Anime & Manga > Gundam > Gundam SEED/SEED Destiny
Segui la storia  |       
Autore: Atlantislux    26/10/2009    5 recensioni
[Gundam SEED] Pensava che il passato non l’avrebbe più tormentato. Si sbagliava. Perché le bambole da guerra, anche se rotte, trovano sempre qualcuno che le aggiusti.
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Irreparabile'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Scelta



Aprilius City, 14 dicembre, C.E. 81


“Mi dispiace farla aspettare così tanto, ma l’autorizzazione tarda ad arrivare, non mi so spiegare il perché.”
L’addetta alla reception dell’ospedale militare abbozzò un sorriso, scrutando con comprensibile timore il militare, nella divisa nera degli ufficiali esecutivi di ZAFT, in attesa di avere il via libera per vedere il prigioniero.

Lei aveva ricevuto l’ordine perentorio di non lasciare passare nessuno ma il giovane, che si era presentato come un avvocato del Dipartimento di Giustizia Militare, aveva presentato credenziali ineccepibili chiedendo di vedere immediatamente il suo ‘assistito’, pena non ben specificate azioni disciplinari contro tutti quelli che l’avessero ostacolato. Il tutto esposto con voce cortese ma ferma, e con uno sguardo glaciale che aveva ridotto la donna a balbettare qualche scusa mentre inseriva i dati del Comandante Almark nel sistema.

L’addetta lanciò un’occhiata implorante al terminale, sperando che sputasse fuori al più presto l’autorizzazione dell’avvocato. Se c’era una cosa che aveva il potere di spaventarla, era avere a che fare con il Dipartimento di Giustizia.

Scrutò dietro le spalle dell’uomo. Due soldati della sicurezza si dovevano essere accorti che c’era qualcosa che non andava, e stavano venendo verso di loro.

“Ci vogliamo sbrigare? Non ho tutta la mattina da passare in sua compagnia” le sibilò il Comandante, visibilmente spazientito.

Lei avrebbe fatto di tutto perché smettesse di fissarla con occhi grigi vagamente inquietanti, e dovette sopprimere un deciso sospiro di sollievo quando, finalmente, il sistema stampò l’autorizzazione richiesta.

La posò sul bancone senza troppi complimenti, osservando l’ufficiale che, soddisfatto, la ritirava sorridendole mentre se ne andava.

“Grazie di tutto, signorina.”

Lei fece cenno alle guardie che era tutto a posto, pensando che, dopotutto, l’avvocato aveva un sorriso gentile nonostante lo sguardo severo.

***

L’autista del pulmino che li stava portando all’ospedale militare aveva ricevuto ordine di non curarsi del traffico, e stava scrupolosamente ottemperando alla consegna. Athrun, nonostante la cintura di sicurezza, dovette aggrapparsi ad una maniglia per non finire addosso ad Yzak; che sedeva al suo fianco, gli occhi fissi sulla strada e persi in chissà che pensieri.

L’Ammiraglio di Orb sospirò, lanciando uno sguardo dietro di sé. Il gruppo di dieci ragazzi delle forze di sicurezza che si erano portati dietro erano indaffarati a sistemarsi l’equipaggiamento, controllando che le armi automatiche di cui erano dotati funzionassero a dovere.

“Non è un po’ troppo, Yzak? Quelli sono solo due…”

L’appunto gli guadagnò un’occhiata furente. “Forse sono solo due. Non possiamo escludere che ce ne siano altri. Hai visto cosa possono fare, no? Dobbiamo essere pronti a tutto.”
Non poteva dargli torto, ma la cosa lo inquietava comunque. Decise di affrontare subito la questione che più gli stava a cuore.

Athrun affondò gli occhi in quelli di Yzak.

“Lo farai davvero? Darai l’ordine di sparare addosso a Nicol?”

L’altro distolse lo sguardo, sferrando un pugno contro la portiera.

“Che cosa dovrei fare secondo te? Far ammazzare i miei uomini in nome di un’amicizia che non c’è mai stata e di una persona che, forse, non esiste nemmeno più?”

“Non escludiamo in partenza tutte le ipotesi. Potrebbe essere stato costretto, potrebbero avergli fatto il lavaggio del cervello.”
“Potrebbero, anche se sai bene che quelle tecniche di condizionamento funzionano malissimo con noi.”
“Però …”

Yzak lo interruppe rudemente. “Basta Athrun.”

