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Autore: Emily Doe    25/11/2009    6 recensioni
D'istinto indietreggiò d'un passo, senza riuscire a distogliere gli occhi da quelli di lui, dalla violenza nello sguardo di quel ragazzino pallido e dal viso affilato, urtando di spalle lo scaffale alla parete e facendo oscillare pericolosamente il mobile, evidentemente non fissato al muro. Il lieve scricchiolio la fece sobbalzare.
Mi odia.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Disclaimer: I personaggi ed i luoghi qui citati appartengono sapete-benissimo-a-chi, l'importante è che ribadisca l'ovvia ovvietà che io, me tapina, non detengo il minimo diritto su di loro. E che, voi tapini, questa storia è stata scritta per puro divertimento personale. Se Scorpius fosse appartenuto a me, così come gran parte dei pargoli della nuova generazione, avrebbe avuto un nome molto meno indecente: non è che sia brava coi nomi, nono, è che più brutto di Scorpius ce ne vuole, eh! Temo sia impossibile, in effetti *annuisce*
Nota: La proposta della moglia era stata quello che lei chiama un “prompt innovativo” (ti odio dal profondo, donnaccia): Olivander *come protagonista o personaggio secondario ma presente*, inizio d'anno ad Hogwarts :p … qualcosa ne ho tirato fuori XD'. È quel che conta, no? *si nasconde*
E siccome una storia seria ormai è impossibile che la scriva ^^' (e se la scrivo, resta confinata nell'hard disk vita natural durante, a fare la muffa) e ci ho rinunciato, questa storiella partecipa all'iniziativa Criticombola @ Criticoni, con il prompt 41, Sgabuzzino. Abbiate pietà di me XD'











Through her eyes





Accidenti, se le sembrava tutto così immenso ed eccitante al tempo stesso. Erano anni, ormai, che sognava questo momento, che immaginava la sensazione di tenerne una fra le dita – sua e solo sua –, una sensazione magica, stando a quanto le avevano raccontato i suoi genitori, gli zii e quello sbruffone di suo cugino James, che essendo di un anno appena più grande, ora credeva di poter elargire perle e lezioni di vita a chiunque. Ci aveva provato perfino con sua madre, ma Ginny l'aveva ridimensionato in un batter d'occhio, con la minaccia di una delle sue temibili fatture Orcovolanti, ed un “Altrimenti niente più torta di mele, quando torni”, che davvero poco trasmetteva dell'idea di un uomo arrivato, come lui si riteneva.
Rose inspirò profondamente, socchiudendo gli occhi ed aprendo le mani davanti al petto, gesticolando piano a se stessa nel tentativo di calmarsi. L'odore caldo ed aromatico di un quantitativo immenso di qualità di legno differenti riempiva l'aria, e le comunicava immagini di immense biblioteche, ed infinite e dispettose scalinate, così come di avvincenti partite di Quidditch e delle lunghissime tavolate, colme di pietanze prelibate, della Sala Grande.
Così tante volte aveva ascoltato, rapita, emozionata, spaventata, felice, le voci dei suoi genitori raccontarle di avventure via via più emozionanti, e di amicizie, di rivalità, di balli e di gare tra casate; così tante volte aveva trattenuto il respiro, quasi senza rendersene conto, nell'udire di pozioni ed incantesimi, di trasfigurazioni andate male e di quelle che avevano avuto esiti un po' più felici – chissà perché, di solito era la mamma a risollevarle il morale, quando suo padre le raccontava di come, per anni, avesse ottenuto come massimo risultato quello di trasfigurare il suo topo in una strana tazza pelosa, munita di coda – e tante volte la Foresta Proibita, gremita di esseri sconosciuti, pericolosi ed innominabili, le aveva riempito i sogni, trasformandone molti, con un ululato verso la luna e lo scalpiccio pesante di creature mitologiche, in qualcosa di vagamente simile ad un incubo.
Ed ora si trovava di fronte a tutto quello. Era il suo turno, finalmente, era la sua occasione. Riaprì gli occhi con un sorriso raggiante che le illuminava il volto: aveva davvero creduto che quel momento non sarebbe mai arrivato, e anche in quel negozio buio e strapieno di scatoline rettangolari stipate le une sulle altre, in mezzo alla stanza, addossate alle pareti, o ad ingombrare prepotentemente qualsiasi superficie piana, continuava a ripetersi che di sicuro non sarebbe mai potuto giungere troppo presto.
“Allora, che ne pensi?”
Rose si portò per un momento le mani sulle labbra, coprendole emozionata, continuando a guardare con occhi scintillanti di entusiasmo ogni minimo particolare del negozio del famoso Olivander.
“È semplicemente meraviglioso, mamma!”
