XVI.
« Le dieu d’Amour qui, l’arc tendu, s’était appliqué
à me poursuivre et à m’épier, était alors appuyé contre un figuier, et quand il
se fut rendu compte que j’avais ainsi choisi ce bouton, qui me plasait plus que
nul autre, il à pris aussitôt une flèche et il a tiré sur moi de telle façon
qu’à travers de l’œil il m’a planté la flèche toute raide dans le cœur ;
un froid me pénétra alors, dont j’ai ressenti depuis maint frisson sous ma
chaude pelisse.
Quand j’eus été atteint de la sorte, je suis tombé par
terre, à la renverse : le cœur défaille, et je restai longtemps sur place,
évanoui. »
Il dio
d’Amore che, l’arco teso, si era sforzato di seguirmi e di spiarmi, si era
allora posato contro un fico, e rendendosi conto che avevo così scelto quel
bocciolo –la rosa più bella-, che mi piaceva più di qualsiasi altra, prese
subito una freccia e la scagliò su di me in maniera tale che attraverso
l’occhio me la piantò nel cuore bruscamente; mi penetrò allora un freddo del
quale risentii in molti tremiti sotto la mia calda pelliccia.
Dopo
esser stato oltraggiato dalla sorte, caddi a terra, riverso: il cuore venne
meno e restai lungamente sul posto, svenuto.
Guillame de Lorris, le Roman de la Rose
Non c’è, a mio avviso, un luogo che, osservato in
contemplazione estatica come in preghiera modesta, possa veramente rendere
l’idea di fiaba.
Fu un certo Kafka a dire che non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalla
profondità del sangue e dall’angoscia. È con le fiabe che si attira
l’attenzione degli uomini sulla verità.
Non voglio trascinarvi in discorsi sulle atrocità del
pensiero raziocinante dell’uomo. Voglio che per voi la fiaba assuma le
connotazioni dello zucchero filato e quelle piacevoli tinte pastello che hanno
i castelli delle belle principesse nell’immaginario fervido dei bambini
candidamente ingenui.
Ascoltatemi: forse siamo giunti all’epilogo di questa
storia torbida, che non avrebbe dovuto occupare più di quattro pagine del
vostro tempo.
C’è un castello, nella punta più bassa della Germania, e
si chiama Neunschwestein, che viene sempre utilizzato per le pubblicità. Il
castello delle fiabe fatto costruire dal re Ludwig in mezzo ai boschi fitti e
alle aspre montagne della vecchia Baviera ha i torrioni alti dai tetti
cuspidati in tegole di ardesia blu, e le pareti nivee che d’inverno riflettono
in modo speculare la neve caduta copiosa.
Perché poi vi parlo di quel castello?
Il re Ludwig venne deposto dal trono, dovette abdicare,
sì, perché era stato tacciato di pazzia. Eppure, dal baratro profondo della sua
ipotetica infermità mentale aveva permesso la creazione di un capolavoro
architettonico così suggestivo da indurmi a descrivere le maestose pareti
affrescate con scene della ”Cavalcata delle Valchirie” del suo adorato Wagner
in questo tragicamente lungo quodlibet –presuntuoso-.
Io e Giulio eravamo finalmente arrivati a casa, dopo
lunghe peripezie e sconsiderate deviazioni dal percorso originario che avevo
accettato nella speranza di risollevare il suo pessimo umore, visto che dicono
della camminata come di un metodo efficace per scaricare la tensione; e
finalmente ci ritrovavamo sul retro della nostra palazzina, davanti al
muricciolo che sottendeva un piccolo ritaglio di fiaba.
Non so perché mi fosse tornato in mente quel castello
romantico, ma l’immagine era nitida nella mia mente.
- Non permettere al muro che ti sei costruito di
imprigionarti in una solitudine sempiterna che non è in grado di regalarti quel
miraggio di preservazione nel quale credi! -
‘Non permettere al muro di nasconderti dai miei sguardi
amorevoli.’