Poi, davanti al suo sguardo attonito, il giovane albino distolse gli occhi, tornando a fissare la strada come se non potesse più sopportare di guardarlo.

Le labbra di Yzak avevano una piega amara quando parlò di nuovo, e il tono di voce era basso e tirato.

“Credi che me ne freghi di chi è? E che non ti capisca? Scusa sai, se non ho pianto come un bambino quando è morto davanti ai nostri occhi, come hai fatto tu. E scusa se il pensiero della sua dipartita non mi ha fatto andare fuori di testa, come è successo per te.”

Athrun, nonostante quelle parole, non si sentì offeso, ma solo terribilmente in pena per Yzak. Sapeva di stare ascoltando qualcosa che probabilmente l’amico aveva nel cuore da anni.

L’albino scosse leggermente la testa, facendo ondeggiare i capelli candidi.
“Mi avrete giudicato tutti senza cuore, non è vero? Avrete pensato che a me non poteva importare di meno, tanto io non l’avevo mai sopportato, al punto di chiamarlo più volte ‘vigliacco’, anche in faccia. Qualcuno avrà immaginato che sotto sotto ne ero anche felice, così il nostro gruppo si era liberato di un incompetente.”

“Yzak…” mormorò Athrun, ma l’altro lo bloccò alzando una mano.
“Lasciami finire. Lo so che la cosa non riguarda te e Derka, ma per molti altri era così. Ne sono consapevole. E sai cosa mi irrita di più? Che, ripensandoci, ai tempi ero talmente esaltato, e odiavo così tanto l’idea che qualcuno mi potesse considerare un debole, che non feci nulla per smentire quelle voci. Nulla. Quando invece l’avevo ammirato. Quel... bambino che senza nemmeno un’arma degna di quel nome ti aveva salvato da morte certa, pagando un prezzo altissimo mentre io e Dearka eravamo rimasti a fare le belle statuine.”

L’albino ritornò a guardalo. “Non sopportavo Nicol e il suo comportamento mi innervosiva, perché odiavo quella sua aria perennemente allegra e ottimista, come se stessimo giocando e non combattendo. E lo invidiavo, va bene? Perché così giovane gli avevano già affidato la macchina da guerra più potente mai costruita, e faceva del suo meglio per usarla pur avendo solo una minima esperienza in battaglia. Era sempre il primo ad obbedire agli ordini senza mai discuterli e, anzi, fornendo anche delle riflessioni tattiche molto accurate.”

Il tono dell’albino si fece burbero, mentre un leggero rossore gli colorava le guance. “Non capivo che diavolo ci facesse tra di noi, quando avrebbe dovuto essere a casa, a strimpellare il suo dannato pianoforte. Ma, soprattutto, odiavo la sua cieca venerazione per te, che non valevi nemmeno una delle sue occhiate adoranti.”

Athrun non ebbe cuore di affondare il coltello nella piaga. Sorrise, invece. “Avresti preferito che ammirasse te?”

“No di certo, non avevo bisogno di lacchè riverenti. Ma dimmelo, sai, se mi ritieni un idiota” borbottò l’altro, incrociando le braccia al petto.

Ad Athrun fece quasi tenerezza. “Siamo in due. Dopotutto sono io quello che ha capito quanto la sua amicizia fosse importante solo quando quell’ammirazione che provava per me l’ha ucciso” rispose Athrun, consapevole che la frase avrebbe dovuto essere formulata in ben altro modo.

Yzak annuì. “Bene, adesso che ci siamo chiariti ti posso rispondere che, no, farò di tutto per catturarlo vivo. Se non altro perché voglio sapere… esigo di sapere cosa gli è successo.”

E, su quello, Athrun non poteva che essere d’accordo.

Sentì il veicolo rallentare e, guardando fuori dal finestrino, si accorse che erano giunti davanti all’ospedale. Un’imponente servizio d’ordine stazionava davanti all’ingresso principale, e tutti gli uomini erano in tenuta d’assalto.

Yzak gli fece cenno di seguirlo, ed entrambi scesero dal pulmino seguiti dalle forze che l’albino si era portato dietro.

