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Autore: Francine    08/04/2024    1 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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16.


 

Yngve era sempre stato un mistero.

Sarebbe potuto essere un attore famosissimo. Uno che avrebbe fatto strage di cuori - femminili e non - solo respirando. Condizione sufficiente, ma non necessaria. L’Alain Delon della sua generazione. E anche di un paio di altre, presenti, passate e future. Oppure, con un fisico come il suo, un mannequin coi controfiocchi, conteso dalle più prestigiose maison per questa o quella Settimana della Moda, da un capo all’altro del globo terracqueo.

Ma la dannazione di Yngve era il possedere un cervello. E un cervello funzionante, per di più. Così, accantonata l’idea di lanciarsi nel mondo del cinema — Yngve detestava che qualcuno, foss’anche il Padreterno, gli dicesse cosa dire e cosa fare — o in quella della moda — e Yngve non avrebbe permesso a nessuno di trattarlo come una borsetta ai saldi —, Yngve aveva dapprima accontentato i genitori e si era preso una laurea in Economia. Magna cum laude, ché a Yngve piaceva fare le cose per bene. «Altrimenti, è meglio non farle», diceva lui. E il giorno dopo, con l’inchiostro ancora fresco sul Diploma di Laurea, si era iscritto ad una prestigiosa scuola di cucina a Parigi e si era rimesso a studiare, diventando, in cinque anni, uno chef di tutto rispetto.

E ora, quello chef di tutto rispetto, con la presenza scenica di un attore shakespeariano e il viso di porcellana di un fotomodello, aveva sganciato una bomba da un milione di megatoni sulla testa di Milo - con la stessa, identica grazia di un gatto che passeggia per i tetti. Incurante, ça va sans dire, della precarietà delle tegole. Se te ne cade in testa una, mica è colpa del gatto. Piuttosto, che ci facevi, tu, là sotto?

 

Più fissava Yngve, più Milo sentiva nascere un'emicrania coi controfiocchi. Il perfetto coronamento di una giornata in cui avrebbe dovuto marcare visita e trasferirsi lontano. Su Plutone, ad esempio. O forse su Alpha Centauri. O nel Quadrante Delta. Tanto per essere sicuri.

Si portò una mano davanti al viso, se la passò sulle guance e poi disse:«Tu stai scherzando, vero?».

«Ti sembra che io stia scherzando?»

«Oh, avanti!», protestò Milo. «Non puoi dire sul serio.»

«Certo che sì.»

«Non si può. Non è possibile.»

«Scommettiamo?»

E a quel punto Milo sbottò. 

«Ma che diamine avete tutti, da queste parti?»

Assestò una manata sul tavolo. Tazzine e cucchiaini tintinnarono stizziti. Gli venne quasi l’impulso di chiedere scusa — alle tazze e ai cucchiaini, ovvio —, ma si trattenne.

«Vi ha dato a tutti di volta il cervello contemporaneamente?»

Yngve non rispose. Si limitò a fissarlo — segno che lui, quello che aveva da dire, l’aveva detto.

«Non puoi dire sul serio…»

«Se mi permette, signor Papadopoulos, il mio assistito le ha fornito un ottimo consiglio.»

Milo volse la testa in direzione del tizio — del tizio improbabile — seduto accanto ad Yngve. Alto, magro da sembrare uno scheletro a spasso, e con un disperato bisogno di un barbiere decente, si era presentato come Morten, e presenziava all’incontro informale in qualità di rappresentante di Yngve. Legalese per dire che qualcosa aveva fatto storcere il naso ad Yngve. E Yngve, il quale non gradiva intoppi sul proprio cammino, aveva adottato le più opportune contromisure. Chiamare il proprio avvocato, appunto. Anche se questi aveva avuto la stramba idea di presentarsi conciato come se fosse appena sceso dal palco di un gruppo boho-rock

Gli manca solo il cappellone in testa e un ciondolo a caso che gli rimbalza sugli addominali, pensò Milo. Addominali che facevano capolino dalla camicia di seta a stampa anni ‘70, scovata in chissà quale mercatino delle pulci. Uno per gente di un certo livello, ça va sans dire.

Ah, la Tauromachia, si disse Milo, fissando con manifesto astio quell’azzeccagarbugli à la page. Non si sa bene di che rivista, ma comunque à la page.

