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Autore: lucille94    28/04/2024    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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La vigilia della giostra Clarice si svegliò alla prima luce del sole. Si levò dal letto con le trecce inanellate attorno alla testa, nastri bianchi come serpenti tra di esse, e si gettò all’inginocchiatoio che si trovava alla sua destra, sotto un crocifisso di legno ornato di dorature. Fissò gli occhi sul volto sofferente del Cristo, giunse le mani e sussurrò: «Mio Signore, accetta la mia penitenza e risparmia mio marito dai pericoli della giostra. Ti prego, guarda pietoso la tua serva, non lasciare che nulla di male capiti a messer Lorenzo domani». Poi, piegando la testa, riprese: «Madre di Dio, intercedete per lui davanti a Vostro Figlio e fate che esca sano e salvo dall’arena. Il mio cuore non sopporterebbe cattive notizie».

Quindi, fattasi il segno di croce, si alzò. L’idea del digiuno le era stata consigliata da sua madre Maddalena, che l’aveva prontamente comunicata ai parenti fiorentini con un tono orgoglioso e fiero. Erano una famiglia di condottieri e anche le donne erano avvezze al sangue, alla morte violenta e alle gravi menomazioni.

«Ma Lorenzo non è un guerriero!»

Clarice ribatté timorosa all’osservazione di sua madre quando, vedendola apparire vestita di un lungo e dimesso abito scuro, senza gioielli, le aveva detto che aveva preso l’impegno con eccessivo zelo.

«A questo serve il tuo digiuno, figlia mia: il tuo sacrificio sarà gradito a Dio e gli concederà la salute.»

Un sospiro spezzò il ritmo serrato dei suoi respiri. «Sacrificio?» balbettò. «Lo accolgo volentieri se ne risulteranno cose buone. Non ho paura di soffrire nel corpo, ma temo profondamente il dolore dell’anima.»

«S’intende, figliola, s’intende.»

Maddalena sembrava voler liquidare il discorso come se lo ritenesse di poca importanza. Meglio, le importava di certo che Lorenzo salvasse la pelle, aveva però una bassa considerazione delle velleità cavalleresche di quei mercanti arricchiti e non si soffermava a pensare che, trattandosi di giostra, erano contemplati tutti i pericoli di uno scontro armato. La sua bambina, quella bambina che aveva maritato recentemente al fiorentino, si angustiava per un nonnulla, ma avrebbe dato un’ottima impressione di sé a Giovanni Tornabuoni e a suo nipote Francesco, che erano attesi da un momento all’altro.

C’era però anche un altro significato della parola sacrificio che Clarice preferì scacciare subito lontano dai propri pensieri, ora che avevano così numerosi motivi per farsi cupi di per sé. Le era già capitato, quando si trovava sola, spesso a notte fonda, insonne, di sentirsi un’offerta votiva non dissimile da quelle che i pagani offrivano ai loro falsi dei. Nel suo caso, il dio potere, il dio denaro e il dio vanità, una Trinità blasfema che si personificava in un giovane sconosciuto, dalla fisionomia vagamente abbozzata tra fantasia e ricordo. Tuttavia, il solo balenare di quel timore la fece sbiancare ulteriormente: Maddalena non se ne accorse; Rinaldo, il giovane suddiacono suo fratello, sì. Avevano meno di un anno di differenza, caratteri opposti e profonda complicità. Rinaldo tacque, rivolgendole uno sguardo di incoraggiamento di nascosto dalla madre. Le avrebbe parlato volentieri in privato, se ne avesse avuto il tempo, ma i Tornabuoni lo anticiparono e Clarice, al loro arrivo, parve dimenticare ogni altra cosa.

Quando questi arrivarono, quasi all’ora di pranzo, Clarice li attendeva sulla soglia della sala. «Messer Giovanni,» salutò con una riverenza, «vostro nipote vi ha forse scritto qualcosa in vista della giostra?»

