MORGANA
SORELLE LONTANE
Ho tentato molte volte di scriverti una
lettera, ma non ci sono mai riuscita. Non sono mai stata propensa alla
scrittura né alle belle arti, preferendo le attività sportive e da svolgersi
all’aria aperta, una dote che nostra madre non ha mai ammirato con letizia in
me. Umpf, come biasimarla? Del resto sono stata causa della sua morte. La
notizia del mio arresto e del mio esilio hanno contribuito a dare il colpo di
grazia al suo cuore già provato dagli affanni. Povera donna, non ho mai saputo
capire quanto dolore provasse per il mio destino, né ho potuto consolare te,
che sei rimasta, comportandomi come una sorella maggiore avrebbe dovuto.
Forse perché non mi sono mai sentita
una sorella maggiore.
E come avrei potuto? Ti ho odiato,
all’inizio, quando mia madre mi rivelò di aspettare un nuovo figlio dall’uomo
che aveva sposato dopo la morte del marito, un capitano di vascello, in un
naufragio al largo dei Caraibi.
Adoravo mio padre, adoravo la sua
freschezza, il suo sapore di mare, e adoravo quando, da piccola, mi portava in
visita alla nave che guidava, permettendomi di esplorarla da prua a poppa, di
conoscere il suo mondo, di vederlo con i miei occhi di bambina. Nostra madre
invece… beh, lei non era mai stata fiera di lui, lamentando spesso le mancanze
che aveva nei suoi confronti, soprattutto il tempo che trascorreva lontano da
lei, in mare aperto. Potevano passare mesi infatti prima che avessimo sue
notizie, e altri ancora prima di rivederlo, mesi che nostra madre trascorreva
pregando e logorandosi l’anima nella speranza che non accadesse niente di male
all’uomo che a modo suo amava. È strano, solo adesso, dopo più di vent’anni, mi
rendo conto che le sue parole erano sincere, per quanto all’epoca non gli
avessi creduto.
Alla notizie della scomparsa di mio
padre, il capitano Pelagi, rimasi infatti scioccata di fronte alla reazione di
nostra madre. Non gridò, non si disperò, non si gettò in lacrime ai piedi del
portatore di tale ingrata notizia, ma gli voltò lo spalle, sospirando e
accettando quel che aveva temuto per anni. Dopo neppure sette mesi era già
sposata ad un altro uomo, un commerciante conosciuto al porto di Trapani,
durante le sue passeggiate solinghe, quando si perdeva ad osservare
l’orizzonte, sperando di imbattersi nella sagoma del vascello del marito sulla
via di casa. Questo matrimonio non gliel’ho mai perdonato, e ancor’oggi non lo
comprendo appieno. Non comprendo come una donna possa vendersi così, mettendo
da parte con irrisoria facilità i sentimenti provati per un uomo mai capito, e
cambiare vita nel giro di poco tempo.
-
Se tu lo avessi amato
davvero, preferiresti restare da sola, con i tuoi ricordi, che non tradirlo tra
le braccia di un altro! –Le dissi con rabbia quel giorno, l’ultima volta in cui
la vidi.
Era
il giorno della mia investitura a Sacerdotessa Guerriero, un ruolo che mio
padre aveva fortemente insistito che assumessi. Perché mi voleva forte, mi
voleva capace di vivere da sola, senza bisogno di uomini che decidessero per
me. Mi voleva come nostra madre non era mai stata.
Ed era anche il giorno del tuo quinto
compleanno. Da lì a qualche anno avresti iniziato anche te l’addestramento,
presso la Scuola delle Sacerdotesse di Atene, per divenire un Cavaliere. Eri
molto più tenera e dolce di com’ero stata io alla tua età, ma forse eri anche
più sola, poiché, a differenza mia, non hai avuto la possibilità di conoscere
mio padre e il tuo fu solo l’ombra di quel che sarebbe dovuto essere.
Perdonami se l’ho ucciso, Tisifone. Ma
non me ne pento. Affatto.
Meritava quel che ha avuto, per aver
osato prendere il posto di un uomo che si era spaccato la schiena per i sette
mari, rischiando ogni giorno la vita, per inviare soldi alla sua famiglia, e
per averti lasciato da sola, cacciandoti di casa non appena ne aveva avuto
l’opportunità, rinchiudendoti in un mondo di cui ben poco sapevi.
