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Autore: ClaudiaSwan    21/09/2009    10 recensioni
L’amore è sempre
pronto a resistere a qualsiasi tempesta… La morte è una tempesta abbastanza
forte da spazzarlo via? no… non per me… altrimenti non sarei qui…ma l’amore è
anche pronto sul serio a rinnovarsi e a far spazio a nuovo amore?

La certezza degli
occhi di Robert fissi su di me mi fa sperare di si. Che l’amore nuovo si
affianchi a quello vecchio senza coprirlo mai.

Robert.
Alessia.
Lui inglese, lei italiana. Lui attore sulla cresta dell’onda,
lei aspirante fotografa di successo. Lui tradito dalla sua ragazza, lei
innamorata di un angelo.
Lui che non ha idea di cosa sia veramente l’amore perché non
è mai stato veramente innamorato e lei che di questo sentimento sa tutto, anche
la parte più dolorosa.
Alessia e Robert vivono due vite completamente diverse,
hanno sogni completamente diversi, esperienze totalmente diverse. Eppure hanno
un punto in comune: Mattew Holsen, un nome che per tutti e due significa
tantissimo. E sarà proprio lui a metterli insieme, a far combaciare due anime
completamente differenti ma bisognose di sentimenti forti e veri, a mettere in
discussione le certezze più profonde e radicate in loro, a fargli scoprire che
sono due pezzi di un unico puzzle e che l’incidente stradale che li ha fatti
incontrare… non era altro che il destino che bussava alla loro porta cercando
di essere ascoltato.
Una storia in due pov, che amo e che cresco come un figlio. Ho
cercato di rendere Robert più possibile vicino a come penso sia nella realtà,
prendendo spesso spunto da fatti veri della sua vita ma prendendomi anche delle
piccolissime licenze poetiche. Questo è il mio Robert.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'ubi tu Gaius, ibi ego Gaia'
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capitolo 5 Lo so che vi ho fatto aspettare un pochino, e sicuramente coloro che seguono anche la mia ff "the Saint Katrine" stanno seriamente considerando l'idea di mettermi davanti a un plotone di esecuzione perchè non riesco ad aggiornare spesso. il fatto è che questa ff mi prende talmente tanto che la mia testa va sempre qui. chiedo scusa, e ribadisco che, in un modo o nell'altro terminerò tutte le mie ff. per quanto riguarda le recensioni... continuate così! sette sta volta :) 8 se considero una che è stata inserita nel penultimo capitolo dopo la pubblicazione dell'ultimo. grazie grazie grazie grazie grazie! :) ultimo appunto. una persona, anche solo una, potrebbe gentilmente mettere questa ff tra i preferiti? sapete com'è... sono 17...e dato che inizio a studiare già per gli esami non vorrei che portasse sfiga :P!!!XDXDXDXD

recensioni:
winniepoohina:  faccio che rispondere a entrambe le recensioni che hai scritto, anche quella che hai messo sul chap tre. Inizio col dare il benvenuto anche a te tra le perosne che continuano a recensire le mie storie e col dirti che sono molto contenta del fatto che tu segua questa ff. Non ti preoccupare per dove hai sistemato la mia storia per questioni di tradizioni tue :) sono già soddisfatta abbastanza da averti colpita tanto da considerarla una delle tue preferite. che dire? la signora Cope...che schifo, la pensiamo tutti allo stesso modo e Matt....ah...che ragazzo è Matt? giuro che tra Rob e Matt... un pochino sarei indecisa :)

fierons: ehi :) ciao! rispondo a te per Gray's anatomy, dicendoti che non è quella situazione. infatti Matt le risponde "non alla Gray's anatomy" quindi don't worry. non morirà più nessuno  e Matt poveraccio ha già dato :P

EmilyAtwood:  benvenuta anche a te :) e che dire? sono contenta del fatto che ci sia qualcuno pazzo quanto me da leggere ff in piena notte mentre tutti dormono col rischio di sbellicarsi dalle risate e svegliare tutti :) se mia madre mi scoprisse sicuro che mi ammazza! l'idea del fidanzato morto e di rob che ti accompagna dal meccanico... si è insolita... forse è segno che il mio unico neurone ha iniziato a dare segni di squilibrio...ma se questo fa contenti i miei lettori... non è un neurone poi così matto no?

satyricon:  io rido da sola ogni volta! mi è venuta in fase di correzione della bozza sta cosa di Edoardo Culo. mio padre stava seriamente pensando di portarmi in una clinica psichiatrica perchè non la finivo più di ridere come una matta da sola davanti a pc! purtroppo ( o per fortuna) la foto della signora Cope non esiste... me la sono inventata di sana pianta. ma se troverò mai qualcuna che possa assomigliarci, per gli amanti dell'horror non esiterò a postarla al fondo di  un capitolo.
per quanto riguarda il tatuaggio, pubblicherò la foto più avanti, quando ale ne spiegherà il significato.

