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Autore: whitemushroom    23/04/2024    0 recensioni
Un investigatore della Santa Sede indaga sulla scomparsa di un potente magus, muovendosi in una Roma distorta, più interessata a proteggere i propri segreti che a rivelarli. In un' isola poco lontana Njal, un giovane turista, perde una persona di a lui cara e scopre che qualcosa, nel suo corpo, inizia a non comportarsi come dovrebbe.
Il primo ha dedicato la sua intera vita alla caccia di uomini e creature sovrannaturali, il secondo si ritrova suo malgrado in un universo di cui nemmeno conosceva l'esistenza; eppure entrambi rincorrono fantasmi presenti e passati sulla scia di qualcuno che, come un pittore, lascia la sua Firma su degli eventi di cui è impossibile rimanere soltanto passivi spettatori.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Padre Tsekani inspirò ed espirò a lungo, riacciuffando l'aria. Intorno a lui qualche curioso lanciava delle strane occhiate, ma gli bastarono uno sguardo ammonitore ed il suo ringhio da mastino per scoraggiare i passanti.
Aveva corso per oltre dieci minuti all’inseguimento del gabbiano, passando dalla spiaggia al lungomare, per poi buttarsi in delle vie laterali che lo avevano portato decisamente lontano dal litorale. Anni di addestramento da esecutore gli avevano permesso di reggere lo sforzo, ma a giudicare dall’affanno e dal leggero tremore alle gambe l'aver superato i trent'anni si stava facendo sentire. Il suo crocefisso veicolava le tracce libere della Firma, ed usò l'essenza divina presente nell'area per convogliare del tepore nelle ginocchia per placare il dolore ed impedire i crampi in arrivo.
Il gabbiano aveva volato con estrema lentezza; non era svanito nel nulla, come era accaduto con il cigno nero, e si era mescolato con i propri simili in più di un'occasione. L'uomo era sicuro di aver intravisto persino tracce di sangue lungo il becco, e di certo non si considerava una persona suggestionabile. La creatura aveva compiuto diversi giri lungo gli interni di Ostia, e si era decisa ad entrare dentro un edificio anonimo, una palazzina come mille lì intorno, con il portoncino e le mura scoloriti dalla salsedine e dall’incuria.
Si avvicinò all'ingresso e gettò un'occhiata ai nomi scritti sui vari citofoni. Non serviva il suo fiuto da vecchio mastino per indovinare quale interno cercare.
Su una delle targhette campeggiava la scritta “Zurlí - Di Meglio”.
“Prevedibile…” mormorò a denti stretti.
Maledicendo le tasche strette del completo elegante, estrasse il telefono e compose il numero di Samuel. “Abbiamo un problema”.
“Me ne sono accorto!”
La voce che rispose dall'altra parte dello schermo non era quella del suo giovane collega, ma quella autoritaria di Padre Whiteflame. “La polizia è già arrivata ed hanno contattato la copertura dell'agenzia. Alla faccia della sua discrezione, Padre Tsekani!”
La voce del vecchio superava di molto i decibel di qualunque forma di discrezione accettabile, ma l’esecutore non ebbe il coraggio di farglielo notare. Una signora entrò nel portone e gli lanciò uno sguardo dubbioso, e per sicurezza l'uomo decise di camminare intorno al palazzo per non attirare l'attenzione; con tristezza notò di aver lasciato in macchina non solo le armi, ma anche le cuffiette. “Hanno riportato che un ragazzo è stato ucciso da un gabbiano. Da un gabbiano! Cosa le avevo detto al nostro ultimo incontro?”
“Massima riservatezza, lo so…”
“No. Quella dovrebbe essere nelle basi, insieme al Padre Nostro ed alla patente!” tuonò l'altro.
Seguì un silenzio imbarazzante. Padre Tsekani cercò di ricordare la conversazione, ma a parte le lamentele sulla moglie di Pontieri non gli veniva altro in mente.
“La avevo avvisata esplicitamente di rimanere al chiuso. Ma no, lei doveva mangiare su un terrazzino sul mare!”