«Si dà il caso di no, madonna. Ma so che gareggerà con i migliori destrieri della penisola; nondimeno, Lorenzo ha un fisico robusto, cavalca dalla più tenera età e sa come ci si tiene in sella. Vedrete che vi farà onore e si meriterà il premio.»

«Non ne dubito affatto!» rispose, giungendo le mani. «Ma temo per gli incidenti che occorrono spesso nelle giostre. Prendete il Montefeltro ad esempio: un così grande condottiero, esperto di duelli più d’ogni altro, è rimasto ferito e sfigurato in volto. Molti altri sono… mio Dio… sono morti! Io sono molto in pena, sono giorni ormai che non dormo più, e so che non sarò tranquilla ancora per tanto tempo, perché le notizie viaggiano insopportabilmente lente quando qualcuno le aspetta con tanta premura quanta ne ho io.»

Giovanni scambiò uno sguardo con Francesco, poi le sorrise benignamente. «Anch’io ho partecipato a una giostra in gioventù e non ero ben fornito di mezzi e di fortuna come mio nipote. Non dovete temere, ve lo assicuro.»

Accettando con gratitudine i suoi incoraggiamenti, Clarice venne a una domanda che la torturava da quando aveva realizzato che i giostranti sono soliti scegliersi una dama per cui battersi. Il gioco impone che tale dama sia presente, e il fatto che lei non sarebbe stata a Firenze fino a giugno l’autorizzava a pensare che Lorenzo avrebbe ufficialmente combattuto per qualcun altro.

«Per chi scenderà in campo domani?» domandò, ma la voce le mancò e le parole uscirono dalle sue labbra come un sussurro soffocato. Ciononostante, Giovanni la sentì e, toccandosi i radi capelli grigi sulla testa, ammise: «Per Lucrezia Ardinghelli, madonna».

Sentendo le guance cambiare colore, Clarice ripeté quel nome trasecolando e Francesco, per trarre d’impaccio lo zio, si trovò costretto a dare spiegazioni più articolate. «La Lucrezia è figlia di un Donati, famiglia antica ma caduta in disgrazia; s’è maritata con l’Ardinghelli, Nicolò Ardinghelli, tre anni or sono. C’è chi dice che sia la donna più bella di tutta Firenze e vostro marito l’ha eletta a soggetto dei propri componimenti, sull’esempio di Dante e Petrarca, illustri poeti della nostra città.»

Il giovane non avrebbe potuto dire parole più schiette per definire l’ambigua relazione che legava il Medici all’Ardinghelli. Francesco, figlio di Filippo Tornabuoni, dimorava da qualche tempo presso lo zio paterno, ma non aveva ancora plasmato i propri modi sui diversi usi e costumi del popolo romano. Ciò che a lui appariva immediatamente come un servaggio amoroso dettato dal superiore amore per la poesia, tale non era nemmeno comprensibile a una fanciulla poco educata alle lettere e alla lirica volgare. Ella, infatti, aveva ora gli occhi velati di lacrime e la sua figura si era fatta ancora più minuta, con le spalle ricurve di tristezza. «Dunque, mio marito ama questa donna così bella…»

«No, no! Madonna, non si tratta dell’amore che intendete… Mio nipote non è un santo, ve l’ho già detto, ma non vi mancherebbe mai di rispetto a questa maniera», si affrettò a rincuorarla Giovanni, non senza scostare un poco il nipote Francesco che, suo malgrado, aveva rimediato al buco con una pessima toppa. Notando come, pian piano, il colore ritornasse sulle guance paffute di Clarice, aggiunse: «So che vi ha scritto di recente; vedrete che, passata che sarà la giostra, verrà qui a visitarvi senza indugio. E si preparano già le grandi feste per il vostro arrivo, e i migliori falegnami di Firenze stanno intagliando il vostro talamo nuziale. Quando sarete laggiù stenterete a credere ai vostri occhi per la meraviglia.»