Sua madre, Hermione Weasley née Granger, la stava osservando con l'orgoglioso affetto commosso che solo una mamma può provare. Era incredibile come, attraverso i suoi occhi, potesse rivedere se stessa, e Ron, e nessuno dei due, come era giusto che fosse: sua figlia dimostrava lo stesso amore per lo studio che l'aveva spinta a crearsi la nomea di secchiona, ai suoi tempi, e lo stesso entusiasmo genuino e l'innata vivacità di suo padre, e pur essendo così simile ad entrambi, non avrebbe potuto essere più diversa, in molte cose. Era la sua Rosie, ed era cresciuta.
Si affrettò a battere le palpebre per scacciare quel velo opaco che le aveva appannato la vista, sperando che sua figlia non lo notasse, ma, come sempre...
“Dai, mamma,” fece lei, ridacchiando divertita. “Adesso non metterti a piangere, eh!”
Hermione si passò rapidamente una mano sugli occhi, guardando in alto.
“Non una parola con tuo padre.” le sussurrò poi, con aria cospiratrice.
Rose annuì giusto in tempo.
“Cos'è che non devo sapere?” si informò l'interessato. “Non ci sarà qualche segreto che mi state nascondendo, vero?” assottigliò gli occhi, aggrottando la fronte. “Non dirmi che c'è qualche Serpeverde che ti piace!”
Le due donne di casa Weasley rotearono gli occhi all'unisono, e non fosse stato per la sfumatura ramata dei capelli della più giovane, una sarebbe stata la perfetta trasposizione adulta dell'altra.
“Papà, non ricominciare. Non ho neppure messo piede ad Hogwarts!”
“Sono subdoli. Insidiosi. Quando meno te l'aspetti loro...”
“Ron,” lo ammonì Hermione, bonariamente.
“Hermione, è la mia bambina!”
La bambina in questione nascose il viso tra le mani, mentre i due avventori che avevano finito i propri acquisti proprio in quel momento se ne andavano con un sorrisetto divertito. Quando la porta si richiuse, producendo un lieve scampanellio, da un pertugio accanto ad un mobile stipato di scatoline che nessuno aveva notato prima, fece capolino un anziano signore. Molto anziano. Molto, molto, molto anziano. Così anziano che, Rose ne era certa, perfino Albus Silente, che di anni non ne aveva avuti pochi, quand'era stato preside ad Hogwarts, avrebbe mostrato sorpresa e sicuro apprezzamento, nel veder la sua vecchia, bianca barba aggirarsi ancora tra gli scaffali di quel negozio che aveva visto così tante generazioni di maghi. Se l'immaginava, dietro la cornice del suo ritratto nel famigerato ufficio del preside, con quello scintillio nei sorridenti occhi azzurri... Rose aveva sempre osservato i suoi genitori, quando parlavano di quel signore, Albus Silente, il Grande Mago da cui suo cugino minore aveva preso il nome e che era stato un eroe del passato, e si era sempre sentita orgogliosa dell'espressione di consapevolezza che si faceva strada sul viso di sua madre, e su quello di suo padre. Loro avevano combattuto al suo fianco.
Ma l'orgoglio è rapido a svanire, quando si ha un padre come Ronald Bilius Weasley, e Rose l'aveva imparato a proprie spese.
“Allora è vero che è ancora vivo,” lo sentì dire a sua madre, non sufficientemente piano, mentre lei cercava di rifilargli una gomitata senza dare troppo nell'occhio, prima che potesse aggiungere altro.
Olivander neppure lo guardò, impegnato com'era ad armeggiare con alcuni registri che aveva portato con sé ed una piuma che sicuramente aveva visto tempi migliori. Probabile che Ron fosse sorpreso di rivedere anche lei, per intenderci.
“Sono ancora vivo, e ci sento ancora discretamente, signor Weasley.”
L'occhiataccia che Rose lanciò a suo padre avrebbe potuto gareggiare solamente con quella, gemella, di sua madre, e Ron si trovò nella spiacevole situazione, per lui abituale, di dover arrossire, massaggiandosi la nuca, rimproverato anche dalla figlia undicenne.
“Olivander, mi fa davvero piacere rivederla.”
Fortuna che c'era la mamma a salvare le situazioni, il più delle volte, col suo tono diplomatico e cortese, e la bella presenza, pensava Rose, sentendosi tutta orgogliosa di Hermione e della somiglianza fisica che poteva vantare con lei.
“Ben trovata, signorina Granger... ah, ormai dovrei dire, immagino, signora Weasley. Signor Weasley, ricordo ancora la sua bacchetta brutalmente spezzata a metà, e la sua incoscienza nel continuare ad usarla...” annuì lentamente, avanzando verso il bancone, proprio davanti a loro. Ron si guardò attorno, a disagio, ormai inevitabilmente rosso in zona orecchie, quello che Hermione chiamava 'il punto di non ritorno'. “E qui vedo che una signorina è pronta a diventare una strega a tutti gli effetti, non è vero? Ah, la nuova generazione... proprio un'oretta fa è passato il signor Potter... bene, bene, vediamo cosa possiamo fare.” sollevò gli occhi azzurri, resi opachi dall'età, su una Rose sempre più agitata. “Venga qui vicino, signorina Weasley.” le fece un cenno incoraggiante, ma distratto: aveva già cominciato a tirare fuori dalla base di una pericolante pila di scatoline alcune bacchette magiche.
