su quello stesso asfalto.
«Papà?» mormorò Yui, sperava di non avere un’espressione sconvolta sul viso.
Sperava di aver visto male, sperando invano.
Kijuro aveva un sopracciglio sollevato, evidentemente sorpreso di vederli insieme.
Lui, molto più di Takahiro, aveva sostenuto la campagna del loro allontanamento.
Non sembrava particolarmente arrabbiato, ma a Daichi non piacque il modo in cui si infilò le mani nelle tasche del pantalone elegante e accennò un sorriso storto, beffardo.
«Ma guarda chi abbiamo qui!» esordì avvicinandosi, aveva un intenso profumo di colonia su tutti i vestiti, i capelli tirati indietro erano diventati ribelli dopo un’intera giornata di lavoro. «Sei cresciuto parecchio moccioso!» commentò con voce squillante, tolse una mano dalla tasca e diede dei buffetti sulla guancia di Daichi.
La stessa dove l’impronta delle cinque dita di Yui si stava allargando.
Se se ne accorse, Kijuro non ne diede il minimo sentore.
«É un piacere rivederla, signore» mormorò invece Daichi, facendo un inchino rigido.
Kijuro rise, gli diede qualche altro buffetto, mettendoci decisamente più forza.
«L’ultima volta eri un mocciosetto incapace di fare l’uomo! Vedo che le cose non sono cambiate un granché» la risata dell’uomo si fece un pelino aspra, acida.
Daichi aveva pensato che non potesse far male peggio di così, ma si era sbagliato.
Sapeva esattamente a cosa Kijuro stesse facendo riferimento.
«Papà …» mormorò Yui, sull’orlo delle lacrime.
Kijuro lasciò andare il viso di Daichi solamente dopo avergli dato un altro pizzicotto e avvolse le spalle della figlia con un braccio, come se volesse proteggerla da lui.
«Entriamo dentro, Yui-chan. Saluta Sawamura-kun, coraggio».
No papà, l’ho ferito.
L’ho ferito troppo, fammi raccogliere qualche pezzo … fammi raccogliere qualche pezzo del suo cuore, solo qualche pezzo ...
Yui avrebbe voluto gridare, ma rimase muta, quelle parole strozzate in gola.
Il cancelletto di casa si aprì proprio in quel momento, rivelando la figura avvolta in una vestaglia di seta di Ayaka, scesa perché insospettita dal baccano di voci che aveva sentito.
Alla donna, evidentemente sorpresa, bastò un secondo per mettere a fuoco la scena.
«Daichi-san!» esclamò entusiasta, completamente l’opposto del marito.
Si fece largo tra Yui e Kijuro e raggiunse l’oggetto del suo interesse, prendendolo per un braccio; gli accarezzò la guancia che il marito aveva schiaffeggiato.
«Ciao Ayaka-san» mormorò lui con voce flebile.
«Hai accompagnato la mia Yui a casa?» gli domandò piena di speranza, per poi rivolgere un’occhiata speranzosa alla volta della figlia, ignorando l’alzata al cielo di occhi del marito.
«Dovevamo solo parlare di faccende per scuola, mamma» intervenne prontamente Yui, era ancora bloccata e protetta dal braccio del padre.
Qualsiasi altra cosa avrebbe voluto dire a Daichi ne aveva ormai perso l’opportunità, che si fosse pentita delle parole pronunciate, sarebbe stato troppo tardi ormai.
Quelle sarebbero state le ultime parole che avrebbe detto a Daichi prima che partisse.
Le sembrava di star già perdendo la testa al pensiero.
«Ti fermi a cena, vero? É da così tanto tempo che non -».
«Ayaka-san» la interruppe Daichi evidentemente a disagio, aveva fatto un passetto all’indietro per allontanarsi dalla donna «Ti ringrazio, ma non è il caso». Non provò nemmeno dispiacere alla delusione che vide dipingersi sul viso di Ayaka.
«A casa mi aspettano, e poi sono pieno, ho mangiato troppo a pranzo oggi».
E accompagnò quella bugia ridacchiando, mentre si portava una mano sullo stomaco vuoto.
Yui lo fissò con insistenza, disperata, lui non ricambiò lo sguardo.
«Capisco» mormorò Ayaka, delusa «La prossima volta ti aspetto però».
Non ci saranno prossime volte, mamma.
Daichi sorrise e annuì, sistemò la cartella sulla spalla e sollevò il viso.
Sembrava fiero, come se non fosse stato affatto ferito.
«Beh, sayonara».
E se Kijuro non l’avesse tenuta per le spalle, Yui era certa che l’avrebbe inseguito.
Sayonara, Yui.
Era a lei che aveva detto addio.
 
 
Daichi camminò verso casa con la mente sgombra dai pensieri.
Non provava nulla, era talmente vuoto che non riusciva nemmeno a pensare.
Si era fatto tardi, qualcuno lo aveva chiamato al cellulare, ma aveva dimenticato di rispondere.
Passò davanti un piano bar, niente riusciva ad attirare il suo interesse, ma qualcosa lì lo fece.