Clarice afferrò delicatamente la coppa e bevve un sorso d’acqua come a schiarirsi le idee. Giovanni, che stava in piedi di fronte a lei, la imitò prendendo un goccio di vino rosso; quindi sbirciò verso madonna Maddalena, che se ne era rimasta da un canto, quasi pretendesse di non aver nulla a che fare con il colloquio, mentre in realtà non si era persa una sola parola.

«Messere,» intervenne, sentendosi interpellata, «mia figlia, vedete, è molto, troppo angosciata da questa giostra. Pensate che non ha toccato cibo dal tramonto in qua e dice che non mangerà neppure domani, che non ne avrebbe la forza!»

La ragazzina scosse un poco la testa, come a dire che un pensiero del genere non era venuto da lei, ma la sua paura era sincera, gliela si leggeva negli occhi verdi e languidi. Perciò Francesco Tornabuoni si sentì portato a replicare: «Mio cugino sarà molto commosso al conoscere il vostro attaccamento nei suoi confronti».

Non era questa una bugia inventata su due piedi per trarre la giovinetta dall’imbarazzo in cui l’impudenza della madre l’aveva precipitata: Lorenzo era stato molto chiaro nell’ultima lettera e, pregandolo di visitare la moglie nella vigilia della giostra, aveva espressamente richiesto una descrizione del suo stato e se davvero mostrasse qualche sorta di affetto verso di lui. Da parte sua, diceva lo sposo, c’era il più vivo interesse a costruire un rapporto buono nella speranza di mantenere i legami con Roma nel modo conveniente ai Medici. Anche Giovanni, in quel frangente, ripensò a quella missiva, constatando come Lorenzo fosse fin troppo razionale, in certi casi. Le sue parole non lasciavano trapelare alcuna cura per la giovane che aveva preso in moglie, eppure, conoscendolo, era un ragazzo franco, capace di esprimere i propri sentimenti con immediatezza e spontaneità: quale che fosse la sua disposizione nei riguardi di Clarice, non era dato saperlo. Era comprensibile, da un lato, che non avesse particolari stimoli da esternare; dall’altro lato, i due si erano già visti segretamente, si erano parlati. Nessuno sapeva cosa si fossero detti, ma lo zio sospettava che il nipote fosse almeno un po’ curioso di vedere di persona com’era cresciuta, questa fanciullina romana. E costei, nel manifestare il suo dispiacere alle mancate visite e la sua apprensione per la giostra, tradiva più del semplice attaccamento che può derivare da un legame matrimoniale contratto per ragioni politiche.

Quando, una manciata di minuti più tardi, lasciarono il palazzo degli Orsini, insomma, Giovanni e Francesco Tornabuoni avevano tanti ottimi spunti per scrivere una lettera dai toni incoraggianti.

*

«Come sarebbe a dire che l’hai già incontrato?!»

Gli occhi chiari di Rinaldo splendevano della curiosità maliziosa di chi non si sarebbe aspettato una simile rivelazione. Avevano atteso che i Tornabuoni scomparissero dalla vista prima di ritirarsi in privato, al piano nobile del palazzo, per parlare lontano dalle orecchie di quella pettegola della loro madre. Il sole inclinava al tramonto e la camera da letto di Clarice, che volgeva a ovest, era inondata da un’opaca luce aranciata che penetrava dallo spesso vetro dell’unica finestra. Sedevano sul letto, il camino acceso davanti a loro li scaldava a stento, per quanto si ingegnassero insieme di scegliere i ciocchi migliori da mettere a fuoco. Certo, però, che quando Rinaldo ebbe ascoltato l’ultima rivelazione della sorella, una gran vampa di calore gli era salita su dal petto fino alla radice dei capelli: interromperla era stata l’unica cosa che avrebbe potuto alleviare un poco l’improvvisa necessità di sfogare ciò che avrebbe definito al confine tra spavento ed eccitazione.

Clarice, dal canto proprio, vedendo arrossire il fratello e sgranare gli occhi e pendere dalle sue labbra, pensò che lui volesse giudicarla per una ragazzina senza morale e si affrettò a giustificarsi: «Aveva il mio guanto, ho dovuto fermarmi a ringraziarlo!»