sorellina mia deb: senti! vuoi dire che questo Matt... non diciamo per favore!!! quella scena... eh arriverà :) te l'ho promessa e prima o poi arriverà... fra un pò di capitoli però

mikki: emmm no... niente brutte malattie per Matt :) guardo troppi film strani ed è per questa insana passione che ho partorito un'idea così strana come quella dell'angelo. Matt si è dato proprio alla pazza gioia in quanto a cretinate in quel capitolo lo ammetto...credo di farlo continuare su questa linea ancora per un pò :P

sweetcherry:  la prima a recensire l'ultimo chap!!! :) il numero uno mi ha riempito di gioia lo ammetto :) ho scioccato anche te con la faccenda dell'angelo??
e lo so ...anche a me dispiace per Matt e Ale... :'( e tanto anche perchè si amano ancora e tanto...non riescono a lasciarsi andare via...però purtroppo sono cose che possono capitare...e mi piace pensare che ad alcuni... possano capitare cose di questo genere...almeno nei sogni...


 




Robert pov: hanging by a moment

Più ci penso e più mi dico: Robert ma che cazzo stai facendo? Si perché non è normale che mentre lei è nel retrobottega a sistemare tutto per chiudere il negozio, io stia pensando a come chiederle se vuole uscire con me stasera. Non è per niente normale.
Assolutamente è proprio fuori dal mondo che io la serata l’avessi passata a guardare il fanale rotto della mia porche e la sua firma sulla mia copia del foglio dell’assicurazione, fermo come un fesso nel garage dell’albergo. Dovevo starmene chiuso nella camera dell’hotel che avevo preso, svuotare il frigobar di ogni goccia di alcool al suo interno e poi ordinarne dell’altro ancora. Dovevo starmene sul letto al buio incazzato come una belva con Kristen, maledirla in tutte le lingue del mondo che non conoscevo (all’occorrenza me le sarei inventate) e dovevo pensare a tutti gli epiteti ingiuriosi e offensivi, assolutamente poco galanti, da scagliarle contro. Ma io? Io no. Io non riesco a fare la parte del patetico fidanzato cornuto che ha lasciato la stronza autrice del tradimento, tra parentesi senza  avergliene dato
ancora cognizione. Io non la penso proprio. In questo esatto momento potrebbe essere li li per lanciarsi nel cratere di un vulcano e a me non me ne potrebbe fregare di meno.
Amavo Kristen…amo Kris…o almeno…credo. Prendetemi pure per il culo quanto volete, ma dopo aver fatto il vampiro innamorato due volte, ed accingermi a farlo una terza, per di più sempre con Kristen, follemente innamorato della sua Bella, disposto a cambiare anche la sua stessa natura per amore di lei…posso dire con assoluta certezza, alla luce della realtà della mia recente vita sentimentale, che io dell’amore non c’ho capito una sega. E si, confesso. Nonostante abbia strastudiato i testi di Stephenie Meyer, persino quelli inediti, letto e riletto tutti i classici romantici che conoscevo, piangendo come un dannato quando toccò a Romeo e Giulietta, e nonostante abbia chiesto le traduzioni di alcuni libri dall’italiano all’inglese di un  tale Moccia (che permettetemi di dirlo, se avete una copia dei suoi libri bruciateli all’istante o vi depenno dall’elenco delle mie fan, perché una tale quantità di stronzate nel giro di più o meno 200 pagine non si erano mai sentite)…io posso dire di non aver capito veramente una sega di questo sentimento. Cioè, io leggo i guru dell’amore, li rileggo ancora, arrivando ad avere quasi una crisi d’identità quando leggo di Elizabeth Bennett…passo metà delle mie giornate sulla carta stampata per non capirci un cazzo.