L’esecutore si morse il labbro.
Dovette fare uno sforzo, ma in effetti il suo superiore aveva mormorato un ordine simile prima di andarsene; certo, non era stato l'avviso più esplicito della sua vita, ma non poteva certo negare di averlo ricevuto. Poteva vedere chiaramente l'espressione furibonda sulla faccia del vecchio dall'altra parte del cellulare, e di contro la faccia disperata di Samuel.
Diede un pugno silenzioso contro un muro.
“Se lei non si fosse esposto in questo modo, forse quel ragazzo sarebbe ancora vivo! Danieli mi ha detto che lo avevate nominato durante il pranzo, vi possa andare tutto di traverso!”
Ormai era arrivato al terzo giro dell'edificio, e continuava a tenere d'occhio la finestra dove il volatile si era rintanato. La mente tornò al dialogo lungo la terrazza e alle affermazioni del signor Lucio: i gabbiani erano sempre stati lì, ad ascoltare.
“Diego, il ragazzo… quella sera si era avvicinato al tavolo di Pontieri” disse, ragionando ad alta voce. “Era il cameriere di turno. Ci hanno ascoltato e lo hanno ucciso prima che io gli parlassi. Ed ho il sospetto che lei sapesse che qualcuno mi stesse osservando, o non mi avrebbe dato quell’avvertimento”.
“Il pranzo lo ha reso percettivo?”
Il tono odioso gli fece venire voglia di prendere il telefono e scagliarlo contro il primo pilastro di cemento. Era stanco, sudato, con gli abiti e le scarpe più scomodi degli ultimi anni, e la sensazione di impotenza verso la morte di Diego gli premeva il petto: per quanto parte di lui sapeva di meritarsi le urla del proprio superiore, l'altra avrebbe voluto soltanto afferrare il vecchio e chiuderlo nel portabagagli della sua auto. “Adesso mi faccia una cortesia, Padre Tsekani” continuò l'altro “Alzi i tacchi e torni a Roma. Ha un magus da riportare all’ovile”.
“Ho seguito il gabbiano. Mi trovo davanti alla casa di Antonio Zurlí, confido di trovare qualcosa lì dentro”.
“Non se ne parla!”
“Ma…”
“Lasci perdere quell’uomo e rientri. Abbiamo ben altri problemi”
“Con tutto il rispetto, Padre Whiteflame, ma non è così!” fece, costringendosi a non alzare la voce ed a tenere tutto l'odio tra i denti. “Due civili morti sono un problema. E, se non sono il suo, le assicuro che sono il MIO!”
Le dita gli scattarono sul pulsante rosso e chiuse la chiamata.
Rimase diversi secondi a fissare il display, immaginando che il vecchio barbagianni richiamasse da un momento all'altro (o, peggio, che facesse richiamare Samuel); si sentiva il cuore a mille, frustrato da quella conversazione priva di senso.
Non era diventato un esecutore per quello.
Padre Whiteflame non richiamò.
Lanciò un'occhiata alla finestra incriminata, quasi ad aspettarsi il gabbiano e il suo strano ghigno di soddisfazione. Poi controllò quanto distasse la macchina, rendendosi conto di essersi allontanato davvero tanto dalla Vecchia Pineta.
Mandò mentalmente all’inferno quel bastardo del suo superiore e entrò nella palazzina approfittando di una coppia che ne usciva. Salì le scale fino al secondo piano, dove aveva visto entrare il volatile, e fu grato di non incrociare nessuno. L'appartamento di Zurlí era uno dei tanti, anonimo, un portoncino di legno scuro senza alcuna decorazione, il tappetino sollevato come se nessuno fosse in casa; nessun segno di effrazione evidente, ma le energie ancestrali che permeavano l'edificio ed entravano in vibrazione col suo crocefisso erano ben chiare. La Firma sembrava pura, pulita, fin troppo delicata per essere l'opera di un magus.
Se non si fosse trattata della casa di un morto, avrebbe potuto persino considerarla piacevole.