Rose fece come le era stato detto, torcendosi le mani.
“Oh, stia tranquilla, non deve fare nulla, quindi non stia lì a preoccuparsi,” sorrise Olivander con l'aria di chi ne ha viste tante, di scene come quella. “È la bacchetta a scegliere il mago o la strega, mai il contrario.” così dicendo, sollevò il coperchio blu scuro della prima scatolina prescelta. “E poi le servirà la mano libera, no?”
Quando si vide porgere quel semplice pezzetto di legno, agli occhi di Rose si aprirono mille possibilità. Era vero? Non era uno di quei sogni stupidamente realistici, giusto? L'odore del negozio, il legno lucido, il mugolio annoiato di suo fratello Hugo... stava davvero succedendo? Guardò sua madre, in cerca di certezze, chiedendosi se sarebbe mai diventata decisa e sicura, regolata e bella come lei. Quando Hermione le sorrise incoraggiante, adducendo un quasi impercettibile cenno del capo, sentì che forse sarebbe stato possibile. Hogwarts sarebbe stato il suo posto, e lei avrebbe potuto leggere gli stessi libri della mamma, ed accoccolarsi sulla stessa poltrona di suo padre – perché, ne era certa, sarebbe finita a Grifondoro. E se così non fosse stato, avrebbe sempre potuto organizzare qualche scorribanda, con l'aiuto di Albus, James ed i cugini più grandi, per andare a trafugare quella stessa poltrona e trasportarla nel proprio dormitorio. Avrebbe potuto essere se stessa, diversa e come loro, e, soprattutto, vicina a loro, anche se fisicamente lontana.
Spostò nuovamente lo sguardo sulla bacchetta che Olivander le tendeva, allungò la mano destra, cercando di non farla tremare – non troppo, almeno – e strinse delicatamente le dita attorno all'oggetto tanto agognato. Fu come scoprire una parte di sé che si sapeva esistere, ma che non si conosceva davvero; la superficie liscia e levigata del legno e quella stretta allo stomaco erano indubbiamente vere. E, pensò Rose, incapace di fermare il cervello anche per qualche secondo, avvertendo quel calore sconosciuto e conosciuto invaderle il cuore, insindacabilmente magici. James non aveva esagerato la cosa, era davvero così: era come tornare a casa.
“Cuore di ciliegio, penna timoniera di ippogrifo,” la voce chiaramente soddisfatta dell'anziano proprietario del negozio strappò Rose dalle riflessioni su quelle sensazioni improvvise. “Decisamente quella adatta a lei.”
Fu quasi con dispiacere che la ragazzina lasciò che Olivander riprendesse la bacchetta, solo per adagiarla nella sua custodia, con cura e deferenza, e chiudervela all'interno.
Sua madre le poggiò una mano sulla spalla, sorridendole ancora. Doveva essersi asciugata di nascosto gli occhi, ora arrossati. Ah, le mamme!
“Al primo colpo. Te l'avevo detto, no?”
Rose le sorrise di rimando.
“Quasi sempre.” non riuscì a frenare la lingua e se la morse troppo tardi, temendo d'aver detto qualcosa di poco cortese nei confronti dell'anziano signore. A volte l'influenza di suo padre si faceva sentire.
“Oh, si fidi, signorina Weasley: Harry Potter è stato l'eccezione che conferma la regola,” si intromise Olivander. “Proprio per questo ho fatto un asterisco in inchiostro rosso, nei miei registri, nel caso i posteri dovessero andare a controllare.”
Al sentir nominare quei volumi, la ragazzina si morse il labbro inferiore, evidentemente combattuta riguardo a ciò che avrebbe desiderato poter dire. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di distrarre l'anziano Olivander dalla compilazione del suo registro.
“Signor Olivander, non è che potrei...” evitò di guardare sua madre, sapeva che le avrebbe detto che 'non era il caso'. “Dare un'occhiata ai registri delle vendite? Solo per vedere se riesco ad incontrare qualche nome che ho studiato sui miei libri, e su Storia della Magia...” la sua vocina, già di per sé sottile, si assottigliò ulteriormente quando lui puntò lo sguardo su di lei, le bianche e folte sopracciglia corrucciate, pensieroso.
Abbozzò allora un sorriso incerto.
“Se non è possibile, non...”
Proprio in quel momento la porta del negozio si aprì, lasciando entrare una folata di vento che fece volare lontano due fogli di pergamena, sul pavimento; Olivander li osservò imperturbabile. Rose si sistemò dietro le orecchie i capelli che le erano scivolati sul viso, prima di voltarsi istintivamente verso le due figure che avevano appena fatto il proprio ingresso nello stretto locale.