 

«E a te chi ti ha detto di parlare?», avrebbe voluto ribattere. Ma anni passati ad avere a che fare con soggetti più o meno invadenti e più o meno ributtanti, avevano insegnato a Milo a dosare il proprio livore, e a farlo salire a galla, piano piano, come acqua sorgiva. Certo, l’eruzione di un geyser ha il suo fascino. Innegabile. Tutta quell’acqua che non ne può più ed esplode, verso l’alto, come a voler prendere a sberle il cielo… Ma, anche se avrebbe tanto, ma tanto, ma tanto voluto prendere a sberle, se non il cielo, almeno quel tal Morten — fino a slogarsi entrambi i polsi, i gomiti e pure le spalle —, Milo sapeva che esplodere come un geyser non era mai una scelta consigliabile. Perché una persona civile non è un geyser. Una persona civile parla, argomenta, discute. Trova un compromesso. Non esplode, come una pentola a pressione. 

E, baloccandosi con l’idea platonica di quanto sarebbe stato divertente e liberatorio poterne cantare quattro a quell’attrezzo in guisa umana, Milo ingoiò per il momento l’ennesima risposta caustica, inspirò a fondo — fino a riempire ogni alveolo —, e poi rilasciò l’aria dal naso con molta, moltissima calma.

 

«Il suo cliente…»

«…assistito…»

«… è noto per fornire ottimi, ottimissimi consigli», disse Milo. E allora perché stai facendo il prezioso?, diceva la postura di quel Morten. «C’è solo un problema», aggiunse, un sorriso rivolto allo Scappato di Casa che gli sedeva di fronte.

«Davvero? E sarebbe?», chiese questi, incuriosito.

«Che il consiglio del suo cliente…»

«…assistito…»

«… è illegale

Morten allargò le braccia, sconsolato. 

«Il suo è un punto di vista francamente eccessivo.»

«E se lei fosse qui per tutelare la sua posizione e i suoi interessi», proseguì Milo indicando Yngve con un cenno del pollice, «gli avrebbe intimato di non pronunciare nemmeno mezza delle fesserie che ho sentito sinora.».

Poi, rivolgendosi a Yngve, aggiunse: «Il mio è un consiglio da amico. Poi, fai come vuoi.».

«Signor Papadopoulos», insistette Morten, «credo ci sia stato un enorme fraintendimento.».

 

Un fraintendimento. Ma davvero?
Milo pensò che sarebbe stato molto, molto interessante vedere in che modo Kanon avrebbe gestito quel fraintendimento. E mentre quel cretino parlava e parlava e parlava, ripetendo la stessa, identica solfa, Milo si baloccò ad ipotizzare fino a che punto Kanon lo avrebbe fatto a pezzi, in tribunale. Come si fracassano le chele di un’aragosta? Giusto per sentire il suono della cheratica che si spacca per la pressione?

«Capisce?»

«No. Non capisco.»

Milo si era perso le ultime battute del monologo — dell’arringa — di Morten, ma non occorreva una veggente per sapere che era tornato a battere sullo stesso, identico chiodo. Ancora e ancora e ancora. Come se ripetere le cose fino allo sfinimento le facesse diventare vere

C’era stata una serie di irregolarità nel concorso. Yngve se ne era accorto. E Yngve aveva caritatevolmente avvertito Milo del pasticciaccio brutto che era scoppiato nella sua cucina virtuale. Peccato che Yngve avesse taciuto la cosa fino a quando non era stato possibile tacere oltre; o quando questa informazione non si era rivelata utile. Per Yngve, s’intende.

Ma Milo non aveva alcuna intenzione di assecondare Yngve su quel punto. Non poteva. Perché sarebbe stato in debito con Yngve. Ed essere in debito con Yngve sarebbe equivalso a firmare una montagna di assegni in bianco e a spargerli per le strade come coriandoli durante una parata. O come il riso sul sagrato dopo che gli sposi sono usciti dalla chiesa.

No, non era consigliabile perseguire quella strada. E visto come stavano andando le cose, Milo si chiese se non fosse il caso di domandare a Kanon quanto avrebbe dovuto pagare per risarcire gli sponsor, e quanto tutta questa storia avrebbe inciso sulla sua carriera. E anche Yngve doveva starsi baloccando con quel pensiero — o con uno molto simile — visto che lo fissava come si fa con un bizzarro esperimento scientifico.

Morten tornò alla carica, per l’ennesima volta. 