In altre situazioni avrebbe preso il portoncino a spallate, ma la situazione richiedeva discrezione, anche perché il vecchio gufo non doveva assolutamente scoprirlo: ringraziando di avere il coltellino a serramanico attaccato alle chiavi della macchina iniziò a forzare la porta, maledicendo il sudore, la stanchezza e la testa vuota dei suoi superiori.
A Freki poteva aver imputato tante cose, ma senza dubbio avrebbe approvato.

El-Gebal era lontana, lontanissima nel tempo e nello spazio. Forse addirittura irraggiungibile, come una clessidra vuota. E poi quanto tempo era che non scriveva a sua madre? Niente whatsup, niente sms, niente mail: solo lettere, che non potevano essere tracciate e che altrettanto facilmente potevano andare perse.
Ripensò al primo incontro con Freki, Falce della Luna, esecutore capo delle missioni di recrutamento, poco prima di essere caricato su un aereo per l’Italia come un pacco. Forse non l'avrebbe mai incontrata se non fosse stato per l'Americano.
L’Americano. Senza dubbio aveva avuto anche un nome ed un cognome, ma nei ricordi di Tsekani Kaudry era solo un americano grasso come quelli dei film, e lui un adolescente dal pugno facile e dal brutto carattere. Un Americano che lui, dopo averlo sentito insultare i suoi genitori nonostante lo avessero portato in giro fino all’oasi e lo avessero trattato con sultano, aveva tirato giù dal cammello per turisti ed aveva preso a cazzotti quella faccia col doppio mento. Perché nessuno chiamava la sua famiglia “sporchi negri”.
Probabilmente aveva agito senza pensare alle conseguenze di colpire un turista in grado di comprarsi il suo villaggio, ma ricordava solo quei giorni precipitare e sua madre in lacrime.
Poi erano arrivati loro, quelli delle missioni. Sempre con quella tunica scura e il pendente con la croce, che secondo suo padre dicevano una valanga di cazzate ma quantomeno portavano del cibo ed insegnavano ai più piccoli a leggere e scrivere. Avevano parlato con i suoi e lo avevano accompagnato in un edificio vicino la loro piccola chiesa; il che non sarebbe stato un problema se non fosse stato che vi erano facce nuove, tutte armate.
Freki, l'unica donna lì dentro, era seduta ad un tavolo. Una lunga serie di mappe e altri pezzi di carta era sparsa davanti a lei, ma ciò che davvero occupava la scrivania era una grossa spada.
“Eccolo qua. Il piccolo pugile che tanto piccolo non è. Siediti”.
Rimestò un po’ tra le carte, poi trovò un foglio e lo lesse. Tsekani non sapeva davvero cosa pensare.
“Allora, Tsekani, non te la faccio troppo lunga. Quel tipo a cui hai dato più di un pugno vuole far partire una causa, che non ti sto nemmeno a spiegare cosa sia. Diciamo che vuole dei soldi dai tuoi e, visto che i tuoi non li hanno, sta creando più di una grana. E i miei amici della missione non vogliono grane. Chiaro?”
Tsekani restò zitto, senza cambiare espressione. Si limitò ad annuire.
La pelle della donna era più bianca di quella di qualsiasi turista avesse mai visto. A giudicare dalle chiazze rosse sulla faccia, il sole dell’Egitto non era stato clemente. I capelli biondi erano anch'essi incredibilmente chiari, ed erano appiccicati dal sudore e dalla sabbia.
Lei fece un cenno di approvazione. “Bene. Mi piace che non accampi scuse del cazzo” fece, tamburellando le dita “Sei qui perché quell’americano vuole dei soldi, e nessuno gioca a rialzo con la Cupola. E, guarda un po’, io sono da queste parti perché mi serve un po’ di personale giovane. Sappi che tuo padre ha già firmato preventivamente”.
“Che vuol dire?”
Non era spaventato. Forse perché a quindici anni non aveva nemmeno bene in testa il concetto della paura. Era ancora furioso con quell’Americano.