‘Cosa?’ Giulio si voltò verso di me. Era già cavalcioni
sul muretto. Gli avevo fatto notare come in pochi passi si fosse potuto
raggiungere l’ingresso, e io stavo precisamente svoltando l’angolo verso la
facciata anteriore per attraversare il piccolo patio e raggiungerlo nell’orto,
sotto il limone.
‘Non sparire. Non celarmi la tua anima! Ti voglio vedere
rifulgere! Lascia cadere il muro!’
‘Ci vorranno dieci secondi, Henka, e… non fare i
capricci!’
‘Non hai capito. Non parlo di questo muro fisico.’
‘Ah, no?’
‘No.’
Mi guardò divertito, sospeso su quella costruzione
massiccia di pietra viva.
‘Non c’è nessun muro, Henka.’
‘Oh, invece sì. Io voglio entrare!’
‘Prova a passare dalla porta.’ Sorrise e si lasciò
scivolare nel giardino.
‘Allora è chiusa a chiave!’ Gli urlai.
‘Vuoi la chiave?’ Rispose ridendo.
‘Certo! Stupido!’
Così non ci pensai due volte a scavalcare il muretto,
nonostante non vantassi la sua agilità e la sua esperienza in materia.
‘Bentornato.’
‘Ma se non ci siamo visti che per pochissimi secondi.’
Mi aspettava in piedi davanti alle fronde nodose del
limone le cui foglie verdi erano così brillanti da sembrare finte, o ricoperte
di cera.
‘Guarda…’ Si arrampicò senza difficoltà sul ramo più basso
e ne ridiscese con un balzo qualche secondo dopo stringendo un grosso limone
nella mano destra. Avvertii i suoi piedi posarsi con dolcezza sul terriccio
inumidito dall’irrigazione.
‘Cosa te ne fai?’
‘Ah… lo mangio!’
‘Un limone? È… aspro… brrr…’
‘Non hai mai mangiato un limone?’
‘No. Non mi piacciono.’
‘Dovresti assaggiarli.’
Mi tirò improvvisamente per la maglietta sottile e mi fece
cenno con la testa di salire in casa. Erano quasi le quattro di mattina e il
buio cominciava a scemare lievemente, a rischiararsi con lentezza. Avrei desiderato
che quella notte, la più lunga della mia vita, non terminasse mai.
‘Non ti arrampichi come una scimmia fin sul balcone,
Giulio?’
‘No. La porta è chiusa. Non mi va di aspettare. Non trovi
che abbiamo aspettato abbastanza?’
‘Sì…’ Annuii, facendo ciondolare la testa di lato. Mi
sfiorò il mento appuntito col pollice e mi sfilò le chiavi dalle mani mentre mi
invitava col pensiero a seguirlo attraverso la porta d’ingresso, per le scale.
Quando la serratura di casa scattò, noi entrammo e ci
richiudemmo la porta alle spalle, fu come se al mio cuore calasse un battito.
Credo che la prospettiva di rimanere solo con Giulio, per la prima volta nella
mia vita, mi conturbasse.
Mi infilai nel bagno per fare una doccia fredda, e non perché noi Finlandesi amiamo
particolarmente questo genere di cose che forgiano il corpo e temprano lo
spirito, quanto per frenare i miei bollenti spiriti.
Non servì a niente.
Quando uscii una nuvola di vapore si sprigionò dalla
doccia invadendo il piccolo bagno dalle piastrelle azzurrine e lucide di
ceramica. I vetri e lo specchio erano completamente appannati, come le pareti
scorrevoli del box doccia.
Mi piacevano le docce con pareti scorrevoli, mi divertivo
a disegnare e scrivere su di esse tra un getto d’acqua e l’altro.