Dopo ore e ore seduto per terra, roba da farsi venire il culo quadrato, a guardare quel fanale rotto, ho iniziato a rendermi conto dell’assurdità del mio comportamento, e da bravo psichiatra di me stesso, e ormai drogato di romanzetti d’amore, sono arrivato a domandarmi il perché. E la domanda, inevitabilmente, mi ha portato a riflettere su quello che provassi per Kris. E da li, purtroppo per me, a considerare cosa intendessi per amore. Ma come rispondere in tutta sincerità a questa domanda? Potevo rispondermi che per me amore era pensare continuamente a lei, desiderarla fino a dover ricorrere a cento e una doccia fredda al giorno, considerare sacri i sabati e le domeniche per portarla fuori e farle qualche regalo di tanto in tanto. Oh si, poi la gente dice che c’è anche quella piccola cosa del dialogo, che io e Kris proprio non avevamo. Forse la mia a me stesso è stata una risposta del tutto convenzionale, insomma…quella che la gente si aspetta. Pensi amore e vedi un cuore enorme con dietro un preservativo o una pillola, piazzati li dai farmacisti per sponsorizzare il sesso sicuro. Questo è l’amore. o forse no? boh! Sta di fatto che la mia concezione malata di questo sentimento strapubblicizzato, straparlato, strastigmatizzato prevedeva che io quella sera la dovessi passare a crogiolarmi nella mia depressione per il tradimento subito. Parola d’ordine era: pensare a Kristen.
Ma io che faccio? Nonostante questa seduta con me stesso degna di uno strizzacervelli, in cui cerco di sottomettermi riluttante alla comune regola del buon fidanzato tradito, io che faccio? Continuo a pensare a chi? Ad una stronza acida che mi ha distrutto la macchina rovinando il mio brillante piano di fuga dal mondo. Volevo andarmene in esilio da qualche parte, e lei decide di venirmi tra capo e collo con un carretto della preistoria con anche il coraggio di chiamarla ‘macchina’.
Era una cosa totalmente, innegabilmente, assurdamente senza senso. Quegli occhi verdi dalle pagliuzze blu cobalto continuavano a balenare nei miei pensieri senza un motivo.
Quando avevo chiamato la concessionaria per spiegare il fatto, mi risposero che avrebbero pensato a tutto loro. Io avrei dovuto solo riportare la macchina o chiamarli perché qualcuno se la venisse a prendere e per me i problemi sarebbero finiti li. Ma io cosa faccio? La chiamo, le chiedo se posso passarla a prendere per portarla da un meccanico e togliermi l’assurda preoccupazione che quel vecchio macinino le esploda sotto i piedi mentre gira ignara dei pericoli che corre.
Oltre che cornuto sono anche ufficialmente pazzo.
E così, eccomi…con le mani in tasca a guardarmi i piedi mentre lei sistemava per la chiusura.
“Matt piantala!” dice alterata. La porta del retro è socchiusa, probabilmente sta parlando al telefono. Poi abbassa la voce e continua con strani sussurri indistinti.
Matt. Ogni volta che sentivo il nome ‘Matt’ mi veniva da sorridere. Per me ‘Matt’ rimandava necessariamente a ‘Tower House Preparatory’ e di conseguenza a ‘lezioni di musica’ per poi finire con ‘pianoforte’. Semplice agglomerato di parole per chi non sa chi è ‘Matt’.
Matt era il mio fidato compagno di monellate delle elementari, il mio migliore amico. La Tower House non era stata più la stessa senza di lui, o meglio, non era stata più la stessa per me.
Era una scuola maschile, frequentata solo da ricconi snob che ogni cinque secondi si sistemavano il cravattino e portavano la cartella di cuoio a mano. Io e Matt eravamo dei ricconi squattrinati, l’ultimo anello della catena alimentare in quella scuola di piccoli lord. Come sia possibile questa antitesi ve lo spiego subito. Ricconi perché i nostri avevano i soldi per mandare noi e i nostri fratelli e sorelle in scuole private di alto livello; squattrinati perché, essendosi fatti da soli, non essendo eredi di chissà quali fortune, ci avevano insegnato fin da subito ad avere rispetto per il denaro, guadagnandocelo portando a spasso cani, lavando macchine e consegnando i giornali la mattina. Noi non portavamo mai la cravatta, sulla spalla destra avevamo sempre uno zaino pieno di scritte fatte con il bianchetto e i nostri voti a scuola erano pessimi. Avevamo vinto anche dei premi importanti come “il vincitore del primo premio per il banco più disordinato del terzo anno” per me e “il vincitore del primo pieno per il maggior numero di lezioni passate in infermeria del terzo anno” per lui. L’unica cosa per cui entrambi andavamo matti e seguivamo con dovizia e diligenza, era la lezione di pianoforte. Passavamo ore e ore a casa mia o sua a suonare a quattro mani o a turno, a fare parodie musicali dei classici e ridere come matti quando la vicina, con le palle piene per tutto il trambusto che facevamo, ci veniva a minacciare con il matterello sulla porta di casa.
