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Autore: Ninfea Blu    27/10/2009    8 recensioni
Non è stato facile, ma dovevo scrivere questa storia. L'amore non sempre è incondizionato, neppure quello tra un genitore e un figlio... (2/11/2009 piccola modifica alla storia)
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una cattiva figlia

Una cattiva figlia

 

 

 

Diana per molto tempo, era stata convinta di essere una cattiva figlia.

Cattiva non nel senso più banale del termine.

Era stata una figlia abbastanza ubbidiente, educata, ligia allo studio, non era mai tornata a casa incinta, né rientrava tardi la sera.

Non fumava e non beveva.

Eppure non si era mai sentita perfetta, nonostante queste “buone qualità”, che nessuno fra l’altro, le riconosceva.

Infondo non se lo sarebbe neppure aspettato e non lo avrebbe preteso. Non le sembrava neppure importante.

 

Diana non era figlia unica e le era capitato in passato, di fare confronti con i suoi fratelli: erano decisamente più ribelli di lei.

Ma figli ribelli non significa necessariamente cattivi.

Lei aveva creduto di essere cattiva, lo credeva ancora a volte, nonostante fosse ormai una donna adulta che aveva imparato a valutare le cose in maniera più obiettiva; ma quel percorso che l’aveva portata quasi a una sorta di riconciliazione con sé stessa, era stato lungo e tortuoso.

Vista dall’esterno nessuno l’avrebbe mai detto.

Nessuno avrebbe percepito il suo senso di colpa, l’inadeguatezza che l’aveva permeata per anni e il motivo di quel malessere era solo apparentemente semplice; lei aveva scoperto nel tempo di non riuscire a provare affetto per l’uomo che chiamava papà.

Questa era l’unica cosa di cui era certa; lei non provava quei sentimenti che avrebbero dovuto essere comuni in un rapporto tra un genitore e un figlio. Ma non aveva mai capito esattamente che sentimenti fossero i suoi: indifferenza, odio - solo la parola le faceva paura - rancore, rabbia?

Un miscuglio confuso e contorto di tutte queste cose insieme? Forse.

Non era mai stato facile dipanarli.

Era semplicemente certa di non provare affetto; non poteva esserci, in quello che non si poteva neppure definire rapporto.

Un rapporto avrebbe dovuto presupporre un dialogo che di fatto non esisteva.

Mancavano tutte le premesse. Erano sempre mancate.

 

Un giorno, semplicemente, lei aveva smesso di parlare con lui; si era accorta che sarebbe stato un dialogo a senso unico. Non poteva esserci scambio, comunicazione con una persona che era incapace di ascoltare, ma pretendeva di essere ascoltata.

Diana aveva eretto tra loro un muro invalicabile per proteggersi, custodire sé stessa e la sua ingenuità, e nel tempo quello stesso muro l’aveva fatta diventare quasi insensibile; pensava che fosse l’unico modo per non soccombere, per non farsi condizionare la vita da quella scomoda figura paterna.

E nonostante tutto, credeva di essere ancora lei quella sbagliata.

Perché quel silenzio ostinato non era normale e non lo sarebbe stato visto dall’esterno.

E non si sentiva una buona figlia, perché una buona figlia sarebbe stata capace di amare un genitore sempre e comunque.

Dovrebbe essere semplice e logico, naturale come il respiro, amare chi ti mette al mondo.

Per Diana non lo era.

Semplice.

Lei non riusciva.

I suoi erano sentimenti nascosti, oscuri, mai manifestati, che lei aveva cercato di riconoscere, forse anche giustificare. Magari solo quello.

Una giustificazione alla fine, dopo molto tempo, l’aveva anche trovata.

 

Erano sensazioni che aveva iniziato a percepire nell’adolescenza, quel periodo della vita pieno di conflitti, in cui cominci a sentirti estraneo al mondo che ti circonda, perfino alle persone che ti sono più vicine e che improvvisamente vedi come fossero sconosciuti.

Perché si cambia, ma il mondo attorno resta uguale.

Diana si era ridestata nello sguardo di un’ adolescente schiva, riservata e molto insicura e i suoi occhi nuovi le avevano mostrato delle cose insolite, delle sfaccettature diverse della realtà.

Aveva cominciato ad avere una percezione diversa di tutto, in particolare dei suoi genitori, del loro rapporto.

Ricordava ancora una domanda fatta alla madre da una ragazzina dodicenne: perché lo hai sposato?

Non rammentava esattamente la risposta, ma il tono amaro, rassegnato l’aveva colpita; il tono di chi sa di aver commesso un errore.

Un errore senza ritorno che si paga tutta la vita.