Non era una voce morbida, ma graffiante, roca, sebbene fosse una donna a cantare.
Una donna sola su quel palco stipato che lui vedeva da fuori, solo pochi tavoli occupati.
Un lungo vestito rosso, lunghi capelli tinti di biondo e un tatuaggio sul braccio … un fiore?
Memories mar my mind, love is a fate resigned.
Cantava con gli occhi chiusi, seduta solamente a metà su uno sgabello.
Daichi si fermò automaticamente, le macchine sulla strada sfrecciavano, la luce dei lampioni e quella dei semafori fendevano l’aria gelida della notte, il suo respiro formava condensa.
Over futile odds and laughed at by the gods.  
Dal locale si sentiva puzza di fumo e alcool, corpi caldi ammassati.
L’insegna “Broken Rose” era illuminata ad intermittenza sulla lettera “s”.
Daichi alzò il viso al cielo e respirò l’aria gelida di fine Novembre, era stata una dura sconfitta.
Rise, si morse il labbro inferiore, spuntarono le prime lacrime agli angoli degli occhi.
Pensò a come e che cosa avrebbe detto a Reira, che aveva tifato per lui.
Trasse un profondo respiro, l’orologio scattò sulle ventidue.
And now the final frame.
Cantava la voce straziante.
Daichi riprese a camminare, sul viso un sorriso spezzato.
Love is a losing game.
 
 
 
 
Le nausee si erano fatte insopportabili nel corso della settimana.
Maria non aveva mai avuto tanta fame, ma tutto quello che ingeriva finiva nel gabinetto l’istante successivo. Cominciava a domandarsi se il fagiolo nel suo ventre lo facesse apposta.
Se volesse farla morire di fame per dispetto.
Se non mi nutro io non ti nutri nemmeno tu, idiota.
Si era ritrovata a gridargli contro un pomeriggio al colmo dell’esasperazione.
Non era servito a granché, la situazione non era cambiata di una virgola. 
Ma era stata un’ottima scusa per non andare a scuola tutti quei giorni.
In casa aveva finto di avere delle mestruazioni molto violente; a scuola non aveva dato spiegazioni, come non ne aveva date al club o ad Asahi.
In realtà, quella volta non riusciva davvero a trovare un briciolo di coraggio per affrontarlo.
Maria sapeva che farlo avrebbe significato la fine di tutto e non voleva.
Erano arrivati messaggi tutta la settimana che Asahi aveva trascorso in Hokkaido a cui Maria non aveva dato risposta. Erano arrivate telefonate che aveva ignorato bellamente.
Solamente quella mattina, considerato che Asahi non si era arreso nemmeno quando Maria aveva mandato Shimizu affinché gli dicesse una bugia innocente, aveva risposto con un laconico e freddo: “Sto bene. Smettila di assillare Kiyoko-san”.
Era una bugia e non avrebbe rassicurato nessuno, ma Asahi aveva smesso di chiamarla.
Maria pensò che sarebbe stato bello se si fosse arreso in quel modo, senza che lei dovesse dargli spiegazioni; aveva desiderato infantilmente di poter possedere uno di quegli aggeggi magici che usavano i protagonisti degli anime, uno strumento da usare su Asahi affinché si dimenticasse di lei, senza soffrire, senza stare male.
Oppure aveva desiderato che Asahi fosse come una bambola di carta delle leggende giapponesi, che una volta tornata al suo stato originale e rinata a nuova vita non avrebbe portato con sé i ricordi della sua vita precedente, un nuovo cuore con nuovi sentimenti e nessun ricordo del passato.
Era sciocco desiderare quelle cose, ma era sempre meglio della sua realtà.
Sospirò pesantemente e con pesantezza osservò lo schermo illuminato del computer portatile, si era distratta per l’ennesima volta e ora doveva tornare indietro con il cursore.
Non era mai successo che si distraesse guardando una rappresentazione della Traviata.
Ma forse si rese conto troppo tardi di avere scelto semplicemente l’opera sbagliata.
Alfredo e Violetta, un amore sincero compromesso dall’intrusione del padre di lui.
Violetta non poteva amare Alfredo a causa del suo passato vissuto, costretta a rinunciare a lui e morire di dolore nel processo. Era estremo, ma Maria aveva pensato di fare la stessa fine.
Ovviamente non sarebbe morta, ma qualcosa dentro di lei sarebbe cambiato per sempre.
Le venne da sorridere quando si rese conto a che punto della trama si fosse fermata, tornare indietro con il cursore forse non era stata una buona idea, premere play ancora meno.
Violetta discuteva alacremente con Germont, il padre di Alfredo, pregandolo affinché non le imponesse di lasciare il figlio, ma inutilmente.
Maria si ritrovò inevitabilmente a pensare a Kaori e alle parole che aveva pronunciato.