Mi asciugai velocemente e mi rivestii. Aprii un poco la
finestra per permettere all’umidità di uscire e lasciarmi respirare. Col
braccio dipanai la coltre di vapore acqueo che si era depositata sullo specchio
e mi osservai con tenerezza accarezzandomi il viso dalla pelle liscia e
diafana. Mi soffermai sulle labbra morbide e piene, rosse, a forma di cuore.
Labbra molto baciabili. Mi erano sempre piaciute le mie labbra.
Forse erano piaciute anche a Giulio.
Cercavo di non pensare, magari fischiettare una canzone,
mentre mi rivestivo e uscivo diretto in cucina. Ma lì mi aspettava solo
Utrecht.
Dove diavolo era finito Giulio? Forse era scappato. Forse
mi aveva guardato negli occhi con più precisione di quanto io avessi mai fatto
con lui.
Accarezzai Utrecht senza prestare troppa attenzione al suo
morbido e lucido pelo nerissimo e corsi nella camera da letto.
Giulio non era veramente addormentato: avevo l’impressione
che tenesse chiusi gli occhi solo per farmi innervosire.
Sul comodino vedevo il piatto dove il limone era stato tagliato
a fettine sottili con la sua proverbiale cura da maniaco, e il coltello ancora
sporco del succo trasparente che tutti usano da bambini per inviare messaggi
criptati agli amici e che qui chiamate comunemente –buffamente- “inchiostro
simpatico”. Il limone è troppo acre per i miei gusti.
Vidi il suo braccio muoversi in direzione del piattino e
portare poi la fetta di limone alla bocca. Ne succhiò la polpa un paio di volte
prima di rivolgersi a me, che l’avevo ridestato maldestramente dalla sua
degustazione.
‘Perché hai mangiato il limone?’
‘Perché mi piacciono i limoni?’
Gli versai un bicchier d’acqua e glielo porsi.
Sinceramente non capivo perché stesse ridendo. Non c’era
nulla di comico in quella situazione tanto ambigua.
Lui finì il suo limone senza curarsi del mio sguardo
indispettito. ‘Che ne sai che magari ti piace!’ Mi diceva come se stessimo
parlando del tempo atmosferico e non di limoni, che potrebbero sembrare
argomento stupido se non fossero inseriti in un contesto per nulla candido come
quello.
‘Ti ho detto di no!’
Com’era scemo. Stava perdendo tempo.
Mi alzai imbronciato dal letto e ricevetti in tutta
risposta una cuscinata in piena faccia.
Gli occhi mi pizzicavano per il nervoso.
--- Mm… limoni *ç* … io rubavo i limoni, da piccola ^_^ (cioè,
anche quest’estate ruberò i limoni, sono tanto aspri e buoni u___u).
Mi piace la prima parte sulle fiabe. Non c’entra davvero nulla, ma mi è
uscita così, e per una volta rimane senza essere bellamente tagliuzzata via.
Che vi dico aujourd’hui? Comincio a soffrire veramente il caldo
asfissiante e l’afa. Questo week-end sono andata al mare. Mi piace il mare,
solo fino a Maggio. Ho passato due giorni a strisciare contro i muri e a
saltare in ogni minimo spazio d’ombra fresca. >__< sto male…
Ah, sì, sì, vi rendo ufficialmente noto che è il quartultimo capitolo.
Finisco prima di andare in vacanza, a costo di lavorare di giorno!!! ß io scrivo di notte per chi si fosse sintonizzato or ora (ma esiste
qualcuno che legge una storia dal capitolo 16? Io lo faccio coi manga, ma lì ti
mettono il riassuntino…).
Buone vacanze a tutti quelli che già partono –o partiranno-. Io me ne
vado al fresco… non ho più voglia di far nulla.
Commentate ^_________^ –Vlad sono in lutto per il tuo computer. Quando
puoi, commenta. Anche se leggerete questa storia tra cinquant’anni commentatela
lo stesso, tanto il mio spirito aleggerà ancora qui in zona…-
Domani esce octavariuuuuum… *me balla la danza della felicità*
^_^
Love-in-idleness