Era stato in quel preciso primo momento, che aveva iniziato a vedere come stavano davvero le cose.

Loro non erano ciò che lei aveva sempre creduto… felici?

Erano meno che infelici.

L’infelicità è riservata a chi conosce la controparte.

Erano le due persone peggio assortite che si potessero trovare sull’intero pianeta. Le più lontane.

 

Bruscamente in una manciata di pochi anni aveva incontrato il volto nuovo di suo padre. E forse nuovo non era, in realtà; era semplicemente quello vero.

Una persona sconosciuta, fino a quel momento.

Probabilmente nessuno avrebbe detto che suo padre fosse un uomo cattivo. In apparenza.

Ma non si poteva dire che fosse un uomo buono nel senso più classico del termine.

Almeno lei non riusciva a dirlo, neppure a pensarlo.

Gli anni dell’adolescenza erano stati difficili. Non ricordava che ci fosse stata pace in famiglia.

Lei aveva sofferto indirettamente, da spettatrice passiva di quella specie di vita in perenne tensione, che coinvolgeva sua madre e la sorella minore; in quella tensione era cresciuta la sua rabbia segreta verso il padre.

Era il livore che prendeva allo stomaco, assistere impotente al male che faceva. Vedere quel male e non comprenderlo, non trovare le ragioni. Ricevere male da chi avrebbe dovuto darti il bene.

Lui tornava dal lavoro e appena metteva piede in casa, girava per l’appartamento in cerca della figlia minore, aspettandosi di trovarla curva su un libro a studiare.

Ma se così non era, prima chiedeva dove fosse e la domanda era come una sentenza di condanna, poi usciva per andare a cercarla nel quartiere e di solito la riportava a casa a calci nel sedere.

Portava a scuola la figlia quindicenne la mattina dopo, e lungo il tragitto dove c’erano sempre troppi semafori, le faceva il lavaggio del cervello con delle sfuriate terribili che l’avevano portata vicino all’esaurimento nervoso. E se la sorella non aveva commesso pazzie era solo per non dare ulteriore dolore alla madre.

Era così quasi tutti i giorni.

 

Diana non aveva mai tenuto un diario personale.

Sapeva che se lo avesse fatto, suo padre di notte sarebbe entrato come un ladro nella sua stanza per cercarlo, come per altro faceva con quello di sua sorella.

Lo sentiva entrare furtivo, aprire cassetti e armadi alla ricerca di quei terribili segreti che le figlie potevano nascondere; sigarette, anticoncezionali e il poster di qualche cantante noto del momento.

Il suo diario segreto lei lo teneva chiuso a doppia mandata nel cuore; lì suo padre non sarebbe mai riuscito a entrare.

 

Diana impietosamente vedeva in suo padre un uomo gretto, egoista, che pensava solo a sé stesso; il classico padre/padrone che dettava legge, che pretendeva obbedienza e rispetto senza rendere mai niente in cambio, o molto poco.

E non le piaceva. Nei modi, negli atteggiamenti, nelle idee stantie, nei pregiudizi.

Suo padre aveva oltre ad un ego smisurato, lo strano potere esercitato spesso sulla psiche della sua vittima con parole dure e violente, di far sentire gli altri dalla parte del torto, a volte meno di niente, uno zero, sempre inferiori comunque.

Non dava sicurezze.

Non incoraggiava.

Non dava consigli, ma ordini come se tutti fossero stati servi suoi.

Perché secondo lui, tutto gli era dovuto.

Perché lui non sbagliava mai.

Giudicava, ma non accettava il giudizio altrui, soprattutto se veniva dai figli: non ne avevano il diritto.

Era il suo modo di esercitare il controllo, qualcosa su cui aveva affinato tutta la sua esperienza; la gestione delle vite altrui.

Quelle della moglie e dei figli in primis.

Diana sentiva che era per tutte queste ragioni, che non riusciva ad amarlo...

le umiliazioni alla moglie, le meschinità, le offese, l’incapacità che aveva di comprendere le aspirazioni dei figli e di accettarne le scelte personali.

Il suo giudizio sempre negativo su tutto quello che i figli facevano, che fosse la scelta della scuola o il lavoro da intraprendere nella vita.

Il suo pensare tutto il male possibile di quei figli che lui non conosceva e non si sforzava di conoscere, perché non gli interessava.

La totale e assoluta sfiducia in loro.

Tutto, tutto, tutto sbagliato.

 

Con tali premesse Diana avrebbe potuto giustificarsi, eppure non ci riusciva del tutto. Non completamente.

Per questo aveva creduto che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei; così aveva pensato all’inizio.