Non avrebbe potuto intendere diversamente l’esclamazione del fratello minore. Abbassò lo sguardo e si prese le mani una nell’altra mordendosi il labbro senza accorgersene, rigirando l’anello nuziale che le ornava il dito da poco più di un mese; ma Rinaldo era più che mai assetato di informazioni e, di fronte al suo silenzio, insistette: «La mamma non sa niente, pensa se le giungesse la voce! Clarice che parla con Lorenzo de’ Medici e questi nel giro di un anno la chiede in sposa».

«Guarda che gli ho solo detto “grazie”. Non gli ho chiesto nemmeno chi fosse, è stato lui che ha voluto dirmi il suo nome. Fosse stato per me io…»

«Tu te lo saresti fatto sfuggire perché sei vergognosa!» la prese in giro lui. «Per fortuna lui ha fatto in modo di procurarsi il tuo guanto, altrimenti chissà come sarebbe andata a finire.»

«Lo pensi anche tu, dunque? Che l’abbia fatto apposta a farsi trovare con il mio guanto?»

«Poco ma sicuro! E ti ha pure detto il suo nome. Secondo me gli piaci.»

Clarice arrossì più violentemente di prima. «No, non può essere. Aurante è di tutt’altro avviso!»

Rinaldo roteò gli occhi verso il cielo, poi, dopo un sospiro pieno di pazienza, le fece notare che la loro sorella maggiore non sapeva nulla dell’incontro segreto. «Questo dà tutta un’altra luce alla faccenda!» concluse trionfante. «Nessuno ti può negare la bellezza, Clarice. E lui se ne intende, perciò ti ha preso in moglie senza troppe esitazioni.»

Il vocio della strada che correva sotto la finestra si impose da protagonista nel silenzio che chiuse l’ultima affermazione del giovane suddiacono. Poco lontano si trovava la via dei fabbri, sicché, cadenzati come tanti tamburini metallici, tintinnavano i martelli contro le incudini. Nondimeno, in altre stagioni la via principale era percorsa da carri e persone di ogni ordine e ceto e poteva capitare di sentire una varietà di parlate da far invidia al porto di Napoli o di Genova. Nel pieno inverno, però, l’afflusso di gente era fortemente ridotto, l’aria era ferma nel suo gelo con l’eccezione di sporadiche soffiate di vento che spazzava lo sterrato, tale che, oltre ai solerti fabbri poco distanti, si udiva di tanto in tanto qualche donna intonare una canzone o un ragazzo condurre le oche, e uomini chiacchierare degli affari che avrebbero intrapreso nella primavera ventura.

«Sono pur sempre un’Orsini», ribatté Clarice alla fine, senza smorzare un pizzico di altezzosità nella voce. Suo fratello annuì, distese bene le mani sulle ginocchia e rispose: «Certo, il nostro nome attira i nuovi ricchi come il miele attira le mosche. Ma non sono loro gli unici che ne traggono vantaggio».

Nonostante la sicurezza che vibrava nel tono di Rinaldo, cosa che solitamente contribuiva a confortarla, Clarice avvertiva dentro di sé lo stesso smarrimento di prima, come se nulla fosse cambiato. Piegò il capo svogliatamente su una spalla, sospirò e tese immediatamente le labbra. Suo fratello, accorgendosene, le prese delicato la mano e gliela carezzò pian piano. «Che cos’è quel visino tutto mogio, mmh? Dimmelo, Clarì, che non sopporto di vederti così», sussurrò al suo orecchio, benché nessun altro fosse presente. Lei soffocò un singhiozzo, si tamponò la guancia con la mano libera e confessò: «Una volta Aurante m’ha spiegato che cosa un uomo si aspetta da sua moglie e… Io sapevo già che i bambini vengono se gli sposi dormono insieme, ma…»

«Ma non ti aspettavi che ci fosse bisogno d’altro. Di toccamenti, di baci e di amplessi. E sentiamo, che cosa t’ha detto di preciso?»