Se avesse anche solo sospettato che i suoi genitori potessero conoscerle, la reazione di suo padre sarebbe stata la conferma del sospetto: trattenne improvvisamente il respiro, irrigidendosi e gonfiando inconsciamente il petto, perdendo l'abituale apparenza di rilassatezza estrema – una cosa che tanto le piaceva in lui: sembrava a suo agio, rilassato, spontaneo e tranquillo in praticamente tutte le situazioni, nonostante la goffaggine più che occasionale che di quando in quando mostrava, anche se con imbarazzo. La mamma diceva che quand'era giovane non era così, e rideva di gusto nel ricordarlo, ma a lei era sempre sembrato impossibile. Riusciva a risolvere qualsiasi incomprensione con una battuta ed una risata, con quel sorriso conviviale che le sembrava tanto affascinante, anche se, da quand'era diventata una signorina, l'aveva messa in imbarazzo più d'una volta.
Cominciò ad avere i primi seri dubbi sul probabile pericolo quando lo vide affilare lo sguardo in direzione delle due figure ammantate. Vagamente allarmata, cercò gli occhi di sua madre, e ciò che vide non la tranquillizzò affatto.
“Ron, che ne dici di...”
Malfoy.
La voce di sua padre sembrava avere più la sfumatura di una sfida, di una ripicca di bambini mai risolta, che quella di un semplice saluto. Hermione alzò gli occhi al cielo, e le due figure si voltarono in simultanea. Capelli biondissimi, occhi chiari, indubbiamente padre e figlio. Un figlio che, trovandosi quel giorno da Olivander, con tutta probabilità era alla ricerca della sua bacchetta magica, e sarebbe quindi stato un compagno di scuola per Rose. Un cartello enorme, rosso e lampeggiante, con la scritta 'Allarme papà!', cominciò ad illuminarle a scatti, abbagliante, la mente.
“Weasley,” rispose il più alto dei due, sollevando un sopracciglio con un'aria che non si discostava molto, nel senso e nel concetto, dal saluto di suo padre. “Granger.”
Al cenno rapido, secco, che quell'uomo rivolse a sua madre, lei rispose con un educato e pacato: “Buongiorno, Malfoy.”
“Sai, si chiama Weasley anche lei, adesso.” buttò lì Ron, mentre, con nonchalance, ripescava Hugo dallo scaffale che stava letteralmente smontando. Quel bambino era davvero un disastro.
Rose, sempre più inquieta, spostava lo sguardo, incerta, da suo padre all'uomo biondo chiamato Malfoy.
“Cosa ci fai, qui?” continuò poi Ron, facendo mugolare piano sua moglie. “Credevo che le bacchette magiche, nella vostra aristocratica ed assolutamente purosangue famiglia, si ereditassero.”
Al cartello 'Allarme papà!' si aggiunse quella che sembrava quasi la sirena dei pompieri Babbani, nella testa di Rose. Ed era assordante. Impossibile da ignorare: pericolo imminente.
Draco Malfoy, di cui Rose aveva sentito parlare parecchie volte, ed in toni tra loro parecchio differenti, volse lo sguardo verso Olivander, che aveva appena aperto bocca.
“Non dica sciocchezze, signor Weasley,” sbottò quello, chiudendo di scatto il registro e ripescandone un altro da sotto il bancone, facendo cenno al ragazzino, il figlio di Draco Malfoy, di avvicinarsi. “È un'usanza assurda e ridicola: l'ho detto e ridetto, saranno secoli che lo ripeto... è la bacchetta a scegliere il mago, non il contrario.” A quelle ultime parole lanciò un'occhiata penetrante al padre del ragazzo biondo, che sollevò il mento.
“È arrivata?” si limitò a rispondere al vecchio negoziante.
Lui si chinò con una smorfia ed un borbottio inintelligibile, tenendosi una mano sulla schiena, per recuperare una scatolina dall'aspetto lussuoso, che poggiò sul tavolo di legno rovinato e graffiato che utilizzava come bancone di prova.
“Dritta dritta dalla Norvegia, frutto di una lavorazione discutibile, ma...”
“Signor Olivander,” lo interruppe Malfoy, superando la famiglia Weasley, e tirando fuori un sacchetto dall'aria pesante. “Quanto le devo?”
“Ha! Hai sentito, Hermione? Al figlio di un Malfoy non va bene una normalissima bacchetta magica inglese,” esclamò suo padre, appositamente ad alta voce perché tutti potessero sentire.
Rose non ne sapeva nulla, di quella storia, e nulla voleva continuare a saperne.
“Papà,” sperò che quel debole avviso bastasse, ma non ne era affatto convinta.
“Mia figlia Rose può batterne tre di bacchette norvegesi, e ad occhi chiusi.” proseguì lui, infatti, tronfio ed incurante.
La figlia 'incriminata' sentì il sangue affluirle con rapidità in viso, ed improvvisamente capì quel che intendeva la mamma, ed era vero: a volte Ronald Bilius Weasley era solo da uccidere seduta stante. Con lo sguardo, con la bacchetta, o a mani nude: nessuna differenza, l'importante era il risultato. Le macchie di sangue, poi, si sarebbero potute pulire, con un po' di insistenza e costanza.