Nonostante tutti i suoi difetti, quell’uomo era pur sempre suo padre.

Lei avrebbe dovuto volergli un po’ di bene se i legami di sangue contano qualcosa. Ma forse non contano, e quasi tutto l’aveva spinta a pensare che l’amore non fosse incondizionato; non riusciva a mentire a sé stessa e allo stesso tempo non voleva credere che quel sentimento avesse una sfumatura d’odio.

Forse era un sentimento più vicino all’ indifferenza, o forse neppure quello. Forse era soltanto una gran rabbia.

Forse era incomprensione. Anche verso sua madre a volte, che non si ribellava, che sopportava tutto. Perché?

Per i figli? Forse…

Per paura? Anche…

Forse Diana si rifiutava di capire, o forse capiva anche troppo, in realtà.

Forse vedeva quello che gli altri non vedevano: un uomo accecato da sé stesso. Tanto da credersi quasi un dio.

Lei ricordava l’ironia con cui loro, tra donne avevano imparato a reagire: per non piangere, ridevano di lui.

 

Padre nostro che sei sulla terra, torna nei cieli e restaci!

 

Era un uomo severo suo padre. Ma solo verso gli altri.

Suo padre sì, era perfetto…

Tutti gli altri erano niente; i figli drogati o puttane, e la moglie una pezza da piedi.

Tutto a senso unico; il rispetto, la comprensione, la fiducia. Tutte cose che suo padre pretendeva senza sapere cosa fossero.

Lui non restituiva mai, perché lui non doveva niente, ma gli altri gli dovevano tutto, anche il pane che mangiavano.

E come era capace di farlo pesare.

Io ti mantengo – diceva.

 

Diana ricordava la prima volta in cui quella rabbia trattenuta per troppo tempo, era esplosa come se fosse stata una bomba a orologeria.

Gli aveva urlato in faccia tutto quello che pensava ed era stato come violentare sé stessa, ma lui era rimasto quasi senza parole. Per la prima volta.

Ma era ancora lei che stava male dopo; lei, la rabbia poteva solo tenerla dentro e trasformarla in qualcos’altro, usarla come un’ energia per lottare e andare avanti.

Perché non voleva somigliargli – era il modello da non seguire.

E aveva paura di essere simile a lui.

 

 

Ma alla fine gli anni sono passati per tutti, anche per suo padre.

Adesso è un vecchio che ha perso molta della sua prosopopea che lo aveva contraddistinto per gran parte della sua vita.

Diana è convinta che sostanzialmente non sia cambiato; è un uomo che non ha mai saputo fare autocritica e passa le sue giornate tra la casa e il bar dove lavora quella figlia a cui aveva tentato di fare il lavaggio del cervello.

Diana a volte lo guarda e si chiede che cosa ha raccolto nella sua vita; di tre figli, uno solo lo sopporta e lo accompagna a fare le visite mediche di cui ha bisogno.

Lui diceva di non aver bisogno dei suoi figli.

Prega che sia così – gli aveva risposto quell’unico figlio che pur scontrandosi, ancora gli parlava.

E Diana ancora si sente una cattiva figlia; l’ultima volta che il padre ha avuto un infarto, non è voluta nemmeno andare all’ospedale a trovarlo.

Sa che non è bello, ma non si sente in colpa.

Diana sa solo ciò che sente.

O ciò che non sente.

 

Il muro è ancora alto e non sembra cedere… forse…

Nella vita si raccoglie quello che si semina, alla fine.

Lui ha seminato poco o nulla.

I suoi genitori vivono ancora insieme, ma in stanze diverse.

Lui non fa più tanta paura, ha perso le forze e la cattiveria.

La domenica, quando vengono i figli a mangiare, apparentemente sembra tutto normale. Ma lui non parla più; guarda tutto come fosse uno spettatore poco coinvolto.

Sembra una famiglia normale. Secondo Diana non lo è mai stata.

Diana ora guarda sua madre; l’ha sempre vista come una vittima, l’elemento più debole, ma aveva anche pensato che fosse la più forte, perché aveva sopportato quello che lei non avrebbe mai tollerato; la sua apparente docilità a volte l’aveva fatta arrabbiare.

Quanti perché…

 

Poi un giorno, qualcuno le aveva detto che non c’è vittima che non voglia esserlo.

Lei stessa lo crede e c’era quasi arrivata da sola.

Diana oggi sa che è vero.

Ma è una realtà difficile da accettare e applicare a sé stessi.

O agli altri.

Perché è sempre più facile dare le colpe a uno solo.

Lei spera ancora di riuscire a perdonarsi…

 

 

 

Fine

 

 

 

 

   
 
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