Quella passata con Matt era stata senza ombra di dubbio la parte più bella della mia infanzia. Ero quasi caduto in depressione quando lui si trasferì, per quanto sia possibile farlo per un bambino di dieci anni. Suo padre era entrato a far parte come socio di un grande gruppo finanziario e aveva trasferito famiglia e affari a New York.
Non avevo più sentito Matt. Una volta, quando avevamo circa sedici anni ci ritrovammo per caso. Lui era tornato a Barnes per il funerale della nonna paterna e me lo ritrovai bagnato fradicio sulla porta di casa mia alle otto del mattino, scatenando bestemmie in me che avrebbero tirato giù tutti i santi e i beati del paradiso.
“hai ancora l’avversione per il pettine la mattina Rob?” mi chiese quando ancora in pigiama e gli occhi gonfi di sonno gli aprii la porta, già pronto a pestare a sangue il disturbatore indesiderato.
“ e tu dormi ancora con il cappello in testa per non farti gonfiare i capelli?” gli chiesi abbracciandolo, fregandomene del fatto che fosse inzuppato d’acqua fino al midollo e mettendo da parte tutta l’ira che mi si era già accumulata in punta di lingua.
Quei sette giorni furono di nuovo i più belli che avessi mai vissuto, recuperammo tutto il tempo perduto. Mi raccontò tutto della sua nuova vita, e di come suo padre lo spingesse già a scegliere il college, nonostante mancasse ancora un anno, che voleva fare il fotografo, ma che sempre suo padre non faceva nulla per incoraggiarlo e sostenerlo. Doveva diventare un broker, il suo vecchio l’aveva già deciso.
Io gli raccontai del teatro, della fidanzata che da poco avevo, ma che tutto mi sembrava tranne che una fidanzata, delle proposte cinematografiche che mi erano arrivate…ci raccontammo e non ci trovammo cambiati di una virgola. Suonammo ancora a quattro mani e tentammo un nuovo esperimento: lui suonava il piano e io strimpellavo la chitarra, il mio nuovo amore.
Quando quasi tre settimane fa arrivai a New York per Remember Me lo cercai, ma il suo nome non compariva sull’elenco. Provai a cercare quello dei suoi, ma mi riagganciarono il telefono come dissi il nome del figlio. Doveva avercela fatta a staccarsi dal padre se questo mi aveva chiuso il telefono in faccia quando lo nominai. Chissà ora che stava combinando…
“ok andiamo” dice Alessia sbucando fuori dalla porta, con il viso immerso nella sua borsa, distogliendomi dai miei pensieri.
La aiuto a chiudere il negozio evitandole di prendere il gancio per tirare giù la saracinesca e poi la guardo. Ha un sorriso radioso in volto. Nulla a che vedere con lo sguardo incarognito che aveva il giorno dell’incidente.
“allora? La chiamerai?” chiede infilandosi gli occhiali da sole.
“ma chi?” chiedo cascando dalle nuvole.
“la nipote della signora Cope, no?”
“oddio, no!”. Rabbrividisco istintivamente tirando fuori la foto più orrenda della storia. Un pachiderma di cellulosa a cavallo di una motocicletta con tutte le vergogne al vento. Di certo non era il genere di foto che ridava la vista ai ciechi! Manco mezza diottria! Passo ad Alessia la stampa e lei la allontana da se stessa con una mano aperta “ti prego, io per oggi ne ho già vista abbastanza di sta roba” dice con faccia schifata. E come darle torto?
“non vuoi condividere con me questo dolore?” le chiedo per scherzare un po’ con finta aria tragica.
“io penso che ognuno debba soffrire da solo in silenzio” mi risponde facendomi la linguaccia.
È strano. Molto strano. Per essere due che hanno fatto un incidente stradale nel quale si sono amichevolmente insultati reciprocamente solo il giorno prima, eravamo troppo amici. Scherzare e farsi le linguacce non era proprio la reazione più normale che uno dovrebbe avere in questi casi. Il tutto per la serie “le disgrazie uniscono”: essere due vittime della signora Cope, farebbe alleare anche San Pietro e Caronte. Va beh, io non facevo testo perché già dalla sera prima avevo dato segni di squilibrio mentale.