Draco Malfoy non rispose, mentre pagava la norvegese bacchetta magica di suo figlio, ma si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito e sarcastico davvero evidente.
“Non ci credi? Allora facciamo...”
“Ron!” quando la mamma usava quel tono di voce, di solito il papà taceva: non lasciava presagire nulla di buono. E non riguardava solo la cena in arrivo, in genere.
Olivander, nel frattempo, scuoteva la testa, borbottando senza sosta, come una pentola di fagioli, volendo usare un detto Babbano.
“Fabbrico bacchette da non so più neppure quanto tempo, e devo ancora avere a che fare con qualcuno che crede che la lavorazione norvegese sia migliore. Cosa direbbero se sapessero che nei miei registri annovero persone come Francis Bacon, o Enrico VIII? Con l'abbondanza che la sua armatura presentava in certi punti, poi, non so come abbiano fatto i Babbani a non sospettare che facesse uso della magia e, dobbiamo dirlo, di una bacchetta magica davvero potente. Ah, se sapessero come trattano quel povero legno, in Norvegia... con tutti quei castori... e come testano le bacchette! Andare fin lì per provarne una quantità immane e ridicola, ché non sono mica in grado di trovarla al primo colpo, loro, poi!” scrisse rapidamente qualcosa sul nuovo registro. “E da quando sono diventato il polo di raccolta e smistamento di merci estere? Che amarezza,” ma si guardò bene dal restituire le luccicanti monete d'oro che Malfoy senior aveva lasciato tintinnare sul bancone consunto. Poi sollevò lo sguardo presbite sulla scena che aveva davanti agli occhi, scuotendo il capo per l'ennesima volta. “Certe cose non cambiano mai.”
“Mia figlia sarà la migliore del corso, non è vero, Rose?” continuava imperterrito Ron, rifilandole pacche un po' troppo violente sulla schiena. Lei intercettò di sfuggita lo sguardo del figlio di Malfoy, muto ed immobile a poca distanza.
“Papà, sarà un mio compagno di scuola!” sibilò irritata, a bassa voce, temendo più che mai che suo padre potesse metterla in cattiva luce fin da subito. Cosa che senza dubbio era già avvenuta. La reputazione va coltivata con cura, e lei ci teneva davvero a fare amicizia.
“Rose, è un Malfoy! Devo darti qualche dritta, prima di...”
“Per favore!” insistette lei.
“I Grifondoro, tutti uguali,” biascicò Draco Malfoy, passando la lussuosa scatolina a suo figlio, che la strinse a sé con bramosia.
“Cosa vorresti insinuare?”
“Io? Assolutamente nulla. Mi sembra tutto chiaro ed alla luce del sole.”
“Vuoi una sfida? Qui? Ora? Adesso?” fece per strapparsi di dosso il mantello con forza, ma vi rimase impigliato e gemette per la frustrazione. “Lasciamo da parte i nostri figli, pensiamoci noi,” proseguì, ignorando l'aria divertita che il suo avversario non tentava neppure di nascondere e l'occhiataccia assassina di sua moglie.
“Ron, basta, falla finita!” esclamò lei di botto, afferrandolo per un avambraccio e costringendolo a voltarsi. “Piantala di fare il bambino!”
“Cosa? Hermione, non...!”
“Papà!” squittì Rose, con aria supplichevole e notevoli tracce di rossore che si facevano strada sulla carnagione chiara. L'unica era puntare su quella carta, su quella promessa: le dispiaceva, sì, ma a mali estremi... “Avevi promesso che saresti rimasto fuori!”
Ron la guardò, gli occhi chiari adombrati, e, alla vista del suo viso, si grattò la nuca, abbassando di colpo la voce, con espressione ferita. Non avrebbe mai voluto che sua figlia dovesse vergognarsi di lui, però da quand'era cresciuta succedeva più frequentemente di quanto avesse potuto immaginare. “Vuoi dire che... Ehm, ho esagerato...? Hermione, hai...”
Sua moglie gli rivolse un'occhiata eloquente, le labbra increspate, trattenendo a stento un'espressione che, Rose lo sapeva, si sarebbe trovata a metà tra un sorrisetto esasperato e rassegnato, forse anche intenerito, ed una smorfia piccata.
“Ron. Per piacere. Ne abbiamo parlato, ricordi?”
Lui fissò prima Hermione, poi sua figlia, con quell'aria di ragazzino che gli modellava i tratti nell'espressione afflitta che Rose detestava vedergli addosso – dopo avrebbe dovuto risollevargli l'umore, chiedendogli un consiglio sulla tribuna migliore da cui seguire la partita di Quidditch, o la scorciatoia più rapida e meno conosciuta per la Torre di Grifondoro -, poi borbottò qualcosa, agguantò per il colletto della maglietta Hugo, che, imperturbabile, stava frugando tra le scatole vuote rimaste in terra alla ricerca di qualcosa d'interessante, e si avviò verso l'uscita.
“Andiamo, campione. Qui non siamo benvoluti. C'è il negozio di manici di scopa professionali che ci aspetta.”