«Signor Papadopoulos», esordì, col tono della persona ragionevole che ce la sta mettendo tutta, ma proprio tutta, per farsi capire da una persona dura di comprendonio. «Il mio assistito…»

«… cliente …»

«… le sta fornendo un’offerta molto ragionevole.»

«L’offerta del suo cliente è una truffa», ribatté Milo. «Sono pronto a sillbarglielo, se vuole.» Pausa. «Lo vedrebbe anche un bambino.»

Morten rilanciò: «Per fortuna, allora, che siamo tra persone ragionevoli…».

«Io sono ragionevole», puntualizzò Milo. «Spiacente di non poter dire lo stesso di voi.»

«Signor Pa-pa-do-pou-los», e Morten scandì il suo nome sillaba per sillaba, con la lentezza tipica di chi ha perso la pazienza e vorrebbe far saltare il tavolo, ma non può permettersi di darlo a vedere. «Abbiamo appurato che tutte le parti in causa hanno un problema. Su questo concordiamo, spero.» Silenzio assenso. «Il mio assistito…»

«Il suo cliente», lo interruppe Milo, mandando alle ortiche le buone maniere, «ha proposto una soluzione che, da qualsiasi parte la si guardi, è una truffa. Una. Truf. Fa. Una truffa che salva lui e inguaia me.».

Era questo, il problema con Yngve. Nessuno fa mai niente per niente, e i buoni samaritani si contano sulle dita di una mano, ché la Carità sarà anche più grande della Fede e della Speranza, ma, all’atto pratico, è un concetto più evanescente di una chimera. Quello che Milo non riusciva a mettere a fuoco erano le motivazioni di Yngve. Perché stesse montando questo teatrino e perché avesse affidato a quel burattino di Morten il ruolo di burattinaio capo.

«Ma perché dice così?», replicò il burattinaio, piegando la testa da un lato.

 

E Milo dovette attingere all’ultima stilla del proprio autocontrollo per non centrare quel sorrisetto indisponente con un diretto dei suoi. Kanon non sarebbe stato contento e Milo avrebbe dovuto ripagare ogni singolo dente con cui Morten abbagliava le sue fan — ammesso che un tizio simile non finisse sommerso da carote e pomodori marci alla fine di ogni concerto —; però…

Però…

Però, Sant’Iddio, che soddisfazione!

L’avrebbe pagata salata — quale dentista costa poco? —, ma mai lesinare sul piacere, diceva suo padre. E Milo non l’avrebbe certo deluso in un simile momento.

 

«Perché, chiede?», e la testa di Morten andò su e giù un paio di volte. Milo distese l’indice della mano sinistra davanti a sé. «Perché, punto primo, è una truffa. Lo so io, lo sa lui e lo sa anche lei…»

«Morten. Come Morten Harket. Diamoci del tu.»

«No.» Il medio di Milo si allineò all’indice. «Secondo, perché, anche ammesso che io accettassi il suggerimento del suo cliente…»

«…assistito…»

«… questo è e resta una truffa. E a risponderne sarò solo e soltanto io.»

«Se e qualora qualcuno dovesse muovere qualsivoglia accusa», puntualizzò Morten. «E, in tutta onestà, chi si lamenterebbe di questa soluzione? Non il Gökotta. Né il Verse-Eau

«E il Susumella?», chiese Milo. «Miei cari signori, qui stiamo facendo i conti senza l’oste.» Un oste ben più incazzoso di Procuste, pensò.

«Ti ho già spiegato che Marco non si lamenterà.» Yngve si era ricordato di possedere una voce. Una voce da cui filtravano impazienza e stanchezza. Di dover spiegare tutto, fin nei minimi dettagli, a chi gli stava attorno.

«Questo lo dici tu», replicò Milo. «Perché, vedi, vengo adesso dal Susumella. E sono sicuro, più che sicuro, che Marco non abbia fatto alcun cenno a tutta questa storia.»

Yngve si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato; poi gli pose davanti un piattino, con tre piccoli ravioli di pasta frolla.  «Assaggiali», disse - ordinò.

«No, io non assaggio nulla se qui non…»

«Assaggiali», ripeté Yngve. E qualcosa, nel suo viso, convinse Milo ad assecondarlo.

«E va bene», concesse. 