... sarebbe fantastico se Asahi riuscisse a vincere una borsa di studio …
Asahi rinuncerebbe ai suoi sogni in un momento se glielo chiedessi ... ma in quel caso come madre io avrei fallito su tutta la linea …
Kaori non era Germont, ma Maria era sicura avrebbe provato gli stessi sentimenti se avesse saputo. Non avrebbe voluto che suo figlio rinunciasse al suo futuro per mettersi a lavorare, per affaticarsi a portare lo stipendio a casa per crescere un figlio non desiderato, ma capitato.
Maria stessa non lo avrebbe sopportato e loro avrebbero finito con l’odiarsi.
Non voleva, non voleva affatto quel tipo di vita.
Non sapete che colpita d’altro morbo è la mia vita?
Che già presso il fin ne vedo?
Ch’io mi separi da Alfredo?
Ah, il supplizio è sì spietato, che morir preferirò!

Era concentrata nell’ascoltare quelle parole, lasciare che le facessero male al cuore, e ci mise quindi qualche tempo a registrare quell’altro rumore, totalmente inaspettato.
Non era forte, ma un ticchettio leggero, nemmeno ritmato.
Maria si sfilò l’unica cuffia che indossava e guardò la finestra con le sopracciglia aggrottate, in allerta, si era tirata leggermente su, come se fosse pronta a scattare.
Non accadde nulla nei secondi successivi e per alcuni istanti pensò di essersi sbagliata.
Tuk tuk.
Scattò immediatamente a sedere, no, non si era sbagliata affatto, qualcuno stava tirando dei sassolini sul vetro della sua finestra, non erano grossi e quindi facevano poco rumore.
Interruppe la visione della Traviata sulle parole disperate di Violetta e si avvicinò cautamente alla finestra appannata dalla condensa, le braccia strette al petto sotto il seno, il cuore folle.
Come aveva temuto, Asahi se ne stava sotto la sua finestra, infreddolito.
Indossava un giubbotto imbottito pesante, i guanti e una sciarpa, ma aveva ugualmente il naso arrossato mentre lo teneva puntato all’insù verso la sua finestra.
Maria non lo vedeva da due settimane e il suo cuore aveva cominciato immediatamente a fare le bizze nel petto, incredibilmente emozionato.
Calma i bollenti spiriti, non hai nulla da rallegrarti.
Asahi aveva ancora dei sassolini stretti nel pugno della mano sinistra, si accorse immediatamente di lei, forse a causa dello sgargiante pullover giallo canarino che stava indossando. Le fece immediatamente segno di scendere, era evidente che voleva parlare.
Maria si strinse maggiormente nelle spalle, avrebbe voluto nascondersi dietro la tenda e ignorarlo totalmente, far finta che non ci fosse nessuno sotto la finestra di casa sua.
Ovviamente, se avesse fatto una cosa simile, Asahi sarebbe rimasto lì tutta la notte ad aspettarla se necessario. Era una battaglia che doveva perdere a priori.
E poi … non poteva scappare da quella situazione ancora a lungo.
Lei non possedeva alcun tipo di oggetto magico e Asahi non era una bambola di carta.
Era ovvio che pretendesse una spiegazione e lei doveva dargliela, anche mentendo.
Gli avrebbe fatto male, si sarebbe fatta male, ma poi sarebbe passata …
Dicevano tutti che con il tempo anche i dolori maggiori venivano addomesticati.
Fece segno ad Asahi si aspettarla, lui lasciò immediatamente cadere i sassolini a terra e infilò le mani nelle tasche del giubbotto pesante, quel pomeriggio aveva nevicato nuovamente.
Maria scese le scale lentamente, senza fare rumore.
Erano solamente le nove, ma avevano cenato ore prima e si erano tutti ritirati per la notte.
Passò silenziosamente accanto alla cucina, da cui proveniva il ronzio rumoroso della televisione accesa a volume basso, quella dello schermo era l’unica fonte di luce della stanza; nonno Akio se ne stava seduto sulla poltrona che ormai era diventata le sue gambe e dormiva profondamente, russando, la coperta di lana che aveva addosso gli era caduta dalle spalle.
Al suo fianco, nonna Mariko si apprestò immediatamente ad aggiustargliela, distraendosi dalla visione del film che stavano trasmettendo.
Maria sorrise a quella scena di tenerezza, di amore duraturo e fedele.
Infilò il pesante giubbotto, la sciarpa e le scarpe senza fare rumore, come fece attenzione anche quando si richiuse la porta alle spalle. Fu immediatamente investita da un brivido.
La neve era attecchita ancora di più sul terreno aumentando di volume, il vialetto del giardino non era stato ancora spalato da Fujio e Maria fece una certa fatica per non scivolare o affondare in cumuli di neve nascosta dietro ogni angolo.
Lo faceva inconsciamente, con una mano premuta sul ventre protetto e al caldo.
Asahi la aspettava dove l’aveva lasciato, appoggiato con la schiena al bordo di un muretto, le braccia incrociate al petto e le sopracciglia aggrottate in quell’espressione che lo faceva tanto sembrare spaventoso e un poco di buono.