“I tiratori scelti si posizionino sul tetto, voi cinque rimanete qui a supporto delle truppe regolari” ordinò rivolto ai suoi. “Gli altri, a coppie, si dispongano nei pressi delle uscite principali. La piantina indica un parcheggio sotterraneo. Voi altri due recatevi lì e presidiate scale ed ascensori” fece all’ultimo gruppo, poi si girò verso Athrun. “Tu con me, andiamo un po’ a trovare il prigioniero.”

L’Ammiraglio di Orb lo seguì obbediente, confortato dalla capacità di Yzak di riuscire ad avere sempre tutto sotto controllo. Sperò solo che l’albino avesse calcolato bene le infinite variabili che quella situazione presentava.

***

Bastò sventolare davanti agli occhi delle guardie l’autorizzazione, per farsi aprire la porta della stanza dove Lex era ricoverato.

Addirittura, uno degli uomini gliela spalancò personalmente.

Un tenue sorriso toccò le labbra di Nicol. Suo padre gli aveva sempre detto che c’era solo una cosa che spaventava gli arroganti militari di ZAFT, ed era il finire sotto inchiesta da parte del severissimo Dipartimento di Giustizia. Era contento di sapere che anche dopo tanti anni la situazione su PLANT era rimasta la stessa.

Anzi, non era cambiato un bel niente da quando se ne era andato.

Non aveva resistito alla tentazione di guardasi in giro mentre il taxi lo portava all’ospedale militare, riconoscendo ogni angolo di quella città che dieci anni prima chiamava ‘casa’. C’era giusto qualche palazzo nuovo, e un bel monumento dedicato a Lacus Clyne ma, per il resto, tutto era rimasto com’era.

Nicol avrebbe di gran lunga preferito il contrario; era troppo doloroso riconoscere ogni angolo ed associarvi ricordi che desiderava non fossero i suoi.

E, quando gettò uno sguardo verso il letto di Lex, dovette ammettere con sé stesso, di nuovo, che avrebbe desiderato essere ovunque meno che in quel posto.
Dalle informazioni che avevano carpito, e dalle mappe dell’edificio, lui e Riko avevano appurato che non sarebbe stato facile ma nemmeno impossibile portare via Lex da lì. L’unica vera incognita erano le sue condizioni. Che dovevano essere piuttosto gravi se, da solo, non era stato in grado di fuggire.

Una sola occhiata al suo amico bastò a Nicol per rendersi conto che non sarebbe mai riuscito a farlo uscire da quel posto.

Lex era tenuto in vita dalle macchine che lo circondavano, compresa una cuore-polmoni impossibile da disattivare senza ucciderlo.

Si avvicinò a lui con il cuore in gola, leggendo attentamente i dati sui monitor.

Il sistema cardiocircolatorio e respiratorio era compromesso, la pressione al minimo accettabile per un uomo della sua stazza, e le pulsazioni erratiche.

C’era un palmare posato su un tavolino accanto al letto, e Nicol lo sollevò, scoprendo che era la cartella clinica dell’amico. Non fu una sorpresa leggervi che la sua speranza di vita si riduceva a qualche ora.

“Uno stupido incidente. E che ironia” mormorò. “I polmoni che gli hanno istallato si sono danneggiati, e qui non c’è nessuno che li possa sostituire o riparare.”

Uno sguardo ad un altro monitor gli confermò che difficilmente Lex avrebbe ripreso conoscenza, l’encefalogramma era quasi piatto. Quasi.

Non c’era nessuna speranza per lui, ma la cosa che fece finalmente decidere Nicol fu la cruda visione dei circuiti bionici del braccio dell’amico, messi a nudo dalla rimozione della sintopelle.

“Miguel ha sempre avuto ragione” mormorò con una smorfia di dolore. “Per noi, che differenza fa se siamo nelle mani dei Natural o dei Coordinator?”

Lex era stato il suo migliore amico in tutti quegli anni, e in quel momento c’era una sola cosa che poteva fare per lui: evitare che lo trasformassero di nuovo in una cavia, per le poche ore che ancora gli rimanevano da vivere.

Nicol scrutò per l’ultima volta il volto tumefatto di Lex, poi staccò l’allarme collegato alle macchine, e si dedicò a spegnerle meticolosamente tutte.