 

Prese un dolcetto e lo spezzò. Ed un fragrante aroma di marmellata di visciole, fichi secchi, mandorle e cioccolato gli invase le narici; arrivò dritto dritto al cervello; e lo reclamò come suo proprio spazio indiscusso. Guardò Yngve, in cerca di risposte; l’altro era una statua di cera. Ne prese un morso, e le promesse olfattive furono mantenute e superate. Una delizia. Una squisitezza. Un Preludio di Chopin ad un Crescendo rossiniano.

Mangiare quel piccolo raviolo equivaleva a rimettersi in pace con l’universo intero. Anche il secondo boccone sparì in un attimo e così il terzo. Non attaccò un altro biscotto perché il suo cervello — saggiamente — gli intimò di non abbassare la guardia, con Yngve. A Yngve piaceva il poker, e a Yngve piaceva bluffare. Era bravissimo, a bluffare. E chi aveva avuto modo di sedersi al tavolo con lui come opponente — e Milo ricordava serate e serate a spennare Marco, senza pietà, i libri abbandonati in un angolo e gli esami stornati fino al mattino seguente — aveva imparato a riconoscere i segnali inequivocabili di un suo bluff. Tutti, tranne Marco. Per Marco non c’era proprio speranza.

Il problema è che Yngve non stava bluffando. Yngve aveva tra le mani una scala reale massima servita. Perché affannarsi a nasconderlo?

«Questi non sono i Kladdkaka», disse Milo, ricordandosi il nome corretto del biscotto, per una volta.

«No. Queste sono delle Nepitelle. Le Nepitelle di Nonna Agata», disse Yngve. 

 

E Milo si disse che sì, erano esattamente gli stessi, identici biscotti che Marco elargiva loro all’altezza di Pasqua, quando arrivava il pacco di prelibatezze di Nonna. E Milo si chiese come mai quelle che stava mangiando, ad un tavolo del Gökotta, fossero una delizia per il palato ed un ristoro dell’anima, mentre quelle che gli aveva servito Marco, al Susumella, assomigliavano a del cartone pressato ripieno di - scadente - pasta di mandorle e canditi andati a male. 

«Per questo ti dico che il Susumella non batterà ciglio. Ma, se non ti fidi, sono pronto a mettertelo per iscritto…»

Morten saltò sulla sedia come se qualcuno gli avesse fatto esplodere un petardo sotto le chiappe. «Yngve, come tuo avvocato ti sconsiglio vivamente di…»

Ah. Adesso sei il suo avvocato?

Milo si concesse il lusso di un sorriso soddisfatto, ed allungò le dita a prendere un’altra nepitella.

Yngve mosse un muscolo appena, e Morten si chetò.

A cuccia, Fido, pensò Milo. E il sorriso si accentuò.

«Ti ringrazio per il tuo supporto, ma non vorrei farti perdere ulteriore tempo», disse Yngve. Fermo e duro come una pietra tombale. «Non avevi un appuntamento con quegli altri due?»

Morten lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa. Sbatté le palpebre un paio di volte — forse per sincerarsi di non essere finito in un universo parallelo —  e poi controllò lo smartwatch al polso. L’ultimissimo modello della Apple. Il quale, a giudizio insindacabile di Milo, faceva a pugni con il resto della mise

«Sì, è vero», concesse Morten. «Ma io ti sconsiglio di rilasciare qualsivoglia dichiarazione scritta.»

Poi fissò Milo. Il quale, sostenendo lo sguardo, si ficcò in bocca la terza e ultima nepitella. 

«Il signor Papadopoulos ed io dobbiamo procedere con le formalità per il concorso.» Yngve aveva derubricato la chiacchierata degli ultimi tre quarti d’ora ad un rumore di fondo, un mero accidente aristotelico. «E non vorrei che Alistair and Hari se la prendessero con me. Anzi, per farmi perdonare, ho preparato un sacchetto per la band.»

Ti sta cacciando, pensò Milo, fissando Yngve prendere un sacchetto — pronto da tempo — e consegnarlo a Morten. E se non ti spicci a toglierti dalle palle, ti scaraventerà in strada a pedate.

Morten capitolò. Doveva aver intuito quale sarebbe stata la sua sorte, se avesse insistito oltre. Una persona intelligente sa quando è il caso di alzare bandiera bianca e battere in ritirata. E Morten dette prova di avere un cervello funzionante e di buonsenso, a dispetto del suo discutibile gusto in fatto di abbigliamento.