Maria l’aveva conosciuto con quell’espressione e le sembrava ironico che dovesse dirgli addio esattamente nello stesso modo.
Quei mesi erano sembrati il sogno di una vita.
Come ci erano arrivati fino a quel punto?
Come erano arrivati a volersi tanto bene?
Come aveva fatto ad accorgersi di amarlo solamente a quel punto?
Perché non gliel’aveva detto prima? Perché aveva pensato di provare qualcosa per Daichi?
Quel tempo che aveva perso non lo avrebbe riavuto indietro mai più, ed era troppo tardi.
Asahi si staccò immediatamente dal muro non appena la vide avvicinarsi, apprensivo.
Maria, che stava lottando con il desiderio di correre tra le sue braccia, infilò le mani nelle tasche del giubbotto e scostò lo sguardo, fissando un punto qualsiasi con indifferenza.
Era buio, un lampione era rotto, mentre il gemello aveva una luce fioca, intermittente, nel cielo si vedevano solamente poche stelle, ma la neve bianca feriva gli occhi anche nella notte.
«Maria?!» la sovrastò immediatamente lui, afferrandola per le braccia.
Aveva una stretta forte, nulla che lei non si fosse aspettata; aveva le mani calde e lo sentiva anche attraverso tutta la stoffa di vestiti che aveva addosso, erano rassicuranti.
Come se avesse riconosciuto la voce di quello sconosciuto o il suo tocco protettivo, il fagiolo nella sua pancia si agitò e Maria fu colta da una violenta scossa di dolore, una fitta.
Scansò malamente le mani di Asahi dalle sue braccia e fece un passetto indietro, stringendosi ulteriormente le braccia al petto, il dolore cessò immediatamente, ma era stato forte.
Continuava a non guardarlo negli occhi, ma era sicura che se l’avesse fatto avrebbe trovato dipinto su quel viso stupore, delusione e preoccupazione, ma non rabbia, non ancora.
«Maria … ma che cosa è successo?» mormorò lui incredulo, incerto «Sono due settimane che non ti fai sentire … ero preoccupatissimo! Stavo per perdere la testa in Hokkaido. Ho pensato che ti fosse successo qualcosa, se non avessi scritto a Shimizu-san … come puoi uscirtene stamattina con un messaggio come quello e -».
«Ho capito di non poterlo fare Asahi, ecco cosa è successo!».
Maria alzò la voce immediatamente per farlo smettere di parlare, urlò quasi.
Buttò fuori le prime parole che le vennero in mente, ma che aveva preparato numerose volte ripetendole davanti uno specchio, mentre tentava di esercitarsi su come lasciarlo …
Non voleva sentire Asahi con quel tono di voce preoccupato, non voleva sentirlo apprensivo quando sapeva benissimo che la causa dei suoi tormenti era stato il suo silenzio e disinteresse.
Era avvenuto tutto velocemente, mentre lui era lontano e non poteva capirlo.
Era ovvio che Asahi non potesse accettarlo.
«Cosa – cosa intendi? Cos’è che non puoi fare?».
C’era urgenza nella voce di Asahi, un pizzico di impazienza.
Maria fece spallucce e trovò finalmente il coraggio di fissarlo negli occhi senza mostrare nulla, il minimo turbamento, doveva essere risoluta e suonare davvero convincente.
Non era un lavoro difficile per lei, prima di entrare in squadra aveva imparato a mentire bene.
«Sono arrivata ad un punto di non ritorno Asahi» disse, sguardo fisso in quegli occhi gentili che amava con tutta sé stessa «Mi sono resa conto che non mi sei mancato affatto questa settimana che siamo stati lontani» Maria poteva sentire il suo stesso cuore accartocciarsi come se fosse fatto di metallo, le stava venendo la nausea, ma non mollò.
«Ho provato dell’affetto per te, non amore» Asahi continuava a fissarla come se stesse parlando in un’altra lingua, come se non capisse «Per quell’affetto ho capito che non possiamo costringerci a stare insieme. Parti per il Brasile. Non sono l’amore della tua vita» concluse, e come se quella spiegazione fosse stata sufficiente diede le spalle ad Asahi.
Come se avesse potuto semplicemente andarsene in quel modo, mosse un primo passo.
«Stai mentendo, vero? Stai scherzando, no?» sbottò lui incredulo, la voce incrinata, l’aveva afferrata per un polso senza complimenti.
Maria tentò di liberarsi da quella stretta, ma inutilmente, Asahi la girò verso di sé malamente.
Asahi ti prego, no, non rendermi le cose complicate. Tuo figlio mi farà impazzire se fai così.
Maria sentiva le fitte al ventre farsi insistenti, fastidiose, si domandò se non l’avrebbe perso lì, su due piedi, mentre tentava in tutti i modi di ferire a morte suo padre.
Sarebbe stata la giusta punizione.
«É successo qualcosa che non vuoi dirmi, vero? Mentre non c’ero deve essere successo qualcosa che non vuoi dirmi. Non puoi aver cambiato idea in pochi giorni. Eri d’accordo perfino che andassi in Brasile, forse te ne sei pentita? Se è così possiamo parlarne, ma –».