Il bambino osservò con i suoi occhi azzurri quello che doveva apparirgli come un gruppo di pazzi, domandandosi perché mai dovesse essere lui a non essere benvoluto: in fondo in quel negozio ce n'era tanto, di disordine! Scatola più in terra, scatola meno...
“Loro non vengono?”
“A loro non interessano.”
Hugo allora assunse l'espressione di chi ha capito tutto e diede una pacchetta comprensiva sul braccio di suo padre, seguendolo fuori dal negozio; poco prima che la porta si richiudesse, gettando nuovamente il locale nella penombra, sentirono la voce infantile del minore dei Weasley sospirare enfaticamente:
Donne.”
Hermione inarcò un sopracciglio.
Il silenzio improvviso che era calato tra tutti loro fu rotto dalla voce crepitante di Olivander, qualche istante dopo.
“Per quanto riguarda la sua richiesta, signorina Weasley...”
Sua madre si affrettò a riprendere in mano le redini della situazione che, come pareva essere successo parecchie volte in passato, almeno con Ron, le erano sfuggite per qualche istante.
“Rose, non credo sia il caso...” eppure dal suo sguardo pareva interessata quanto lei.
Olivander si schiarì la voce.
“Nessun problema: è sempre un bene quando i giovani decidono di ferrarsi sulle radici di mestieri secolari e condotti con tale professionalità come il mio,” Draco Malfoy non fece una grinza all'occhiata che Olivander gli riservò. “Dietro quell'angolo – lo vede quel mobile alto e storto? Quello che sembra pericolosamente pericolante? - c'è una sorta di sgabuzzino. È lì che tengo i registri delle vendite. A me non servono, visto che ricordo tutto a mente, ma con l'avanzare dell'età... non si sa mai. Quindi cerchi di non mettere nulla in disordine, mi raccomando.”
Rose annuì entusiasta, e, incapace di contenere il proprio entusiasmo, prima che il proprietario del negozio si rimettesse a parlare con il signor Malfoy riguardo alla verifica della funzionalità di alcune bacchette di chissà quali parenti francesi, che stavolta Malfoy voleva fosse eseguita da lui in persona, scomparve dietro l'alto scaffale, anche lui colmo e straripante di scatoline, che le era stato indicato, lasciando come sempre a sua madre il compito di pagare gli acquisti – e promettendosi di riferirle ogni minimo particolare di quei plichi che, lo sapeva, tanto le sarebbero interessati. Il piccolo ambiente che Olivander aveva definito 'una sorta di sgabuzzino' era, in realtà, uno sgabuzzino vero e proprio, forse reso semplicemente più alto – faceva girare la testa anche il solo semplice alzare lo sguardo: pareva che a quelle librerie, che si innalzavano verso il soffitto, non ci fosse mai una fine – per opera di qualche vecchissimo incantesimo, ed era probabilmente lo spazio più colmo di libri che Rose avesse mai visto. Più colmo perfino della libreria della mamma, a casa, che ormai minacciava di aver bisogno di una stanza a sé stante. I mobili alle tre pareti disponibili straripavano di registri ingialliti e via via più vecchi, mano a mano che si saliva verso la cima – non visibile, vuoi per il buio, vuoi per la conformazione non esattamente Babbana del locale: chissà se c'era davvero un soffitto, lì dentro -, che odoravano di umidità, di polvere, e di inchiostro secco, forse ormai anche sbiadito. Rose inspirò quella miscela particolare, affascinata come sempre da tutto ciò che riguardava la storia, la magia, la storia della magia ed i libri, specialmente quelli vecchi e puzzolenti, come James li aveva definiti una volta, scatenando l'ilarità di Hugo.
Allungò la mano e sfiorò con le dita, delicatamente, le costine consunte, a volte slabbrate e che lasciavano intravedere e penzolare i fili della rilegatura. A quel movimento, una scala cigolante, ancorata ai ripiani degli altissimi mobili, le arrivò incontro, fermandosi proprio accanto a lei: se quello era un invito, Rose Weasley non l'avrebbe di certo rifiutato. Si arrampicò con cautela, poggiando i piedi sugli scalini dall'aria poco rassicurante, cercando di non pensare allo scricchiolio inquietante che ogni passo o minimo spostamento su quel trabiccolo produceva, e si arrampicò su, in alto. Sfilò fuori qualche volume dalle mensole, non senza fatica, visto come si trovavano pressati l'uno contro l'altro, e tenendoli stretti al petto con un braccio, ridiscese. Quando mise nuovamente i piedi sul pavimento non meno vecchio del pericolante trabiccolo, ma indubbiamente più stabile, si voltò e si trovò, con un sussulto di inaspettata sorpresa, a fissare il profilo del figlio di Malfoy, il protagonista di tanti degli aneddoti più antipatici e spiacevoli che suo padre aveva saputo raccontarle in undici anni di vita, e che evidentemente stava ancora conducendo le proprie trattative.