Quando l’ebbe fatto, e accertatosi che l’encefalogramma fosse finalmente piatto, trattenendo le lacrime estrasse il proprio palmare e mandò alle nanocapsule dell’amico il segnale che le avrebbe fatte esplodere. Non avrebbe lasciato quel povero corpo nemmeno dieci minuti in balia dei macellai di ZAFT.

***

Quando giunsero al piano dove era ricoverato il prigioniero sia Yzak che Athrun notarono immediatamente un leggerissimo odore di bruciato aleggiante nell’aria. Si scambiarono un’occhiata, affrettandosi verso la stanza. Un allarme antincendio cominciò a urlare quando erano a metà del corridoio.

Girarono l’angolo, trovando due guardie e un paio di medici davanti alla porta, indaffarati a cercare di aprirla. Il tanfo si era fatto più forte.

“Ma che diavolo state facendo?” urlò ai due.
“La porta è bloccata.”

Yzak non perse tempo. Estrasse la pistola puntandola contro la serratura elettronica, che esplose in un lampo di scintille. La porta si aprì di scatto.

Athrun era dietro di lui e, messosi un lembo della giacca davanti alla bocca, lo seguì dentro la stanza, avvolta in una spessa coltre di fumo. Entrambi gli uomini non poterono non soffocare un’imprecazione.

Sul letto, tra le coltri carbonizzate, giacevano dei resti anneriti dalla vaga forma umana. Nulla era rimasto intatto. Anche i preziosi impianti che tanto avevano deliziato il dottor Zimmer erano ridotti a scheletri ossidati, che si disintegrarono in cenere davanti agli occhi di Athrun. Il sistema antincendio entrò in funzione un attimo dopo, eruttando una nube di acqua nebulizzata che ridusse le misere spoglie del terrorista ad una melma nerastra.

“Cos’è successo?” sibilò Yzak in faccia ad una delle guardie.

“Non ne abbiamo idea. Qualche minuto fa è entrato il suo avvocato ma ci ha detto che andava tutto bene” balbettò l’uomo.

“Quale avvocato?”

“Giovane, capelli verdi, in divisa nera. Aveva un’autorizzazione.”

“Dov’è andato?”

“In direzione degli ascensori che scendono nel parcheggio sotterraneo.”

Yzak lanciò uno sguardo ad Athrun, ed entrambi annuirono.

“Chiama la sicurezza. Che tutti gli ascensori vengano bloccati e che le guardie si concentrino all’uscita del parcheggio” ordinò l’albino, prima di gettarsi con l’amico all’inseguimento del misterioso avvocato.

Giunsero davanti agli ascensori e si resero conto che uno aveva già quasi raggiunto il parcheggio.

“Che facciamo?”
“Le scale” sibilò Yzak. “Non possiamo rischiare di rimare chiusi dentro.”

Si precipitarono di sotto. Erano quasi giunti quando Yzak ricevette una chiamata.

“Dearka?” urlò all’auricolare. “Che vuoi? ….Cosa?” esclamò sconcertato pur nella foga della corsa. “Tenete la posizione. Questo vuoi dire che ce n’erano più di due. Cercate di prenderli vivi! Qui all’ospedale ne abbiamo almeno un altro, io e Athrun tenteremo di beccarlo.”

Chiuse la comunicazione lanciando un’occhiata furibonda all’amico.

“Il suo gruppo e quello di Kappler sono sotto il fuoco incrociato di armi automatiche. Mitragliatrici pesanti, pare. Ci siamo sbagliati.”

“Non potevi sapere che non avevano intenzione di liberare il loro compagno.”

L’espressione di Yzak suggerì ad Athrun che non l’aveva minimamente ascoltato, tutto preso dall’inseguimento.

Rimase zitto per il resto della breve discesa, non tenendoci a diventare il bersaglio delle ire dell’albino. Già aveva troppo a cui pensare.

Quando giunsero nel parcheggio le guardie che si erano aspettati di trovare non erano in vista. Sorpresi, si avvicinarono agli ascensori, armi in pugno. Una delle cabine era al piano, le porte tenute spalancate dai corpi esamini di due uomini che Athurn riconobbe come membri del gruppo di Yzak. Non avevano ferite da arma da fuoco e, come appurò proprio Athrun avvicinandosi, erano fortunatamente solo svenuti.

“Siamo arrivati tardi” Yzak esalò quasi ringhiando, allontanandosi dalla cabina e scrutando verso il parcheggio.