Asahi si interruppe da solo, senza che Maria avesse il bisogno di ferirlo con altre parole.
Fissò lo sguardo nel vuoto per un istante, stava pensando, stava riflettendo su qualcosa.
Era un incubo ricorrente che l’aveva tormentato durante tutti i mesi della loro storia.
Era convinto che Maria non gli stesse dicendo la verità, che nascondesse qualcosa.
Lei non gli aveva mai detto quel ti amo tanto desiderato, ma Asahi quell’amore l’aveva sentito, l’aveva percepito, ed era certo che i sentimenti delle persone non potessero cambiare facilmente… Serviva tempo, cura e pazienza per una cosa del genere.
A meno che … a meno che quei sentimenti non fossero stati presenti dall’inizio.
É successo qualcosa con Daichi e non vuole dirmelo … possibile che …
Asahi venne immediatamente colto dal panico e senza rendersene conto la strinse forte.
«Maria, se è successo qualcosa di cui ti vergogni e non riesci a parlarmene, sappi che io capirò. Se qualcuno ti ha fatto qualcosa … mi conosci, io -».
Non riusciva a fare il nome di Daichi, era evidente, si domandava se Maria avesse compreso.
Lei invece si limitò a zittirlo immediatamente con uno strattone violento, stufa.
«Mi stai facendo male!» sbottò per prima cosa «Nessuno mi ha fatto niente!» dichiarò risoluta, massaggiandosi il polso.
Doveva chiudere quella conversazione o non sarebbe stata in grado di trattenere le lacrime.
Che cosa poteva fare? Che cosa poteva dire per convincerlo a lasciarla andare?
Per farlo partire senza rimpianti e senza guardarsi indietro, senza pensare a lei.
«Avevamo detto che era una prova fin dall’inizio!» strillò, risultando esasperata da tutta quella situazione e dalla stessa insistenza di Asahi «Beh, non ha funzionato!». Era sempre stata brava a perdere il controllo delle parole quando si trattava di ferire.
«Non voglio aspettarti per tre anni. Voglio fare nuove esperienze».
Voglio intraprendere una storia con qualcun’altro, ad Asahi quelle parole suonarono in quel modo e furono come una sorta di conferma velata, una condanna a morte.
Maria aveva l’affanno quando smise di agitarsi e sprizzare veleno.
Era pronta ad affrontare un altro attacco da parte di Asahi, ma a quel punto lui fece qualcosa di inaspettato, qualcosa che le spezzò definitivamente il cuore, lasciandola senza respiro.
Non urlò più, non si agitò oltre, smise perfino di cercare un motivo per il suo cambiamento.
«Avrei dovuto immaginarlo» mormorò invece, arrendendosi.
Maria sgranò gli occhi, nel ventre una fitta violenta da piegarla quasi in due.
«Avrei dovuto saperlo fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così».
Si guardarono negli occhi e quella volta toccò ad Asahi non avere alcuna pietà «Avrei dovuto saperlo che mi avresti spezzato il cuore».
Ma Maria non aveva nulla da aggiungere a quella verità.
Nessuna consolazione, non aveva nemmeno il diritto di arrabbiarsi con lui.
Rimase ferma a fissarlo con quell’espressione altezzosa e priva di sentimenti, emozioni.
Asahi mantenne il suo sguardo per altri secondi, sembrava aver trovato già una pace interiore, una realizzazione; Maria faticava a sopportare la delusione che leggeva in quegli occhi.
Ma non meritava l’amore di Asahi, che se ne stava lì davanti a lei ignaro del fatto che aspettasse suo figlio, un figlio che aveva intenzione di uccidere il prima possibile.
Un figlio che stava gridando la sua protesta con tutte le sue forze.
Asahi non meritava una donna simile al suo fianco e poi, Maria non sarebbe stata in grado di sopportare il peso di quella decisione restando accanto a lui, ignaro di tutto.
«Va bene» mormorò infine, infilando le mani nelle tasche del giubbotto.
Le diede immediatamente le spalle, brusco e Maria dovette ferirsi i palmi delle mani per non afferrargli quel cappotto e affondare la faccia nella sua schiena, confessandogli la verità.
A farle forza, era stato il pensiero che con il tempo avrebbe avuto la certezza di aver fatto la cosa giusta a lasciarlo andare, a lasciarlo libero di intraprendere la sua strada, e non incatenato lì con lei in una vita che non l’avrebbe mai soddisfatto, né reso felice.
«Fai nuove esperienze con chiunque tu voglia. Noi abbiamo chiuso».
Asahi se ne andò immediatamente in seguito a quelle parole, con la schiena curva.
Maria sentì il rumore dei suoi scarponi invernali affondare nella neve, fino a sparire.
Rimase da sola sul retro di casa sua, sotto quel lampione intermittente, a congelare.