Camminava rilassata al mio fianco facendo oscillare la busta di carta che aveva in mano e rigirandosi in mano il cellulare. Forse non era una stronza, chissà magari anche la sua non era stata proprio una gran bella giornata quella di ieri. E poi…che dovevo aspettarmi? Da quando ci si scambia sorrisi e cortesia dopo che ci si è appena stampati?
Facciamo il giro dell’isolato e arriviamo al parcheggio del rudere. Vedere quella vecchia ford così fa molto Titanic sul fondo dell’oceano. Se ci fossimo messi sul cofano a braccia aperte a dire “Jack sto volando” non sarebbe stato poi tanto fuori luogo.
La povera macchina, quando Alessia schiacciò l’acceleratore, emise un gemito soffocato e io non potei fare a meno di trattenere un sorriso.
“dai piccolina, ti prego. Un piccolo sforzo. Ti sto portando dal dottore, non ce la fai proprio a metterti in moto?” sussurra tenera allo sterzo.
“non ci voglio venire dal dottore. Ho paura degli aghi” dico facendo il verso alla macchina.
“tesoro mio, lo vedi questo signore qua di fianco a me? ecco, fai un piccolo sforzo e sputalo fuori dal bagagliaio. È lui che ti ha rovinato il musetto, sai?” continua lei con una falsa espressione dolce dipinta in viso. Ok. Avevo trovato una più pazza di me: la donna che sussurrava ai catorci, altro che ai cavalli.
“ma che l’hai presa per Kit sta macchina? Sei tu quella che fa Super Car? E io che ho sempre pensato che fosse quello di Baywatch!” rispondo sbuffando, mentre lei cerca ancora di convincere la macchina ad accendersi. Ma questa, in tutta risposta, lancia un fischio e, dopo un sonoro Bang, inizia a mandare fumo dal motore. Piangiamo la morte della povera ford fiesta, che con così tanto coraggio ha macinato i suoi ultimi chilometri. Sai che roba, non trattengo le lacrime!
“anche questa no…” piagnucola Alessia sprofondando sullo sterzo. Per me no, ma di sicuro per lei la catastrofe c’è eccome.
“non c’è un meccanico qua vicino? Magari la possono portare in officina con un carro attrezzi” chiedo iniziando a guardarmi attorno dal finestrino. Casa, casa, casa, bar, casa, casa, cartoleria, lavanderia, casa, casa, casa, libreria, casa, casa. Niente meccanico. Scendo dalla macchina e vado ad aprire la portiera alla fanciulla, che ormai si era messa rumorosamente a tirare giù maledizioni da ogni dove, mandando a quel paese tutte le fusa già fatte alla sua vecchia macchina.
“dai piccola disperata. Andiamo a cercare un meccanico” gli dico porgendole una mano. La accetta e si alza. “non ne conosci nessuno qua in zona?” le chiedo di nuovo.
Lei si guarda un attimo intorno e dopo che le do un leggero colpetto per scuoterla, mi guarda smarrita, con gli occhi lucidi. “n-no…non ero io ad occuparmi di queste cose…Mat…non  ero io a occuparmi di queste cose” dice distogliendo lo sguardo. Il mento le trema le mani si stringono e si rilassano di continuo. Cerca qualcosa con gli occhi e non la trova. Oddio…forse era appena stata lasciata dal ragazzo. Ha detto ‘Mat’, forse quel Mat si occupava di assicurarle un motore funzionante sotto al sedere. Doveva essere fresca la cosa, perché tutti i sorrisi e la voglia di scherzare di prima, vennero oscurati con la mia semplice e banale domanda.
Inizia a camminare e io la seguo. Non alza mai lo sguardo da terra, e a qualsiasi domanda io le rivolga risponde con “si”, “no”, “a volte”, “mmm”. Si è rattristata, eppure non ho fatto chissà quale domanda. Ho chiesto solo che conosceva un meccanico! Chissà quale catena di pensieri e collegamenti aveva scatenato la parola ‘meccanico’ nella sua testolina.
Dopo circa un quarto d’ora di camminata a piedi, troviamo il tanto agognato carrozziere. “Da Pino”, con un insegna così doveva essere per forza italiano pure lui. Varchiamo la soglia del capannone e scopriamo che Pino è un signore sui quarant’anni, alto quasi due metri e grosso quanto un armadio. Folti capelli neri, mustacchi ben curati e mani sporche di grasso, si avvicina a noi.
“we, signorì, che poss fare pe voi?”. Trovare un pezzo di jeans immacolato sulla sua tuta è come cercare non un ago in un pagliaio, ma una capocchia di spillo in un pagliaio.