Si avvolse in una coperta, a fantasia scozzese sul grigio, come se fosse una sciarpa extra extra extra large. A Milo ricordò un Lenny Kravitz di qualche anno prima, meno talentuoso e molto, ma molto più male in arnese.

«Mi dispiace non poter assistere alla degustazione, ma devo trovarmi dall’altra parte della città tra… dovevo. Mezz’ora fa», disse, come se qualcuno, in quella stanza, glielo avesse chiesto. Un patetico tentativo di salvare la faccia. A Milo fece quasi pena. Quasi. «Grazie, anche a nome dei ragazzi.»

Morten s’infilò la custodia di una chitarra a tracolla, raccattò i biscotti, porse la mano a entrambi, ed uscì di scena come se avesse tenuto l’ultimo, estenuante bis della sua carriera.

 

Non appena la porta si fu richiusa, Milo fissò Yngve.

«È figlio di certi amici dei miei», gli spiegò, senza che Milo avesse avuto bisogno di chiedere. «Sai com’è…»

No, non lo so com’è, pensò Milo.

«Può sembrare un po’... pittoresco, te lo concedo», proseguì Yngve preparando dell’altro caffè e disponendo davanti al suo ospite un piattino, un vassoio con dei dolci e una caraffa d’acqua fresca. Spicchio di limone e rametto di menta. Come da Marco, pensò Milo. «Ma posso assicurarti che sa il fatto suo.»

«Se lo dici tu…»

«Sì» Pausa. «Lo dico io. E sai anche tu che il mio suggerimento permette a tutti di salvare capra e cavoli.»

No, non di nuovo, pensò Milo. E poi si disse anche che, se Yngve gli avesse fatto la cortesia di parlargli a quattr’occhi, invece che presentarsi col terzo incomodo, forse sarebbe stato più accomodante.

«Yngve, per piacere», riprese Milo. 

«Le Nepitelle che ti ha propinato Marco sapevano o non sapevano di cartone?» Pausa. «Io ho scelto un metodo meno maldestro.»

«Voi mi state mandando al manicomio», sospirò Milo, portandosi una mano sugli occhi. Perché se il Verse-Eau gli aveva fatto una bella sorpresa, e Marco si stava boicottando da sé, Yngve aveva rilanciato — e quando mai Yngve si sarebbe fatto scappare l’occasione? — ; e Milo si chiese che senso avesse iscriversi, per poi ritirarsi all’ultimo secondo.

E poi lo chiese: «Che senso ha iscriversi ad un concorso e poi ritirarsi all’ultimo secondo? Non siamo ad un esame! Stiamo lavorando!».

 

«Secondo te, perché ci siamo iscritti al concorso?», rilanciò Yngve. Tanto per non lasciarsi scappare l’occasione, ancora una volta. Versò l’acqua calda nella caffettiera francese, premette lo stantuffo e attese.

«Non lo so.» Milo incrociò le braccia al petto, in attesa. Perché cinquemila euro potevano far gola ad un ristorante male in arnese, o ad un posto come il Verse-Eau, che navigava in acque talmente brutte che era un miracolo non fosse già stato spazzato via da un fortunale. Ma per due realtà già avviate come il Gökotta ed il Susumella, quei cinquemila euro erano briciole. Un insulto, quasi.

«Perché Marco e io siamo in perenne competizione.»

Yngve lo soffiò via, quasi fosse un segreto da spifferare nella quiete del confessionale.

«Sai che novità», commentò Milo. 

Yngve non raccolse. 

Gli scoccò un’occhiata indecifrabile, poi continuò: «Perché ci piace. Perché ci mantiene vivi. E perché, in fondo, siamo fatti così.». Come se quella spiegazione bastasse, avanzasse e superchiasse ogni legittima pretesa di Milo.

«Mi fa piacere per voi», commentò quest’ultimo, il quale no, non si sarebbe accontentato di quelle affermazioni, buttate lì come se fosse un re a parlare — magnanimamente — ai suoi sudditi. Nemmeno per sogno. Si fece avanti e posò entrambi i gomiti sulla tovaglia candida. «Ma cosa c’entro io?»

«C’entri, mio caro», gli spiegò Yngve, lasciandosi sfuggire un sospiro, «perché hai selezionato entrambi. Entrambi. E io avevo dato per scontato che un ragazzo intelligente come te avesse capito come funzioniamo. Siamo o non siamo amici da anni?».