Mosse un solo passo prima di inginocchiarsi sulla neve, i jeans immediatamente bagnati, ma incurante del gelo che le stava perforando le ossa; era scossa dai singhiozzi, voleva urlare.
Voleva urlare, ma aveva paura che Asahi non fosse ancora abbastanza lontano.
Si ritrovò piegata in due a vomitare sotto il muretto l’istante successivo, non aveva molto nello stomaco, ma sicuramente insieme al poco cibo appena cacciato c’era anche della bile.
Strinse forte la mano attorno alla maglietta, sul ventre, dove le fitte aumentavano.
«Ho capito, mi dispiace …» mormorò piegandosi in due «Mi dispiace …».
E non era sicura di sapere a chi stesse chiedendo scusa.
Avrei solamente voluto che non ti arrendessi così facilmente.
 
 
Asahi aveva aspettato prima di piangere, ma non era stato un pianto vigoroso.
Si era morso il labbro inferiore, e solamente gli angoli degli occhi si erano riempiti di lacrime.
Erano state due settimane infernali quelle che aveva trascorso.
In Hokkaido non era riuscito a godersi appieno il tempo trascorso insieme alla famiglia che non vedeva da mesi, e quando era rientrato Maria si era rinchiusa in casa per una “indisposizione”. Gli era sembrato assurdo, una patetica scusa per non vederlo.
Si sentiva impazzire, non aveva senso che Maria lo evitasse, che cosa poteva mai essere successo in due settimane da farle avere quel genere di comportamento?
Era ovvio che qualcosa dovesse essere accaduto. Qualcosa che non voleva dirgli.
Asahi era finalmente arrivato alla conclusione che aveva temuto dall’inizio.
Maria doveva essersi pentita all’ultimo minuto, la sua partenza per il Brasile doveva averla spaventata, si era davvero resa conto di non amarlo, o forse era successo qualcosa con Daichi.
Non aveva importanza, alla fine di tutto non aveva importanza.
Camminò sotto la neve a passo spedito finché non gli fecero male i polmoni.
Aveva ingerito troppa aria fredda e faceva fatica a respirare.
Non si trovava su una strada affollata, si inginocchiò davanti il retro di un locale, l’orologio segnava le ventidue esatte, dall’interno proveniva della musica soffocata, struggente.
Cantava una donna probabilmente, ma con quella voce roca era difficile dirlo.
Asahi trasse un respiro profondo e si strinse la mano attorno al petto, che male che faceva.
Ma era un male che in cuor suo si era aspettato.
Ho sognato di volare troppo in alto. Icaro si è bruciato le ali.
Sollevò il viso arrossato dallo sforzo di trattenere il pianto verso il cielo nero e nuvoloso, alcuni fiocchi di neve gli offuscarono gli occhi, dalla bocca uscì un nugolo di condensa.
Dall’altra parte del muro, nel locale, la voce malinconica cantava …
Love is a losing game.
… l’ultimo frammento di una storia d’estate finita in inverno.
 
 
 
Daichi ci aveva messo un paio di giorni per fingere che andasse tutto bene.
Immergersi nella preparazione di quell’ultima partita era stato l’unico modo per salvarsi.
Usciva la mattina di casa che i suoi genitori ancora dormivano e tornava la sera tarda, quando ormai avevano cenato tutti da un pezzo, e non voleva dare spiegazioni a nessuno.
Impegnarsi, allenarsi fino a sentirsi male, studiare fino a sentire la testa scoppiare e non passare nemmeno un minuto, nemmeno per errore davanti quella classe lo aiutava a non pensare. Lo aiutava ad andare avanti con quella nuova realtà, con quel nuovo futuro.
Anche quel terzo giorno le cose non erano andate diversamente, si stavano allenando da ore.
Lui era stanco, sudato, stremato, ma voleva continuare, continuare fino a svenire.
Tuttavia, quel giorno c’era qualcuno ancora più nervoso di lui: Asahi.
Sembrava il solito Asahi, ma a Daichi bastarono piccoli dettagli per comprendere che il suo migliore amico non era davvero sé stesso; scattava per delle sciocchezze, era distratto, non riusciva ad entrare in partita e a mala pena si scusava quando una palla schizzava fuori.
Stava sudando anche lui, ma non era lì presente, nonostante lo sforzo fisico.
Daichi aveva come la sensazione che volesse farsi del male, in qualche modo.
Ne ebbe la prova quando, inaspettatamente, Hinata gli finì addosso spingendolo oltre rete.
«E vuoi stare attento?!» gli gridò contro, con un’aggressività che non gli apparteneva.
Lasciò tutti senza parole, compreso il diretto interessato di quella sfuriata, scioccato.
«Oh, calmati Asahi-san!» era immediatamente intervenuto Noya, osservando l’amico con espressione contrariata, gli si era avvicinato anche Suga, offrendogli dell’acqua.
No, Asahi non era sé stesso e Daichi cominciava a domandarsi se non fosse per il Brasile.
Era arrossito immediatamente quando si era reso conto di aver gridato per una sciocchezza, aveva tentato di scusarsi, un tentativo immediatamente abortito da un farfugliare atono.