Athrun lo seguì. Il sotterraneo era una sterminata distesa di automobili, avrebbero avuto bisogno di tempo per controllarle tutte.

Vide l’amico armeggiare con il palmare, imprecando ad alta voce.

“Non riesco a raggiungere nessuno dei miei, che diavolo sta succedendo?”

“Che ti sei fatto fregare come una recluta alle prime armi, Yzak Joule. Che direbbe di te Fred ‘Pugnale di ferro’?”

Athrun spalancò gli occhi e si cristallizzò al suo posto. Perché la voce che aveva appena parlato, sebbene più profonda e mascolina rispetto a quella che lui si ricordava, era indubitabilmente quella di Nicol Amalfi.

Entrambi i giovani si girarono verso l’ascensore.

Chi li teneva sotto tiro, puntando alle loro teste due pistole di grosso calibro, vestiva una divisa nera di ZAFT, e aveva corti capelli verdi.

Adesso che lo vedeva bene, senza il cappuccio che gli nascondeva parte del viso, Athrun non poteva negare che conservava ancora una vaga somiglianza con il suo amico. Nemmeno lo sguardo era totalmente differente, a parte il colore degli occhi. Erano lucidi, come se avesse appena pianto, ma determinati e innaturalmente fissi su di loro.

Athrun non si azzardò a muovere un muscolo.



Nassau, 30 novembre, C.E. 73


Chiusa nel suo alloggio, accoccolata sul divano con in grembo il portatile, Cecilia tentava disperatamente di lavorare, non riuscendo in ogni modo a prendere sonno, nonostante fossero le due di notte passate.

Dopo un po’, resasi conto che, di nuovo, gli occhi le scivolavano via dallo schermo verso un angolo della stanza, chiuse il monitor quasi con rabbia, gettando il computer nel punto più lontano del confortevole sofà.

Si tirò le gambe al petto, stringendosele come era solita fare quando era una bambina, tutte le volte che la maestra la sgridava perché faceva sfigurare i compagni di classe.

“Merda merda...” ripeté sotto voce, incapace di fare qualunque cosa se non imprecare contro il destino avverso.

Alla fine, quello che aveva più temuto si era avverato: un mese prima Lenk Granato era stato sostituito da qualcuno più fedele ai Logos. Cecilia e i membri rimasti del vecchio staff avevano protestato, minacciato di scioperare e boicottare i lavori e, in tutta risposta, Lord Djibril in persona aveva dato ordine di farli trasferire in massa. Lei esclusa.

Cecilia era rimasta sola, e davvero le sembrava crudelmente ironico come le sue capacità, che l’avevano fatta vantare così tanto davanti a Lenk, adesso fossero diventate le catene che la tenevano avvinta ad un luogo che non era più una casa ma una prigione, dalla quale lei non poteva sperare di contattare nessuno. D’altronde, non c’era nemmeno nessuno a cui potesse chiedere aiuto.

I suoi colleghi le mancavano. Lenk le mancava. E, soprattutto, le mancava Nicol.

Essendoci qualcun altro a controllare il circuito video interno non si fidavano nemmeno quasi più a parlarsi e, se lo facevano, era solo per questioni strettamente attinenti al lavoro. Ovviamente, vedersi da soli era totalmente fuori questione.

Cecilia gemette di frustrazione, affondando i denti nel labbro inferiore. Solo a volte, e sempre se altri nel laboratorio erano presenti, lei gli faceva una carezza mascherandola da qualcos’altro; era facile visto il suo lavoro, ma il gesto la lasciava ancora più insoddisfatta. Nicol, da parte sua, non si azzardava invece a fare proprio nulla. Anzi, le sembrava che cercasse ogni pretesto per stare lontano da lei. Cosa che, ultimamente, aveva fatto riaffiorare tutti i suoi dubbi sul loro rapporto.

‘Magari non aspettava altro. Voleva darci un taglio e non sapeva come dirmelo.’

Lucidamente sapeva che non poteva essere vero e che, probabilmente, Nicol la teneva a distanza per impedirle di fare qualche stupidaggine; dei due era sempre stato il più cauto, non volendo metterla in pericolo. Ma, infantilmente, Cecilia non riusciva a non trovarlo fin troppo freddo, proprio quando lei avrebbe più avuto bisogno della sua compagnia.