«Frena, frena, frena. Voi siete amici di Rodrigo.» Yngve non sembrò offeso da quella puntualizzazione. Amici. Appunto. «E anche ammesso che io sia abbastanza intelligente da capire come funzionano le vostre teste bacate, non avete niente di meglio da fare che importunare chi lavora?»

Il tono di Milo era salito, mano a mano che raggiungeva il fondo della frase. Perché uno dei grossi problemi che aveva Yngve, nel relazionarsi con il genere umano, era il non considerare che, alle volte, anche le migliori strategie finiscono a gambe all’aria per un solo, piccolo, banale, insignificante particolare. Il chiodo arrugginito che ti fora la ruota della bici. O la buca seminascosta in cui finisci per azzopparti. Oppure il guano del gabbiano che ti centra in piena testa, proprio mentre passeggi per i fatti tuoi, magari sottobraccio alla tua bella. O al tuo bello, nel caso di Yngve.

Yngve che fissava Milo, come se sinora lui avesse parlato in arabo.

«Te l’ho spiegato», rispose. Visibilmente infastidito. «Perché io e Marco funzioniamo così. Perché sappiamo di essere pari. Ma non lo ammetteremo mai. Nemmeno sotto tortura.»

«Ma allora perché, in nome di Dio…»

«La verità è che sapevamo che tu», lo interruppe Yngve, versando il caffè in due tazze, «non avresti mai e poi mai voluto trovarti in mezzo. Com’è che si dice? Tra moglie e marito, eccetera eccetera…» Pausa. «E prima che te ne esca con una battutina cretina, non è colpa mia sei i proverbi non stanno al passo coi tempi.»

Milo alzò le mani. Yngve aveva ragione, in entrambi i casi. Come sempre.

«Quindi», riprese Yngve, «eravamo certi, certissimi che non avremmo vinto. Che nessuno dei due avrebbe vinto.».

«No, aspetta. Mi stai» confessando «dicendo che avete paura che adesso che il Verse-Eau traballa…».

Yngve gli posò una tazza di fronte e si accomodò al suo posto.

«Esattamente», soffiò via. 

E Milo seppe quanto quell’avverbio fosse costato all’orgoglioso Yngve. Molto. Tanto. Troppo. Ma per Marco, questo e altro, sottintendeva la sua postura. 

«Non voglio che il mio bel mondo vada in pezzi.»

Milo prese un sorso di caffè e addentò un Kladdkaka. Squisito. Rivaleggiava e teneva testa alla Nepitella di Marco, come due cavalli che corrono appaiati. Come un corpo e l’ombra che esso proietta.

«Non credi di essere troppo melodrammatico?»

Milo sapeva di essere stato acido — molto, tanto, troppo —, ma sapeva anche che a Yngve avrebbe fatto bene una solenne lezione di vita.

«Tu berresti da una tazzina incollata?», gli chiese.

«Dipende», rispose Milo. «Dal tipo di colla usata, s’intende. Certo, è una faticaccia, ma a volte ne esce fuori qualcosa di bello. Pensa al kintsugi…»

«Il kintsugi va bene per i musei», rispose Yngve. «O per una mensola, lontana dalle pallonate e dalle zampe dei gatti. Io voglio poter bere il mio caffè, ogni mattina, nella stessa tazzina che uso da quasi vent’anni. Non è chiedere la luna, no?»

No, pensò Milo.

Yngve tacque. Poi, dopo che Milo ebbe attaccato e sconfitto anche il secondo Kladdkaka, disse: «Io ho iscritto il Susumella. Marco, il Gokotta. E il Verse-Eau non ha un professionista da gettare nella fossa dei leoni.». Pausa. «Siamo tutti e tre nella stessa barca. Anzi. Il Verse-Eau è l’unico che si sia iscritto correttamente.»

«Spiegami una cosa», disse Milo. «Tu che ne sai che il Verse-Eau non ha un professionista da gettare nella fossa dei leoni?»

Yngve sorrise.

«Perché ero presente, quando Arnoul ha ricevuto la notizia. E so che sua sorella non è un cuoco.» Si concesse un sorriso. Milo non abboccò. Così Yngve capitolò e disse: «E va bene! Marco ha sentito la tua assistente che ne parlava al telefono, prima di entrare da lui. E me l’ha detto. Ecco perché Marco ti ha quasi avvelenato.».