Rimpiango solo di non averlo massacrato
io stessa, ma per rispetto verso colei che mi aveva generato non volli
sporcarmi le mani. Così lo lasciai fare a tre uomini conosciuti al porto di
Atene, che si spacciavano per Cavalieri della Dea della Guerra Giusta, per
quanto io credo che nessuno di loro abbia mai saputo cosa significhi esserlo
davvero, un protettore della giustizia. Lo fecero in fretta, ma non lo fecero
bene, venendo individuati da alcuni informatori del Grande Tempio e accusati di
omicidio.
Trascinati di fronte al Grande Sacerdote,
un uomo anziano dal respiro affannoso, che la maschera d’oro non riusciva a celare,
il Primo Ministro in persona, Arles, un tempo Cavaliere d’Argento dell’Altare,
li accusò, per essersi macchiati di un simile delitto, infangando il buon nome
dell’esercito di Atene. Belle parole,
bella arringa, Primo Ministro! Pensai quel giorno, seduta sugli spalti
dell’arena ad osservare quel pubblico processo, mentre la gente attorno a me
esultava, invocando la morte per i tre colpevoli. La stessa che loro avevano
comminato su mio ordine, a qualcuno che secondo me la meritava. Non potei
esitare un attimo di più, alzandomi e facendomi largo tra la folla, mentre il
mio cosmo si espandeva e riempiva l’arena del Grande Tempio, generando una
tempesta improvvisa, di nubi nere e lampi accecanti.
Non fu in realtà un vero temporale, ma
una mossa che mi permise di avvicinare i tre uomini, nient’affatto sorpresi di
vedermi. Espansero i loro cosmi, decisamente inferiori al mio, e distrussero le
catene di energia che bloccavano i loro polsi e le loro gambe, sorridendo con
un ghigno perverso che sulle prime mi intimorì. Ma poi, quando i soldati del
Grande Tempio realizzarono che la tempesta era un’illusione e iniziarono a correrci
incontro, compresi che il mio destino era segnato, e che avevo fatto la mia
scelta.
-
Cobra incantatore! –Gridai, balzando sui soldati e squarciando i loro corpi con folgori
incandescenti, mentre i tre uomini ne abbattevano altri.
Il
Grande Sacerdote se ne era già andato, scordato dal Primo Ministro, e parte
della folla si era dispersa. Soltanto un vecchio era rimasto a fissarmi,
appoggiato ad un bastone, un vecchio guercio con un occhio di cristallo che
pochi giorni fa mi ha scritto, revocando la condanna all’esilio che il
Sacerdote ci rifilò quel giorno.
Non che me ne sia fatta un problema
all’epoca, di essere cacciata dal Santuario, desiderosa com’ero di girare il
mondo per vedere gli stessi luoghi che aveva visto mio padre, per assaporare le
stesse esperienze che lui aveva vissuto. E infatti, come prima meta del mio
viaggio scelsi un’isola dei Caraibi sulle cui spiagge mio padre era stato
ritrovato morto. Un’isola ove un tempo sorgeva un covo di pirati che sarebbe
presto divenuta la mia nuova casa.
I tre uomini decisero di restare con
me, approfittando della posizione strategica per depredare molte navi che
passavano dal Golfo del Messico e mettendo parecchie ricchezze da parte. Non
avevano un nome o se anche lo avevano non lo ricordavano, così li chiamai in
base alle corazze che avevano indosso, Medusa, Delfino e Serpente di Mare. Delfino
era anche un bell’uomo, e l’unico che una volta abbia tentato di possedermi. Ma
non ero interessata, né a lui né a nessun’altro, volevo solo essere libera.
Come il mare, come mio padre. E all’inizio ero davvero convinta di esserlo.
Col tempo poi, con il diminuire degli
abbordaggi, con la continua minaccia di una spedizione punitiva da parte del
Grande Tempio, e con la solitudine dell’isola, capii che non la libertà avevo
ottenuto, ma una prigione. Una prigione persino più grande di quanto avessi
creduto, e che io stessa avevo contribuito a costruire, con i miei gesti
avventati e immaturi.
Per questo motivo ho accettato l’incarico che Gigars
mi ha proposto, per ottenere la libertà che mi ero negata un tempo. Fai le tue
mosse, Tisifone, fai le tue scelte, ma non venderti mai. Rimani fiera di quel
che sei, della tua libertà di donna, e non permettere a nessuno di portartela
via. Nemmeno a te stessa.
© Aledileo 2009