‘Ma forse meglio così... Sì, meglio così’ si ripeté, facendosi forza. ‘Prima di essere costretta a non vederlo tornare da una delle missioni alle quali oramai tutti loro partecipano. O a vederlo tornare ridotto in un modo per me impossibile da rattoppare. Prima di essere accomunata a sua madre, a suo padre, ai fratelli o alle sorelle se Nicol ne ha avuti, che l’aspettavano a casa e invece hanno ricevuto solo un bel tesserino plastificato con la scritta ‘missing in action’. Già, forse questo è il risultato più conveniente per entrambi.’

Afferrò un pacchetto di fazzoletti, decidendo che era il caso di piangerci sopra, una volta e per tutte. Poi sarebbe ritornata al suo lavoro, e non si sarebbe mai più lasciata distrarre dalle sirene dell’amore. O quello che era.

‘È stato bello, ma non fa per me’ si disse per convincersi, soffiandosi rumorosamente il naso.

Scivolò giù dal divano, forse una tisana l’avrebbe aiutata a calmarsi quando, ad un tratto, la quiete della notte fu squarciata da una potente esplosione.

Le luci nell’appartamento si spensero e, istintivamente, gli occhi di Cecilia corsero alle finestre. Casa sua, come quelle del resto del personale, era situata dentro il complesso dell’Istituto scientifico. Le silhouette degli edifici che lo componevano, in quel momento, risaltavano contro le fiamme di un grosso incendio che era scoppiato, o così le sembrò da quella prospettiva, proprio accanto alla porta principale. Di importante da quella parte, che lei sapesse, c’era solo la centrale energetica.

Guardò le lampade del suo soggiorno. Se c’era stato un incidente là di certo non si sarebbero riaccese, ma la luce dello schermo del portatile la guidò fino al tavolo, dove aveva lasciato il badge magnetico per accedere al suo laboratorio.

Lo afferrò e si mise le scarpe.

Nella sezione scientifica il gruppo elettrogeno autonomo dovrebbe aver già ripristinato la corrente, ma devo andare ad accertarmi che le mie macchine non abbiano subito danni.’

Era quasi alla porta, ma si bloccò raggelata nel sentire raffiche di mitra aggiungersi al fragore dell’incendio e agli allarmi che suonavano come impazziti.

“Che sta succedendo?” mormorò, mentre la sua attenzione ritornava alle finestre.

C’erano sagome che correvano nel buio, ombre che sparavano contro altre ombre, che cadevano falciate dalle raffiche.

Cecilia collegò immediatamente l’esplosione a loro.

Siamo sotto attacco’ pensò sbarrando gli occhi.

Essendo un bersaglio privilegiato avevano già fatto esercitazioni nei mesi precedenti, e tutti erano al corrente delle procedure da seguire.

Prendere la torcia di emergenza accanto alla porta e dirigersi nei punti di raccolta’ recitò, senza riuscire a muoversi; perché al di sopra degli edifici uno spettacolo molto più impressionante dell’incendio era appena cominciato.



Lo vide scendere dal cielo, nero e oro, quasi invisibile ad occhio nudo; Cecilia non aveva mai visto un modello di quel tipo(1), sebbene assomigliasse vagamente a quello che nei notiziari di qualche anno prima chiamavano GAT Strike. Il Mobile Suit sconosciuto si avvicinò fino a sfiorare il palazzo più alto, prima di diventare bersaglio dei due Strike Dagger che erano a guardia del complesso.

Gli si avventarono contro sguainando le proprie spade laser ma, in quel momento, il loro bersaglio scomparve letteralmente dalla vista.

Cecilia trattenne il fiato mentre entrambi i Dagger venivano trapassati da qualcosa emerso dal nulla, ed esplodevano con un boato assordante.

Pochi secondi dopo, mentre ancora se ne stava inchiodata al suo posto, la porta del suo appartamento si spalancò.

Cecilia si girò trattenendo un urlo, con il cuore che le balzava in gola.

Sulla soglia c’erano due dei Coordinator che lei aveva curato. Una era l’unica ragazza del gruppo, l’altro era proprio Nicol. Entrambi armati. Lei non la degnò di uno sguardo, preferendo lo spettacolo alle sue spalle.