«I tuoi Kladdkaka sono perfetti, invece», si lasciò sfuggire Milo.

Yngve si strinse nelle spalle.

«Se non si fanno le cose per bene, tanto vale non farle.»

 

Milo tacque.

Per come stavano le cose, l’unico e indiscusso vincitore sarebbe stato Yngve.

Yngve che, senza battere ciglio, avrebbe cavato gli occhi a chiunque si fosse frapposto tra lui e la meta che s’era prefissato.

Yngve che era disposto a sconfessare la propria competitività, pur di non perdere Marco. E che avrebbe mandato a puttane tutto e tutti solo per tenere il punto.

Perché vincere il concorso non è mai stata una sua priorità, dovette ammettere Milo, tra sé e sé. Marco è la priorità.

Bevve un altro sorso di caffè, osservando Yngve con la coda dell’occhio.

Posò la tazza e, di fronte allo sguardo più atarassico di Yngve — due acquamarine contornate da una corona di spine —, Milo disse: «Io capisco le tue posizioni.».

Yngve annuì. Come a dire: «Alla buon’ora!», con tanto di sospiro sollevato.

«Ma, in tutta onestà, non posso fare vincere il Verse-Eau.» Yngve si accigliò. «Fammi finire. Non sarebbe credibile

«Perché no?»

«Perché la tua strategia è ottima, ma abbiamo un problema.»

«Sarebbe?»

«Pare che la partecipante non solo non sia una cuoca, ma che sia anche incapace in cucina», soffiò Milo, prima di prendere un altro sorso di caffè. «E tu capisci che non posso far vincere lei, contro voi… Non posso, dai! Mi riderebbero tutti dietro! Dovete convincere Arnoul a partecipare.»

 

Dovete. Non un più rassicurante dobbiamo, prima persona plurale; nossignore. Dovete. Armiamoci e partite, questa era e sarebbe stata la posizione di Milo. E Yngve aveva capito perfettamente l’antifona.

«Credo che qualcuno potrebbe farlo rinsavire», si limitò a dire Yngve. Alludendo a Rodrigo.

«Lo spero», ribatté Milo. «Ma sono preoccupato per questo qualcuno…»

Yngve lo fissò perplesso. «Tu sai

«Sì», disse Milo. Contento come una Pasqua di trovarsi a procedere appaiato ad Yngve, per una volta. «Me lo ha detto proprio stamattina.»

Sarebbe stato più corretto dire «Glielo ho estorto stamattina», ma non c’era bisogno che Yngve fosse a conoscenza di tutti i particolari, giusto?
Giusto.

«Capisco», e gli scoccò uno sguardo livido. «Ma perché dici di essere preoccupato per lui?»

Milo posò la tazza davanti a sé e si sporse verso Yngve. Due congiurati riuniti per decidere chi dei due porterà la pugnalata iniziale, quella che darà il via al massacro. E Milo sapeva che Yngve avrebbe voluto e preteso per sé quella parte. Come se fosse sua per diritto dinastico. E chi era, lui, per deluderlo?

«Perché questa mattina Shaina, la mia assistente, ha visto una certa persona, al Verse-Eau», disse Milo, con un tono di voce più basso del solito. «E io non vorrei che questa persona mettesse i bastoni fra le ruote a tutti noi.»

«Di chi stiamo parlando?», domandò Yngve. Allarmatissimo. Aveva capito — lo si evinceva dagli occhi spalancati e le sopracciglia arcuate —, ma voleva lo stesso che Milo sgombrasse il campo da ogni possibile dubbio o fraintendimento. «Di chi penso io? Alto, biondo, occhi verdi?»

Si va alla guerra, pensò Milo, prima di limitarsi ad annuire. 

A Yngve bastò.

«Sai… ad essere sincero non chiedevo di meglio», gli confidò, rabboccandogli la tazza di altro caffè. E per un momento, uno solo, Milo ebbe quasi pietà per Aiolia. Quasi.

Sollevato, si adagiò contro lo schienale della sedia e si gustò l’ennesima tazza di caffè. Adesso che aveva liberato il vero Mastino della Guerra, si sentiva più sicuro, per Rodrigo. E con Yngve impegnato a stanare e neutralizzare Aiolia, forse — un forse grosso quanto tutta Versailles — sarebbe riuscito a gestire il concorso in santa pace.

Speriamo bene, si disse, mentre fuori Parigi si preparava allo spettacolo.
   
 
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