“Vuol dire che tra quattro giorni c'è un aereo diretto a Roma: tu alzi il culo e ci sali. Noi risolviamo il casino che tu hai combinato e ci metto anche un bonus per i tuoi, che mi stanno simpatici. E, se sei bravo, ti trovo un lavoro migliore di spalare merda di cammello”.
Tsekani la osservò, poi lanciò un'occhiata alla spada. Doveva essere una di quelle scemenze da turisti, perché al giorno d'oggi chi usava più una spada? Pure gli uomini all'ingresso avevano armi da fuoco.
“Di che lavoro si tratta?”
Lei portò la schiena all’indietro, facendo scivolare la sedia, e accavallò le gambe. Aveva una vistosa cicatrice sul lato sinistro del collo. “Un lavoro alla tua portata. Prendere a pugni un po’ di gente che se lo merita. Io ti dico che pezzo di merda picchiare, e tu lo fai. Io ti dico di recuperare qualcosa, e tu me la porti. Ma, se fai schifo, ti mando a fare il missionario in un posto che El-Gebal ti sembrerà Las Vegas, è chiaro? È un biglietto di sola andata, ragazzo. Ma considerala un'opportunità”.
Il giovane aggrottò la fronte. Era un ragazzino, ma certe cose le capiva. Gli guizzò un muscolo della mascella e si strinse nelle spalle; non gliela voleva rendere facile. “Un'opportunità perché siamo poveri, vero?”
“Bene, sei anche sveglio. Mi piaci!” fece, allungandosi in avanti per guardarlo meglio. “Se mi devo procurare un mastino, ne voglio uno che morda. E morde quello che ha più fame di tutti. Secondo te vado a prendere i ragazzini americani imbottiti di panini del Mc Donald? Mi friggono nel loro lardo dopo nemmeno dieci minuti e devo pure sentire le lagne dei genitori”.
“Quindi siamo sacrificabili”.
“Non fai questa vita se non sei sacrificabile. Fattelo entrare nella zucca” sbuffò “Però ti assicuro che ripulire il mondo da certa merda è una gran bella soddisfazione. E non te lo dico perché ti voglio convincere a partire”.
“Mi avevate già convinto alla parte dei soldi…”
Si alzò, deciso a non prolungare oltre quella discussione. Anche perché aveva il sospetto che nessuno, nemmeno la sua famiglia, avrebbe accettato un no come risposta. L'unica certezza era che non ci avrebbe messo molto a fare il bagaglio.
Poi si girò, deciso a levarsi una stupida curiosità. “Posso chiedere a cosa serve una spada? Insomma, oggi ci sono le armi da fuoco!”
“Semplice: una donna con una spada uccide più gente di una donna senza una spada. E se fai altre domande inutili ti faccio arrivare in aeroporto a calci in culo, ragazzino”.
In effetti, anche dopo tanti anni, la risposta di Freki si era rivelata l'unica davvero sensata.

Qualcosa picchiettava sulla sua testa in maniera molto, molto fastidiosa.
Riaprì gli occhi, mettendo a fuoco l'ambiente; la testa gli rimbombava come se tutte le campane di Roma si fossero date appuntamento nel suo cervello.
Di nuovo qualcosa di piccolo gli atterrò in testa.
“Fratacchione, potresti sincronizzarti un po’ più velocemente? Non per metterti fretta, ma nessuno dei due vorrebbe che chiamassero la polizia!”
Padre Tsekani si portò una mano alla tempia, alla ricerca dell'ultimo ricordo utile. Doveva aver sognato qualcosa di casa, senza ombra di dubbio, ma…
“Ce la diamo una mossa?”
L’esecutore si girò d'istinto, percependo l'oggetto in arrivo: lo afferrò al volo senza nemmeno guardarlo, e quando aprì il palmo vide un sassolino di ghiaia. Intorno a lui ve ne era almeno una decina. Si alzò per mandare al diavolo la voce petulante, ma gli occhi erano pesanti in modo innaturale.