Si staccò dal gruppo alcuni secondi dopo, andandosi a sedere su una panchina a parte.
Bevve metà bottiglia d’acqua in un sorso, e poi la gettò malamente in un angolo.
A quel gesto, Daichi decise di staccare dal ritmo massacrante a cui si era sottoposto, per mettersi seduto accanto al suo migliore amico, che non stava bene in quel momento ed era evidente. Si domandò se anche Asahi avesse percepito qualcosa di anomalo in lui.
«Che cos’è successo, Asahi? Qualcosa a casa che non va?» domandò immediatamente con fare diretto, mentre si asciugava la fronte con il bordo della maglietta già fradicia di sudore, aveva anche lui una gran sete da placare.
«No, va tutto bene» disse immediatamente Asahi, per poi sfregarsi freneticamente la fronte con entrambi i palmi delle mani «Sono solamente io che non so cosa fare».
E Daichi poteva capirlo, aveva passato i giorni precedenti al rifiuto di Yui a dannarsi.
Ma non aveva ancora detto ai suoi migliori amici di aver consegnato i documenti e i moduli.
Era ovvio che dovesse allontanarsi dal Giappone per staccare finalmente la spina a quella relazione i cui battiti cardiaci erano stati attaccati ad una macchina troppo a lungo.
Una bella metafora per lasciarla morire.
«Ne hai parlato con tua madre, Asahi?».
Asahi chiuse gli occhi e cominciò ad oscillare avanti e indietro, come se tutti quei pensieri e quelle preoccupazioni stessero per fargli scoppiare la testa da un momento all’altro.
«Volevo dirglielo mentre ero in Hokkaido … lo farò sicuramente oggi o domani …».
Daichi non aggiunse altro e rimasero in silenzio per un po’.
Asahi continuava ad oscillare avanti e indietro su quella panchina, come se volesse cullare qualsiasi dolore stesse provando in quel momento per farlo calmare.
Daichi, che aveva convissuto con dolori diversi per parecchio tempo, avrebbe voluto confessare ad Asahi che non serviva a niente, che avrebbe continuato a fare male.
Qualunque cosa fosse avrebbe continuato a fare male.
«Qualche giorno fa sono uscito con Yui» confessò per la prima volta ad alta voce, nel momento del silenzio si era avvicinato discretamente anche Suga, sedendosi dall’altro lato.
Non aveva aperto bocca, si era semplicemente accomodato accanto ai suoi amici.
E Daichi aveva sentito la necessità di confidarsi con loro, loro che avrebbero compreso.
«Ero arrabbiato. No, ero incazzato … perché ho scoperto che si è fidanzata con Hayato».
Daichi rise di fronte le espressioni improvvisamente costernate di Asahi e Suga.
Era una risata amara la sua, ancora arrabbiata.
«Non ve la faccio lunga. Abbiamo litigato, l’ho baciata e mi ha respinto. Fine».
Era una frase davvero troppo breve per descrivere una storia di attese come la loro.
Asahi e Koushi conoscevano meglio di chiunque altro i sentimenti di Daichi.
L’ultimo anno di torture passato alle medie, il rapporto rovinato con Takahiro, i problemi con il mangiare, seppellire tutti quei sentimenti nel cuore fino a scoppiare, fino a convincersi di non provarli affatto, ritirarli fuori tutti sporchi di terra quando ormai era troppo tardi …
Era davvero una frase troppo breve quella.
«Perciò ho messo un punto a questa storia. Ho consegnato i moduli ieri. Parto».
Daichi fece un respiro profondo e guardò Suga e Asahi negli occhi, con un sorriso accennato.
«Voglio fare nuove esperienze».
Ad Asahi quella frase non piacque, quelle parole non piacquero.
Lo riportarono indietro alla sera precedente e fu percorso immediatamente da un dolore acuto, perché Daichi aveva pronunciato esattamente le stesse parole di Maria.
Scacciò dalla mente i suoi presentimenti, i suoi sospetti.
Doveva essere solamente un caso, uno scherzo subdolo della sua mente.
«Beh, a questo punto dovrei dirlo, no?» intervenne inaspettatamente anche Suga, distraendolo dall’oscurità di quelle supposizioni che gli stavano mangiando l’anima.
«Anche io ho consegnato i moduli questa mattina. Ho chiarito con Shimizu-san».
Sorrise incoraggiante e Asahi pensò che fosse arrivato anche per lui il tempo di parlarne per davvero finalmente con Hotaru e Kaori, l’avrebbe fatto stesso quella sera probabilmente.
E il giorno successivo anche lui avrebbe messo un muro di cemento tra sé e Maria.
Insieme ad infiniti chilometri di distanza.
«Ho portato i bento» annunciò ad un certo punto Suga, sporgendosi oltre la panca per prendere la busta con il pranzo acquistato quella stessa mattina.
Avevano deciso di trascorrere la pausa in palestra per non sprecare tempo e tutti gli altri avevano cominciato a mangiare da alcuni minuti, mentre loro parlavano.