La ragazza fischiò in approvazione. “E così vedo che Miguel Ayman non ha perso il suo tocco. Beh, certo che con quel sistema di Mirage Colloid chiunque saprebbe vincere.”

Cecilia non riusciva invece a staccare gli occhi da Nicol, che la stava fissando con un’espressione preoccupata in viso.

“Che succede?” gli chiese.

Fu la ragazza che le rispose. “Che ce ne andiamo.”

“Non potete... voi....”

“Tranquilla. Le nanocapsule sono state disabilitate da quelli di Serpent Tail, non saremo più schiavi dei Logos. Noi andiamo con loro, e anche la tua presenza è stata richiesta. Forza, vieni” le disse, bruscamente.

Cecilia fece un passo indietro. Quel gruppo di sanguinosi mercenari lo conosceva di fama e, di certo, nulla di buono le sarebbe valso ad andare con loro.

Intuendo la sua esitazione, la Coordinator sollevò la mitraglietta che stava stringendo.
“Quello era un ordine, dottoressa.”

“Che stai facendo?” le disse Nicol girandosi verso la compagna. Che gli rispose scuotendo le spalle.

“La tua amica qui non è convinta, forse è molto più legata ai Logos di quello che pensavamo.”

Cecilia si vide puntare in faccia l’arma. “D’altronde, sarà stata anche carina con noi ma rimane sempre il loro capo progetto, non te lo scordare.”

Lo sguardo della Coordinatrice si fece duro. E, dato che anche lei aveva installati impianti ottici, Cecilia vide la propria morte in quegli occhi da predatore. Lorran era una dei pochi del gruppo con i quali lei non aveva mai legato.
“I Serpent Tail sono stati chiari” le sibilò la ragazza. “Deve venire con noi ad ogni costo. Saranno pagati bene per questo, e anche noi, di conseguenza.”

Nicol le prese il braccio che reggeva la mitraglietta, costringendola a voltarsi verso di lui. “Aspetta. Cecelia è solo spaventata. Dalle un attimo di tregua.”

“Non possiamo aspettarla tutta la notte! Tra poco le guardie saranno qui, e tra tutte e due abbiamo munizioni a sufficienza solo per uscire dal complesso.”

L’attenzione di Nicol tornò su Cecilia. “Vieni con noi. Tu non hai nulla a che spartire con questi.”

Incoerentemente, la scienziata scosse la testa. Perché stava esitando? Non si era appena detta che quel posto era diventato una prigione per lei? Lo guardò negli occhi. Non avrebbe dovuto essere felice che la persona che amava si era scomodato a venire a prenderla?

Non per me, per loro. Per Serpent Tail. D’altronde, o questo o... cosa? Mi sparerebbe se non andassi con loro? E se anche non lo facesse cosa mi rimarrebbe? Voglio davvero rimanere schiava dei Logos per tutta la vita?’

Cecilia chinò la testa e andò verso di loro. “Mi arrendo” mormorò di malagrazia.

La Coordinator si girò per uscire, nel corridoio illuminato dalle fioche luci di emergenza rossastre.

“Tanto meglio. Nicol, pensaci tu a questa visto che ti sta tanto simpatica.”

Il giovane la prese delicatamente per un avambraccio e la trasse a sé, senza che lei facesse nulla per opporsi, ma non riuscendo ad incrociare il suo sguardo.

“Ne parliamo dopo, va bene? Adesso usciamo di qui” le disse, e Cecilia non ebbe nemmeno voglia di annuire. Immaginava di stare sembrando una bambina capricciosa, ma riteneva di avere tutte le attenuanti del caso, compresa una mitraglietta puntata alla testa.

Si affrettarono lungo il corridoio, con la scienziata che cercava di fare del proprio meglio per stare dietro ai due, mentre intorno continuavano a riverberare colpi di arma da fuoco.

“Forse è il caso che la prendi in spalla” urlò Lorran, e poco ci mancò che Cecilia le facesse una boccaccia.

Due guardie apparvero davanti a loro, ma non ebbero minimamente il tempo di reagire. Lorran, che era davanti, alzò la sua arma e li colpì entrambi.

“Sbrighiamoci!”
Passandogli accanto Cecilia tentò disperatamente di non volgere gli occhi verso i corpi, temendo di identificare qualcuno che conosceva, ma non poté non vedere la Coordinator che puntava l’arma alla testa di uno dei due e faceva fuoco.