Alessia fa per tendergli la mano e Pino sta per stringerla quando si ferma con la mano a mezz’aria e la bocca aperta. Ci siamo. E che posso mai andare da qualche parte senza essere riconosciuto io? ovviamente no. Coraggio Rob, armati di santa pazienza e preparati a firmare autografi e fare foto da appendere nella bacheca dell’officina.
“Santa Maronn e San Gennar!” dice Pino, lasciando cadere a terra lo straccio che stava tenendo nell’altra mano. Rob, qua è peggio del solito, ma non potevo scegliere un altro carrozziere? Alessia lo guardava senza capire e teneva ancora la mano tesa in attesa di stringerla alla montagna con i baffi che, alto com’era, la faceva sembrare una lillipuziana.
“signorì! Che piacère conoscervi, è veramènte nu piacer!” dice Pino afferrando la mano di Alessia tra le sue e stringendola con vigore. Qua c’era qualcosa di strano. Cioè, questo coso conosceva lei e non cagava il sottoscritto? Cos’ha vinto il premio nobel per la fotografia? O per la pace? ha fatto qualche film che io non so? oddio, non sarà una pornostar, vero?
Alessia forse inizia a capirci qualcosa, perché diventa all’improvviso tutta rossa e inizia a guardare da tutte le parti tranne che la faccia di Pino. Ma che cazzo sta succedendo qui?
“signorì, me lo fate n’autografo?” chiede Pino trascinando Alessia per mano verso la gabbiola dell’ufficio. Lei mi cerca con lo sguardo e mi tende l’altra mano libera, che io corro a stringere, seguendola nell’ufficio.
Come varco l’ingresso non credo ai miei occhi: tre gigantografie di Alessia in intimo per “intimissimi”. Dovevo essermi perso un pezzo. Ma non lavorava per uno studio fotografico?
Lei era leggermente sconvolta. Non sapeva più da che parte guardare, anzi si. Guardava tutto tranne me.
“sono un vostro grandissimo fan, signorì. Mio figlio non fa che parlare di voi, sul serio, lo vulit canuscer?” dice Pino cercando una pennarello e porgendo ad Ale un ritaglio di giornale con una foto ancora diversa. Lei era quasi sull’orlo delle lacrime, il mento iniziava a tremolarle per lo sforzo di trattenersi. Pino la stava squadrando da testa a piedi con occhiate a dir poco lascive. Quando lei si piega sulla scrivania a firmare il ritaglio, lui malcelatamente si sporge a guardarle il sedere e i miei nervi arrivano al punto di rottura.
“signore, mi scusi. La signorina è la mia fidanzata, quindi la prego di evitare sia certi sguardi sia proposte di matrimonio da parte di suo figlio. Andiamo Ale” dico guardandolo con puro disprezzo e tirando via Alessia, che già iniziava a piangere, prima che riuscisse a poggiare la punta del pennarello sul foglio. Le circondo le spalle con un braccio e la trascino fuori dal capanno, a passo svelto per evitare che il meccanico porco esca dietro di noi. Appena girato l’angolo Alessia si stringe a me e inizia a piangere a dirotto, singhiozzando e inzuppandomi tutta la maglietta di lacrime. “shhh, tranquilla. È tutto a posto, tutto a posto. Sta tranquilla” gli sussurro all’orecchio tentando di calmarla. Lei continua a stringermi e a piangere. I singhiozzi la scuotono senza darle sosta e le sue mani si sono strette alla stoffa in una morsa che sarebbe difficile liberare.
“scu-scusa, Robert. Scusami tanto…non mi aspettavo che…”
“calma Ale…va tutto bene” le rispondo porgendole un fazzoletto che accetta esitante “posso chiamarti Ale, vero?”. Cerco di sorriderle, di rassicurarla.
“si, si…non ti preoccupare” dice asciugandosi le lacrime e rispondendo al mio sorriso.
“andiamo, ti porto a casa. Per la macchina non ti preoccupare. Ci penserò io, d’accordo?” le dico prendendola per mano e trascinandola via. Lei si lascia portare, dopo avermi detto dove si trovi casa sua. E’ a dir poco sconvolta. Non deve essere stato bello per lei fare un’esperienza del genere.
Quelle appese al muro di Pino erano delle gran belle foto, ad essere sinceri. Ovviamente non mi ero preso il tempo di studiarle con attenzione, ma anche se erano delle pubblicità, il modo in cui lui le guardava facevano intendere ben altro.