Prima di riferire, con la precisione di una memoria suggestionata, tutte le indicazioni ricevute dalla sorella maggiore, Clarice dedicò un lungo sguardo alle vesti di lui, che erano quelle austere di un giovane uomo di Chiesa. Esitò, temendo che argomenti del genere fossero un invito al peccato di lussuria per un ragazzo come Rinaldo, ma, dato che insisteva senza demordere, decise di sciogliere gli indugi. «Lorenzo… Lorenzo ha già praticato con donne, perciò debbo essere pronta a… A fare ciò che mi dirà. Sempre rispettando la morale, certo. Per esempio, se mi volesse fare qualcosa che è peccato grave, io gli devo dire che no, non voglio; e per il resto ho da star buona, silenziosa il più possibile e ferma, per non fare guai.»

«Sì, così penserà che sei una statua o peggio, un cadavere. Proprio un bel divertimento, non c’è che dire», rise Rinaldo, interrompendola senza potersi trattenere. Ma Clarice, imperterrita, riprese: «E ha detto che i maschi sono buffi a vedersi, sono strani. Mi ha raccomandato di non mettermi a ridere quando lo vedrò, ma nemmeno a piangere di paura. Credo che chiuderò forte gli occhi e gli lascerò fare ciò che vuole, a patto che faccia in fretta.»

Il buon suddiacono, invece che darle ragione appellandosi alla virtù della pudicizia, si profuse in un duro rimprovero: «Clarì,» esordì con il piglio di un maestro, «se farai così, tuo marito si pentirà di averti sposato, e ne avrà tutte le ragioni. Per cominciare, lui sa, spera che tu sia illibata, che tu non abbia mai veduto altri uomini e che non sappia da che parte prendere la faccenda. Non mostrarti paurosa, ma solo timida; non impertinente, ma curiosa; non ostinata, ma ritrosa. Gioca con lui, se lui vorrà giocare. E se ti parrà di andare troppo di fretta, distrailo senza infastidirlo. Non dargli sempre quello che chiede o penserà d’aver a che fare con una serva che può governare a proprio piacimento, ma non negarti mai del tutto perché, a forza di no, lo spingerai a cercare chi gli dirà sempre di sì. Intendi?»

A un cenno affermativo, continuò: «Finché sei giovane, Clarì, sii anche piacente. Sì, può darsi che commetterai qualche peccatuccio con tuo marito, e dunque? Nessun mortale è immune dal peccato, per cui non condannarti a una vita di perpetua penitenza. Se poi tuo marito ha tanta esperienza, di certo saprà che anche la femmina vuole la propria parte; da ciò che si dice è generoso e non ti negherà quel che ti spetta».

Come sovrappensiero, in realtà profondamente concentrata, Clarice si levò in piedi e andò a guardare dalla finestra il panorama di tetti e di colonne di fumo che salivano verso un cielo bigio che sembrava raccoglierle tutte come il mare raccoglie l’acqua di ogni fiume senza badare alla sua provenienza. E così il fumo dei palazzi dei nobili si mescolava senza distinzione a quello delle baracche dei popolani a monito dell’uguaglianza di tutti gli uomini, similmente a quanto fatto dalla peste a partire dalla metà del secolo precedente. Accantonando le cupe riflessioni che l’inverno e l’educazione religiosissima le avevano sempre ispirato, Clarice osò spingere più in là lo sguardo, oltre le mura della città, oltre le colline, i boschi e i campi coltivati, quasi oltre il cielo; piegò quindi lo sguardo a destra per inseguire il nord perché laggiù, da qualche parte, c’era Firenze e con essa Lorenzo.

«E quella Lucrezia Ardinghelli?» domandò allora, fingendo indifferenza, mentre le braccia che teneva conserte si stringevano più vicine al suo seno. Rinaldo fece spallucce. «Non mi preoccupo di lei; a tuo marito piace? Che gli piaccia! L’importante è che tu sia la sua donna e nessun’altra possa rivendicare i tuoi diritti per suoi.»