Il crocefisso emanava impulsi flebili, segno di una sovraesposizione di cui però non aveva alcun ricordo. Non si era mai ubriacato, ma era certo che una sbronza avesse lo stesso effetto.
La stanza in cui si trovava era immersa in una bella luce pomeridiana. Sembrava un salottino, un bell’ingresso di una casa come tante, sulla sinistra un mobile basso, pieno di libri -persino una Bibbia - e sulla destra un tavolino, delle poltroncine, un secondo mobile pieno di libri. Persino un orologio a cucù. Dritto davanti a lui un corridoio portava verso il cuore della casa, dove la Firma si agitava in maniera preoccupante. Si portò di nuovo la mano alla tempia, alla disperata ricerca di cosa diamine lo avesse condotto in quel posto e come ci fosse arrivato.
“Te la sei fritta bene la testa, fratacchione! Vuoi un riassunto rapido?”
Padre Tsekani si girò per dare un corpo a quella voce.
La porta dell'appartamento era aperta e dall'altra parte, in piedi, stava un uomo di taglia piccola, decisamente più giovane di lui, con i capelli di un azzurro improponibile e persino fastidioso alla vista. Doveva averlo già visto da qualche parte, ma nel cervello ancora saettavano ricordi di casa.
La faccia da cazzo, però, era chiaramente quella di un magus. Gli ringhiò, anche solo per fargli capire subito le sue intenzioni, ma armato di un coltello senza lama e dopo un'esperienza simile doveva essere ben poco minaccioso, perché l'altro gli lanciò un altro sassolino che evitò. “Sappi che appena esco di qui…”
“Passiamo alle minacce senza nemmeno una buona presentazione. Voi della Chiesa siete davvero dei bruti. Sai, non capita tutti i giorni di vedere un esecutore inciampare in un memento come un bambino, avrei potuto rimanere qui e godermi la scena invece di svegliarti. Non imparerò mai a farmi gli affari miei!”.
Padre Tsekani stava per rispondergli per le rime, ma si fermò.
Il caldo e il sapore della sabbia sul suo palato erano ancora incredibilmente reali. Per quanto ogni tanto la mancanza di casa fosse forte, era addestrato a non cedervi durante le missioni. A meno che non fosse incappato in un memento.
Non era nelle vie della Cupola imbrigliare il potere del Signore attraverso vie complesse o lesive: non sarebbero stati molto diversi dai magi. Nonostante talvolta lo stesso Tsekani fosse costretto ad ammettere che vi fossero delle eccezioni, la Santa Sede preferiva lasciare incontaminata e libera la Firma, incanalandola per mostrarne la bellezza, la purezza e il tocco del Creatore. L'uso dei memento era la più comune delle prassi difensive della Santa Sede per scoraggiare chiunque cercasse di ficcare il naso nei suoi affari. La gentilezza della Firma poteva arrivare al cuore di chiunque, alla loro mente, ai ricordi migliori. Una piccola spinta in grado di riempire la mente dell’intruso delle sue memorie più intense e svuotarla di quelle prossime, ad esempio i vari motivi per cui uno avrebbe potuto entrare in un'area protetta dal memento. Era anche molto utilizzato per rimuovere informazioni sensibili dagli stessi esecutori in situazioni “scomode”. Padre Tsekani ne aveva sempre apprezzato la delicatezza, ma non gli era mai capitato di finirvi coinvolto. Il suo crocefisso avrebbe dovuto avvisarlo.
“Puoi stare zitto per un maledetto minuto?” ringhiò in direzione del magus.
“Purtroppo per te, no. Finché rimani lì dentro sei a rischio di crollare un'altra volta, cacciatore seriale di gabbiani”.
A quelle parole, l’esecutore scrollò la testa.
Il maledetto gabbiano.
La finestra del salottino era senza dubbio quella in cui l'animale si era infilato, ma non ve ne era traccia nel suo campo visivo. Il viso di Freki decorata ogni singolo angolo della sua mente, quasi come un quadro moltiplicato in un vetro rotto, difficile da mettere da parte.