In pochi minuti arriviamo davanti alla porta del suo appartamento, all’ultimo piano di un palazzo in stile liberty, come ce ne sono tanti a Midtown. È una casa molto spaziosa, un attico. Molto accogliente. Si vedeva proprio che ci abitava una ragazza. Casa mia a Los Angeles era grande quasi quanto la sua ma sembrava quasi una sala operatoria tanto era fredda e poco vissuta.
La sua invece era calda. Entrando, sulla destra, teneva allestito un piccolo set per foto, ma a parte questo, tutto in casa sua infondeva calore e accoglienza. Fotografie di lei e di un ragazzo appese ai muri, un grande divano bianco dall’aria comoda, con qualche cuscino rosso qua e la. Ai suoi piedi, impilati con ordine, alcuni libri, di cui però non riuscivo a leggere i titoli sulle coste. Tutti i mobili erano in legno chiaro eccetto un pianoforte a coda lucido nero dietro al divano. Sopra vi erano un sacco di fogli sparsi, tutti scarabocchiati. Era anche una musicista?
Alzo la testa e mi trovo a guardare la ringhiera di un soppalco, e guardando il fondo della sala, vedo la piccola scala che porta al piano superiore.
“prego, accomodati” dice tirando su col naso e abbandonando borsa e chiavi vicino al camino. Si toglie le scarpe e inizia a camminare scalza strusciando i jeans sul palchetto. Si tira su i capelli e si avvia verso la cucina. “ti posso offrire qualcosa? Caffè, coca cola, tè…acqua…” mi chiede prendendo uno scottex per asciugarsi le lacrime.
Non so cosa mi spinge ad essere così con questa ragazza, forse perché la vedo dura e sagace per difendersi, essendo in realtà tanto sensibile da buttarsi giù per qualche foto. Forse perché la vedo rabbuiarsi di continuo abbassando tutte le sue difese...ma mi sento, ancora una volta inspiegabilmente, molto protettivo nei suoi confronti.
Mi avvicino a lei a grandi passi e la spingo a sedersi su una sedia alta vicino all’isola della cucina. “tu ora stai qui, ferma e tranquilla. Ci penso io a prepararti del tè. Ma quello vero inglese” dico facendole l’occhiolino, sperando di farla sorridere. Emerge dalle braccia con cui si era legata le ginocchia al petto e mi sorride. “il secondo armadietto in alto” dice tornando a sorridere.
“mmm…e i biscotti? Non è tè senza biscotti” le chiedo ancora prendendo la scatola del tè dall’armadietto.
“l’armadietto dell’isola” mugugna con la bocca coperta dalle braccia.
Prendo due tazze e le appoggio sul ripiano, aspettando che l’acqua che ho messo sul fuoco, si scaldi.
“ti devo essere sembrata una matta. Quale modella si mette a piangere per delle foto che ha fatto?” mugola ancora rigirandosi una tazza  tra le mani.
“non ho pensato nulla, Ale. Sul serio…” le rispondo. Chi più di me poteva capirla? Chi più di me poteva capire cosa volesse dire esser spogliato con gli occhi senza ritegno anche quando sei solo te stesso? Il mondo non lo sa. Vede queste belle foto, queste belle ragazze, questi bei ragazzi, ma si fermano all’aggettivo ‘bello’. Non pensano a chi sta dietro all’obbiettivo. Si fanno i loro film mentali per una vita intera, e quando ti guardano riesci a leggerglieli tutti negli occhi.
Pensando poi a Pino e a che film possa essersi mai fatto su quelle foto che teneva ingrandite al massimo, mi riempiva di disgusto.
Spengo il fuoco sotto l’acqua ormai calda e aspetto i famosi tre minuti di posa del tè.
“sul serio non dovrei piangere…è solo che non me lo aspettavo” dice portando una gamba giù dalla sedia, stringendone solo più una al petto e abbozzando un sorriso.
“quella è…è una marca di intimo prettamente italiana. Le foto le ho fatte per delle riviste italiane…non andavo mai a immaginare che le avrei trovate qui” continua smettendo di giocare con la tazza che non smetteva di rigirarsi tra le mani.
“Ale…i giornali italiani qui…” inizio a dire pensando alla little Italy.
“si lo so che li vendono. Ma sono vecchi scatti, li ho fatti più di un anno fa. Avevo bisogno di soldi e per me…è stato difficile arrivare a mettermi davanti ad un obbiettivo…per di più mezza svestita” dice imbarazzata tendendomi la tazza perché gliela riempissi. Faceva un po’ caldo per il tè, ma almeno calma sempre i nervi. Nonna Rachel lo diceva sempre.
“ immagino che non debba essere bello mettersi in intimo davanti ad un’intera equipe di fotografi quando si è pudici. Io già mi imbarazzo da vestito” dico prendendo un sorso e scottandomi inevitabilmente la lingua anche se ci ho messo il latte freddo dentro.
“no…” dice. Poi si apre in un sorriso, più rivolto a se stessa che non a me. “c’era solo Matt…è stato lui a fotografarmi”. Per un attimo la vedo perdersi in un mondo tutto suo. Ha detto quel nome con una tale dolcezza nella voce, come se lo stesse accarezzando, come se un’inflessione differente della voce avesse rovinato il suono per le perfetto di quel nome. Di nuovo mi venne da sorridere pensando al mio Matt. Quando Alessia mi vide sorridere subito si rabbuiò, e iniziò a guardare altrove.
Forse prima ci avevo preso a pensare che lui l’avesse lasciata. Eppure attaccate alle pareti c’erano un sacco di foto incorniciate di lei e di un ragazzo. Da come aveva pronunciato il suo nome era facilmente intuibile che lei fosse pazzamente innamorata di lui. Che io ricordi non credo di aver sentito mai Kristen pronunciare il mio nome con una tale tenerezza e commozione. E nemmeno ricordo di aver mai pronunciato io il suo allo stesso modo.