Koushi ne consegnò uno a Daichi e uno ad Asahi senza fare complimenti.
Li aprirono in silenzio e cominciarono a mangiucchiare, ancora assorti nei propri pensieri; Daichi era l’unico ad aver avvicinato le bacchette alla bocca più di una volta senza davvero riuscire a buttare giù niente. Se non era solo non riusciva davvero a mangiare nulla.
Sembrava terrorizzato, come se avesse tra le mani un mostro e non un semplice gamberetto.
Suga smise di mangiare e appoggiò le bacchette sul suo bento, non sapeva che cosa dirgli. Asahi lo imitò, ma a differenza sua si dimostrò decisamente molto più sicuro di sé.
«Lo sapevate che le proteine del pesce sono chiamate nobili?» intervenne inaspettatamente, a voce alta e un fare professionale, tentando in tutti i modi di risultare casuale, come se non stesse parlando per Daichi «Hanno un elevato potere nutritivo e sono anche facilmente digeribili! E ho letto anche che contengono tutti gli amminoacidi essenziali, quelli che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare» afferrò un filetto di merluzzo tra le bacchette e lo appoggiò sul riso intoccato di Daichi «É anche ricco di omega 3 che serve a prevenire l’ipercolesterolemia e l’arteriosclerosi» gli sorrise, nonostante non ne avesse davvero la forza. «Inoltre è ricco di fosforo, calcio e iodio. É consigliato anche per chi soffre di una forma di diabete. Insomma … ti fa campare cent’anni!».
E pronunciate quelle parole, per dare l’esempio, infilò in bocca un bel filetto saporito.
«Dovremo mangiarne parecchio ora che andiamo in Brasile allora!» intervenne Suga dandogli man forte, anche lui riprese a mangiare di gusto.
Daichi osservò il suo bento e lo strinse tra le mani, voleva davvero mangiare quel filetto ora che aveva sentito le parole di Asahi, ma aveva paura di non esserne in grado.
«Temo di non riuscirci» confessò, ridacchiando con aria nervosa.
«Ci riesci Daichi» replicò Suga con convinzione, offrendo all’amico una frittata.
Il cibo nel suo pranzo intoccato stava lentamente aumentando.
«Abbiamo solo noi tre in Brasile, dobbiamo contare l’uno sull’altro da adesso in poi».
Koushi sorrise ad entrambi dopo aver pronunciato quelle parole, sia Asahi che Daichi si sentirono improvvisamente molto più leggeri, come se non ci avessero pensato prima.
Daichi guardò le sue bacchette, esitò solamente un istante e infilò in bocca il filetto.
Ingoiò, sorrise.
«Come ai vecchi tempi» mormorò.
Asahi annuì, mangiando distrattamente, perso nei suoi pensieri.
Sollevò il viso solamente casualmente, lo fece l’istante esatto in cui Shimizu, Hitoka e Maria entrarono in palestra stringendo tra le braccia una pila di casacche appena lavate.
Non aveva avuto intenzione di guardarla, né di incrociare il suo sguardo.
Ma era stato sorprendente come fosse bastato semplicemente dire che tutto fosse finito per diventare esattamente due estranei, tutta la loro intimità e quell’amore che gli era parso di sentire e provare, lavato via con una semplice passata di spugna.
Lei aveva uno sguardo sereno, tranquillo, come se non fosse assolutamente successo nulla.
Non doveva nemmeno aver sofferto, forse solo provato dispiacere per lui, che ci aveva creduto.
Asahi distolse lo sguardo.
L’amore è davvero un gioco a perdere.

 



 
Buon pomeriggio lettori, spero abbiate passato tutti delle buone e serene vacanze di Pasqua!
Non vi trattengo molto, vi lascio giusto qualche curiosità veloce veloce:
il film Norwegian Wood (ahimé) esiste davvero, e il dialogo sopra riportato è proprio il dialogo ufficiale del film, tratto dai sottotitoli in inglese che effe_95 ha provveduto a tradurre e riportare nel capitolo. Volevo lasciarvi il link Youtube, ma non ho più trovato la scena in questione. Considerate che comunque è un film che ormai avrà i suoi annetti!
(Il mio ahimé di cui sopra era riferito al fatto che il film non mi è piaciuto per niente, mentre il libro è stata tutt’altra esperienza, qualcosa di imparagonabile <3 )
Per quanto riguarda invece la scena della cantante, per chi conosce Nana di Ai Yazawa probabilmente avrà colto dei piccoli riferimenti, come il nome del locale e la descrizione della cantante stessa… non è un vero e proprio cameo, ma siete liberi di sognare, se volete 😉
Love is a losing game è inutile che ve lo rimembri, una delle canzoni più belle e struggenti di Amy Winehouse, che ha accompagnato lo stato d’animo di Daichi e Asahi verso le loro infelici realizzazioni.
Continuate a seguirci e magari lasciateci dei feedback. Grazie come sempre.
Flying_lotus95 & effe_95
   
 
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