“Ma perché?” urlò, ma l’altra semplicemente fece spallucce.

“Erano solo i cani dei Logos, e un nemico morto è uno che non può più ammazzare te, ricordatelo. Sbrigati, Nicol, finisci quell’altro e andiamocene.”

Cecilia alzò gli occhi verso il giovane, che invece stava guardando la seconda guardia. Fece lo stesso.

Come temeva, lei lo conosceva, anche se non approfonditamente. Di certo, l’uomo a terra non era nemmeno uno dei peggiori agenti dei Logos, lì dentro.

Era ancora vivo, anche se perdeva copiosamente sangue da una brutta ferita allo stomaco, niente di mortale se curato in tempo, giudicò Cecilia.

Vide Nicol alzare la propria arma, esitante, ma prima che potesse fare fuoco lei gli strinse convulsamente il braccio.

Per una qualche ragione non voleva vederlo commettere una mostruosità simile. Il Coordinator fissò prima lei e poi la guardia, e infine le scoccò un pallido sorriso.

“Andiamo” le disse trascinandola quasi via.

“Come non ti sopporto quando fai così” sibilò Lorran a Nicol mentre si allontanavano velocemente, ma né lui né Cecilia ebbero il tempo di rispondere.

Il suono della raffica la raggiunse nell’esatto istante nel quale un dolore inconcepibile, come non ne aveva mai provato prima, le esplose nel braccio sinistro e nella schiena.

Cadde sulle ginocchia e poi a terra, dove rimase sentendo il sangue uscirle dalla bocca e dal naso.

Suoni ovattati, che le sembrarono l’urlo di qualcuno e una seconda sventagliata di proiettili la raggiunsero.

Stavano cercando di sollevarla, ma Cecilia avrebbe voluto urlare che la lasciassero dov’era, che faceva leggermente meno male così. Tanto adesso sarebbe arrivato un dottore e l’avrebbe sistemata, quel posto era pieno di medici, no?

La voce di Lorran penetrò come una stilettata nei suoi sensi annebbiati, dura ma in qualche modo amareggiata.

“Cazzo, cosa ti avevo detto? Quel bastardo l’ha colpita, bel ringraziamento per non avergli fatto saltare la testa.”

Incoerentemente, l’ultimo pensiero di Cecilia fu che era davvero odioso dare ragione a quella stronza di Lorran.



___________________________



Note


(1)Ho dato a Miguel il Gundam Astray Gold Frame Amatu, che potete vedere qui http://www.mahq.net/Mecha/gundam/astray/mbf-p01-re.htm Questa unità monta il braccio destro del GAT-X207 Blitz ed è dotato di Mirage Colloid.



I soliti ringraziamenti iniziali vanno alle mie beta e consulenti Shainareth e Solitaire.
A tutti gli altri, scusatemi se non ho potuto ringraziarvi e rispondervi privatamente ma i preparativi per Lucca Comics incombono e sono, purtroppo, un po' presa. :( Comunque...
Gufo_Tave prima di cominciare a scrivere, sapendo che una consistente parte della fanfiction sarebbe stata basata su avvenimenti passati, avevo pensato di ricorrere ai ricordi dei protagonisti. Ma l'ho scartata come soluzione perché in primo luogo così mi sembra sia più scorrevole e "fresca" come storia, e poi perché ho un istintivo orrore per le storie dove i personaggi indugiano troppo nei ricordi. Un po' sì, però il troppo, secondo me, rende la lettura confusa e pesante. Riguardo agli armamenti, sono d'accordo sulle Desert Eagle. Il caricatore ha un po' pochi colpi, ma confido che nel 73 C.E. ne uscirà un modello migliore. ;) Quanto al mitra non c'è una vera ragione sul perché ho scelto quello. Mi serviva una cosa futurista, per non andare proprio sui soliti M16 o AK47, che immagino siano in quegli anni anche fuori produzione, e quando un mio collega appassionato di videogame mi ha passato l'immagine di quel gioiellino mi sono innamorata ;)
NicoDevil sì, hai ragione, anche a me ricorda proprio quel "qualcuno" XD

  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Gundam > Gundam SEED/SEED Destiny / Vai alla pagina dell'autore: Atlantislux