“comunque…è stato tanto tempo fa. Non pensavo nemmeno circolassero più quelle foto” taglia corto tornando alla sua tazza e prestando molta attenzione alla gocciola al cioccolato che ci stava inzuppando dentro.
Non sapevo cosa risponderle più. Prendo a far vagare lo sguardo per l’ampia zona living cercando di concentrarmi sui particolari. Volevo capire qualcosa di lei. Mi interessava leggere quel libro. Quelli con la copertina più strana si rivelano essere sempre i romanzi più belli mai scritti. Ed era chiaro come il sole che la copertina di Alessia aveva qualcosa che non attirava il lettore proprio come una calamita. Al di la dell’aspetto fisico, intendo, è chiaro. Da quel lato, la copertina era…ah…come definirla? La parola “bella” non le rendeva giustizia. Come nemmeno la parola “fantastica”, “meravigliosa”…era un vero e proprio miraggio. Venere, a confronto sarebbe impallidita. Se Botticelli l’avesse conosciuta avrebbe scelto lei per fargli da modella nei suoi quadri.
Comunque…lasciando perdere le copertine, altrimenti la parte più oscura di me si sarebbe messa senz’altro a non essere da meno di quel Pino, mi concentrai sulle foto alle pareti. Vicino alla finestra alle spalle di Alessia, c’era un gruppo di quattro foto, tutte in bianco e nero, a cornice spessa e scura, con l’immagine più piccola centrata che attirarono la mia attenzione. Mi concentrai a tal punto che dalla distanza a cui ero potevo distinguere chiaramente i tratti del viso del ragazzo che quelle foto avevano immortalato. Cappelli spettinati neri, occhi scuri, tratti non troppo marcati…spalle larghe…Oh. Mio. Dio. Se esisti mi stai pigliando per il culo.
“Ale…le hai fatte tu quelle?” chiedo indicando con l’indice le foto dietro di lei. Si gira un po’ di schiena ed annuisce. Mi alzo per andarle a guardare meglio e…santo cazzo! È lui. È Matt! Il mio Matt! Dov’è? quando torna? A già…io e il mio pensiero di Alessia lasciata da un ragazzo…ma se io fossi stato lasciato non avrei ancora tutte le foto della mia ragazza appese in giro, le farei sparire tutte. Io proprio non mi ero dato pena di appenderle quelle mie e di Kris. L’unica eccezione era stata quella dell’armadio e si è visto com’è andata a finire. Quindi lui doveva abitare li. Matt. L’ha detto! Lei l’ha chiamato oggi! L’ho sentita mentre diceva “Matt piantala!” al telefono. Anche prima ha detto Matt…ha detto che è stato lui a farle le foto. E guardando una foto sul piano di loro due assieme…cazzo! Alessia era la ragazza di Matt! Ero a casa di Matt! Avevo sfasciato la macchina di Matt!
“Ale…ma è Matt!” dico lasciandomi scappare una risata isterica. Lei, mi guarda a bocca spalancata, sorpresa. “è Matt, vero? Matt Holsen!”. Ma che glielo chiedo a fare? Lo riconoscerei tra mille.
“non ci posso credere! E io che ho provato a chiamarlo in tutti i modi! Ho provato a chiedere ai suoi ma non mi hanno risposto... Oddio, non ci posso credere! Ale… sei la sua ragazza, vero? Abitate insieme! Quando torna? quando arriva? Saranno più di sette anni che non lo vedo…dai dimmi dov’è che lo raggiungo” dico camminando a grandi passi per la stanza, non smettendo mai di torturarmi i capelli, passandoci di continuo le mani attraverso. Ma quando mi fermo, aspettando una risposta, vedo Alessia che guarda insistentemente fuori dalla finestra. Allora è vero…si sono lasciati…e magari lei non ha staccato le foto perché ci tiene ancora o…
“Ale…dov’è Matt?” le chiedo avvicinandomi e chinandomi sulle ginocchia davanti a lei. La faccio girare sulla base della sedia, per guardarla in viso. Lacrime silenziose, senza singhiozzi le scorrono sul viso. “Ale…” la chiamo. Ma lei continua a guardare fuori. “Ale, per favore…dov’è Matt?” la imploro.
Si gira, lenta. Mi guarda. Apre la bocca per parlare ma non esce suono. Dio, Ale…che stai cercando di dirmi?
“Matt…” sussurra. Le lacrime iniziano a scendere una dietro l’altra, senza sosta. Non si fermano. “Matt è…” cerca di continuare, ma non ci riesce. Matt è…perché quelle due parole dette con quel tono non mi ispirano niente di buono? La guardo, confuso, cercando di incoraggiarla a parlare, a dirmi dov’è il mio amico. “Ale…Matt è…?” sussurro prendendole le mani e serrandole nelle mie.
“Matt…non torna” sussurra. Ha cambiato casa, l’ha lasciata, cosa? Perché non torna?
“Matt è…” riprende ma ancora una volta il respiro le si mozza. Il mio cuore inizia a perdere battiti, inizia a sentirsi vuoto e capisco. Una lacrima già scende anche sul mio viso “…morto” sussurra. Morto…



Lo so ...anche questo finisce un pochino triste... ma purtroppo la prima perte della storia avrà delle ricadute di questo genere.
ora un pò di link. quello dell'abbigliamento è ovviamente quello del chap precedente :P  

Queste sono le foto di Ale appese in gigantografia sul muro dell'ufficio di Pino. il volto che ho preso per interpretare Alessia è della modella Irina Sheik, ossia quella che attualmente fa la pubblicità di intimissimi.
foto 1
foto 2
foto 3
e questa è quella che sta per autografare al signor porco Pino
http://3.bp.blogspot.com/_6iXZoDftbXk/SMOkZrTXLGI/AAAAAAAAAwo/kMcnYPt1SSY/s400/irina+intimissimi08autum4.jpg

ed ecco, infine, quelle che Robert vede nell'appartamento di Ale quando riconosce Matt
foto 1
foto 2
foto 3
foto 4
   
 
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