Nel tentativo di rilassarsi, si scelse una ciocca rossa di quelle che, per noncuranza, erano sfuggite alla treccia e vi girò attorno l’indice mentre, non vista, si mordicchiava ancora il labbro. «E com’è questo Medici? Non me l’hai ancora descritto bene…», fece Rinaldo, per non lasciare che si crogiolasse in un germoglio di gelosia.

Clarice prese un lungo respiro. «Lorenzo è alto, più alto della maggior parte degli uomini ch’io abbia visto finora; più alto anche dello zio Latino.»

«Così alto?!»

«Sì, credo di arrivare alla sua spalla, su per giù. Ha le spalle larghe e il petto ampio.»

«Così non c’è rischio che tu sia più alta di lui! T’immagini come sarebbe bizzarro a vedersi?» scherzò, dato che sua sorella non era affatto piccola di statura, per quanto invece fosse minuta di costituzione. Nell’insieme, il suo corpo aveva un’apparenza leggiadra ed elegante e il suo portamento apportava quel tocco di nobiltà che la distingueva dalle altre fanciulle di buona famiglia; cosa che, certo, aveva avuto effetto sia su Lorenzo sia su sua madre Lucrezia, per cui aveva scritto di lei: “Non credo che costì sia al presente più bella fanciulla a maritare”.

«E il volto?» riprese poi Rinaldo, piegandosi a poggiare i gomiti sulle ginocchia.

«Ecco…» esitò lei. «Ha folti capelli neri che tiene lunghi, secondo la moda, e gli occhi ugualmente neri. Ha il naso un po’ storto, in verità, e come schiacciato. Non lo definiresti un bel giovine se lo vedessi. Eppure…»

«Eppure…?»

«Ha uno sguardo così intenso che sembra quasi conoscerti già prima ancora di parlarti e, quando ti parla, è proprio come se avesse sempre saputo come farlo. Con me, per esempio…»

Stava per rivivere quel momento ed ecco, come per incanto, se lo vide davanti come quel giorno di Pasqua di due anni prima. Aveva in mano il suo guanto nero orlato di ermellino, glielo tendeva sorridente, accennava un inchino e restava lì, in attesa. “Buona Pasqua di Resurrezione, madonna”, le diceva. Ma questo a Rinaldo l’aveva già raccontato; non era stata invece del tutto sincera su quello che era seguito. Aveva omesso alcuni particolari, alcuni discorsi che forse avrebbe fatto meglio a confidare a qualcuno, o le speranze che ardevano nel suo cuore al solo ricordo avrebbero potuto scottarla.

«Quando ci siamo incontrati, lui…» riprese, ma di nuovo la potenza della memoria la richiamò indietro, facendole perdere il filo. Lorenzo la guardava con quegli occhi neri che, da soli, parevano governare ogni cosa attorno a lui. Il fascino che prorompeva dalla sua figura la ammaliava ancora e lei restava così, le labbra schiuse per lo stupore, ad ascoltarlo. Nell’attimo in cui lui si apprestava a parlarle, la porta della camera si aprì all’improvviso.

«Clarice! Hai da provare l’abito di broccato, sbrigati a scendere che stiamo tutti appresso a te.»

Sua madre balenò sulla soglia prima che la porta si richiudesse pesantemente al suo partire. La ragazzina, reduce da uno spavento reso ancor più crudo dallo stato sognante cui era stata strappata, s’accorse di essersi portata una mano al petto e, a malincuore, ricacciò il ricordo là dove usava stare quando non aveva modo di distrarsi. Rinaldo, indispettito dall’interruzione e dalla curiosità rimasta insoddisfatta proprio quando credeva che sarebbe stata saziata, sbuffò e picchiò i pugni nel materasso, quindi si alzò, scese dalla pedana in legno su cui poggiava il letto e raggiunse l’uscio. Lo scostò piano per farsi precedere e lei lo superò camminando a testa bassa, obbediente e triste al medesimo tempo.

 

   
 
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