Si accorse di sudare per la concentrazione, e deglutì a vuoto.
Il potere dei memento era inversamente proporzionale al centro di protezione: il magus era al sicuro oltre l'ingresso dell'appartamento, ma se Padre Tsekani fosse andato verso le altre stanze dell'edificio avrebbe rischiato di venire aggredito da una seconda, più potente energia cancellatrice. Cercò di sincronizzarsi sulla lunghezza d'onda della Firma per entrarne in risonanza, ma l'energia intorno a lui era soverchiante.
Un altro sassolino gli volò vicino al naso “Fratacchione, guarda che se svieni non ti prendo in braccio e ti porto fuori. Potresti portare la tua grossa figura fuori di qui?”
Per quanto la voce del nuovo arrivato avesse qualcosa di insopportabile, parte della mente dell’esecutore capì che vi era un fondo di verità; i memento non erano pensati per lasciare coscienti coloro che li attraversavano. E, a giudicare dall’intensità del potere divino intorno a lui, chiunque avesse eretto una barriera intorno alla casa di Antonio Zurlì voleva essere ben sicuro che anche un uomo col rango di esecutore non potesse entrarvi senza un permesso.
Antonio Zurlí.
Si obbligò a tornare al ricordo di quell'uomo devastato, fatto a brandelli.
Era nella sua casa, nel suo piccolo squarcio di vita dove un magus aveva deciso di entrare e farvi il proprio nido. I magi, alla fine, erano tutti uguali. Anche Pontieri, al servizio della Chiesa, alla fine era andato ad infettare con la sua stessa esistenza quella di un uomo comune, trascinandolo con sé.
Si diede un pizzico pesante sulla guancia per costringersi a restare lucido, poi mosse un passo avanti, verso la cucina.
Lo doveva al vecchio professore ed al giovane Diego.
Gli insegnamenti della Falce della Luna erano assoluti.
Il giovane mago dietro di lui si schiarì la voce. “Sei uno a cui piace sfidare il destino, a quanto pare”.
Lo ignorò.
I conti con chiunque fosse quella mina vagante li avrebbe sistemati dopo.
Non fece in tempo a formulare il pensiero che con un tonfo l'asta che sosteneva la tenda davanti alla finestra crollò a terra, divelta dal muro. Sotto i suoi occhi, come mossa da una mano invisibile, la corda che regolava l'apertura del tendaggio si staccò dal tessuto quasi fosse un serpente Padre Tsekani fece d'istinto un passo indietro, maledicendo di non aver portato con sé la pistola, ma quando la spessa corda arrivò a poca distanza dal suo piede si fermò.
Sulla soglia della casa, un tintinnio lo costrinse a riportare l'attenzione sul giovane magus: stava giocherellando con una monetina, e un sorrisetto sornione gli era apparso sulla faccia. “E, a chi piace sfidare un po’ il destino, la fortuna si permette di dare una mano”.
Mormorò qualcosa tra i suoi incantamenti, e la seconda estremità della corda guizzò nella sua direzione. Il magus la afferrò e la assicurò al mancorrente della scala che portava al piano superiore. “Non ti offendi se non la tengo io, esecutore? Se provo a trascinare tutti i tuoi muscoli mi vengono quattro ernie!”
“Non sia mai che un magus fatichi…” sibilò Padre Tsekani, sollevando con rassegnazione la corda e stringendola con un doppio nodo intorno alla cintura.
Un flebile, timido angolo del suo cervello cercò di ricordargli che si stava spingendo dentro un memento con la sua unica via d'uscita collegata ad un magus sconosciuto, e che le ipotesi di uscita da quella situazione erano poche e potenzialmente problematiche.
Ad esempio, uscirne tutto intero e con un magus a cui dovere un favore.
O l'espulsione, se Padre Whiteflame fosse venuto a saperlo.
Forse l'espulsione sarebbe stata la conseguenza meno grave, e si augurò che la timida vocina nella sua testa fosse soltanto alimentata dal potere infinito del memento.
  
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