Senza far rumore – una qualità che non aveva certo ereditato da suo padre – fissò per qualche istante quello che doveva essere l'unico figlio dei Malfoy, Scorpius, a sua volta distrattamente intento nell'osservazione dei registri stipati nelle mensole a portata d'occhio. Aveva la carnagione estremamente chiara, i tratti affilati ed i capelli biondissimi: a quanto aveva sentito dire, suo padre doveva essergli assomigliato molto, in giovinezza, anche se, come diceva sempre papà, dai pochi capelli che ormai gli rimanevano - “Esagerato!”, lo riprendeva sempre la mamma – non si sarebbe detto.
Rose aprì la bocca e la richiuse subito, esitante e nervosa: ricordava che suo padre le aveva detto e ripetuto – un quantitativo vergognosamente alto di volte, a dire il vero – di battere quel ragazzino in ogni campo, di dargli qualche bella batosta, di non farsi mettere mai i piedi in testa, specie da un Malfoy, ma lei... lei in fondo voleva solo fare amicizia. Magari... magari avrebbe potuto fargli conoscere anche Albus! James no, era già – o meglio, si reputava tale – troppo grande per loro. Cosa ci sarebbe stato di male?, rifletteva Rose in quell'istante di incertezza, i neuroni che lavoravano a mille, come sempre, incapaci di fermarsi. Se fosse stato solo, gli avrebbe fatto piacere avere qualcuno con cui dividere lo scompartimento in treno... ed in caso contrario, era sicura che avrebbero potuto invitare anche i suoi amici. Albus di certo non se la sarebbe presa, e più si era, più ci si divertiva... non lo diceva sempre anche lo zio George?
Annuì tra sé e depositò con cura sugli scalini della scaletta pericolante i volumi che aveva imbracciato, sollevando qualche sbuffo di polvere; rapidamente si pulì le mani impolverate sulla gonna. Facendosi un poco di coraggio, gli si avvicinò di poco, con la mano tesa, in un gesto che aveva sempre considerato adulto e signorile, ed un lieve sorriso, ma fu solo quando socchiuse le labbra per rivolgergli la parola che lui si voltò e la fissò dritto negli occhi.
Se Rose avesse mai creduto che un semplice sguardo non potesse non solo essere d'impatto, ma esserlo così tanto, ora avrebbe dovuto ricredersi, e di corsa: si immobilizzò, come fosse stata congelata in quel frangente, la mano timidamente tesa, il sorriso freddato sul nascere, i muscoli del viso impossibilitati a modellarsi in altro modo. Quel ragazzino, undici anni a malapena, la fissava con un'intensità che mai aveva potuto sperimentare, perlomeno non rivolta alla propria persona. I suoi occhi erano di un colore strano e particolare, un grigio chiaro venato di blu, un sottofondo vellutato che avrebbe potuto rendere quello sguardo meno freddo, se non fosse stato conficcato come una lama, tagliente e senza la minima cordialità, negli occhi di lei. Si sentiva come se il suo corpo fosse stato investito da un'onda d'urto, come se avesse sbattuto, cozzato contro una barriera invisibile che l'avesse lasciata a corto di fiato, svuotandole con forza i polmoni al momento dell'impatto, e che l'avesse tenuta a debita distanza. Una barriera inaspettata, e che per questo la faceva sentire ancor più spaesata.
Il suo sguardo non era lo sguardo di un ragazzo della sua età, quasi un bambino; il suo sguardo non tentava neppure di celare una violenza fuori controllo, un odio profondo e radicato per una persona che vedeva per la prima volta nella sua vita, e quella destabilizzante aggressività che mai si sarebbe aspettata, e che la spaventava. Turbata, quando fu tornata minimamente padrona del proprio corpo, d'istinto indietreggiò d'un passo, senza riuscire a distogliere gli occhi da quelli di lui, dalla violenza nello sguardo di quel ragazzino pallido e dal viso affilato, urtando di spalle lo scaffale alla parete e facendo oscillare pericolosamente il mobile, evidentemente non fissato al muro. Il lieve scricchiolio la fece sobbalzare.
Mi odia.
L'unico pensiero cosciente nella sua mente paralizzata da quel brusco ed anomalo contatto, e neppure la forza di razionalizzare il fatto che non le avesse nemmeno rivolto la parola, cosa che rendeva le reazioni di entrambi, se ne sarebbe accorta se avesse avuto il tempo di pensarci da estranea, a mente fredda, sproporzionate.
Non riusciva a deglutire, a malapena si rendeva conto di aver bruscamente espirato e trattenuto il poco fiato rimastole in petto: lui continuava a fissarla con quel fuoco freddo negli occhi, e se Rose non fosse stata così violentemente coinvolta dal suo sguardo, avrebbe visto che aveva la mandibola rigidamente serrata. Avrebbe notato le mani strette a pugno, lungo i fianchi, che tremavano appena.
Perché? Cosa poteva avergli mai fatto? I loro genitori, in fin dei conti, non erano stati dalla stessa parte, nell'Ultima Guerra? Non era quella la cosa che contava? La mamma le aveva sempre ripetuto che molti, in quegli anni, avevano commesso errori di cui si erano amaramente pentiti, per il timore che ai propri cari succedesse qualcosa di orribile... e che quel che conta è l'animo di una persona, qualcosa che va oltre gli errori, oltre gli sbagli, parte fondamentale della vita dell'uomo o della donna che si imparerà ad essere. L'aveva anche avvisata che 'il figlio di Draco Malfoy, Scorpius', che sarebbe andato ad Hogwarts per la prima volta quell'anno, come lei e suo cugino Albus, avrebbe potuto rivolgerle parole ed epiteti poco cortesi, ma di non farci caso più di tanto: nulla era dato per certo, l'educazione ricevuta cambia, o almeno spero, aveva detto la mamma, abbassando lo sguardo... ma in ogni caso avrebbero dovuto essere schermaglie da bambini, piccole invidie e competizioni, al massimo qualche cattiveria un po' troppo perfida, ma non quello sguardo, non quella rabbia violenta, quasi smisurata in quegli occhi chiari di bambino.
Con i pensieri in subbuglio, che cozzavano gli uni contro gli altri, e la sola consapevolezza di quegli occhi pieni di rancore fissi nei suoi, Rose non riuscì neppure ad abbassare la mano che prima, con speranza e semplicità, aveva teso verso di lui. Il suo cuore non aveva accelerato i battiti, ma ogni singola pulsazione vibrava con prepotenza, nel silenzio assoluto che l'aveva avvolta – che sembrava aver avvolto entrambi –, e le rimbombava pesantemente nel petto, nel sangue che le pulsava alle tempie, e nelle orecchie.
Sembrava passata un'eternità, mentre probabilmente erano trascorsi solo pochi secondi, quando una voce strascicata si levò da dietro l'angolo.
“Scorpius, andiamo?”
L'ultimo secondo che l'interessato impiegò per continuare a fissarla parve un ritardo incommensurabile, agli occhi di lei, e stonò con la naturalezza con cui la sua voce, così diversa da quello sguardo, una voce ancora da bambino, rispose alla domanda.
“Sì, papà.”
E, senza dire una singola parola rivolta a colei cui aveva riservato uno sguardo di tale carica emotiva – positiva o negativa che fosse, era sempre uno sguardo vivo –, andò ad affiancare suo padre e, insieme, se ne andarono. Poco prima di scomparire oltre l'angolo, Draco Malfoy aveva rallentato il passo, si era voltato lentamente, e l'aveva guardata in viso: Rose, con gli occhi ancora fissi sulla schiena di Scorpius, non aveva potuto vedere la strana ombra che aveva lampeggiato nello sguardo di Malfoy senior.
Lentamente, ritrasse la piccola mano che aveva teso, portandola al petto, chiudendola su se stessa, a pugno.
“Arrivederci, signorina Weasley.”
Fu l'unica cosa che udì, prima che i due scomparissero alla sua vista ed aprissero la porta, producendo per l'ennesima volta quel tintinnio di campanelli. Scorpius Malfoy non si voltò neppure una volta: uscì semplicemente dal negozio, urtando lievemente Hermione, che aveva appena finito di parlottare con Olivander e che guardò i due finché non si mischiarono alla folla presente ogni primo settembre a Diagon Alley. Rose non poté quindi notare l'occhiata di sua madre, non vide come le si avvicinò circospetta, venendola a cercare: rimase immobile, la mano stretta all'altezza del petto, e quella sensazione di inquietudine che le vibrava dentro, innegabile quanto inspiegabile. Quando la mamma le fu accanto, poggiandole piano, con delicatezza, la mano sulla schiena, per condurla fuori dal negozio, ebbe quasi paura che potesse sentirla tremare.
Hermione si chinò leggermente verso il viso di sua figlia, che continuava a guardare davanti a sé, nel punto dove Scorpius Hyperion Malfoy l'aveva apostrofata col suo silenzio e con quello sguardo.
“Rose,” quel sussurro le fece rilassare appena le dita della mano stretta all'altezza del petto, come la morbida carezza di tutto ciò che può dare affetto, sicurezza, calore. E conforto. “Rosie, è successo qualcosa?”
Solo allora Rose alzò gli occhi castani su sua madre, due paia di occhi identici che si scrutarono per un istante, forse più in profondità di quanto potesse apparire, e di quanto la piccola Rose Weasley potesse capire. Si sforzò di fare un sorriso, ma i muscoli del viso erano rimasti tirati, immobili nell'impossibile espressione di inquietudine di poco prima.
“No, mamma, va tutto bene.”
Hermione non disse nulla, mordendosi l'interno di una guancia.
Ma la mano di sua figlia era ancora chiusa, all'altezza del cuore.

***


A Diagon Alley, poco distante da Olivander, Scorpius Malfoy camminava al fianco di suo padre, dimenticando l'abituale posa mento alto-schiena dritta, la fronte aggrottata concentrata sul terreno davanti ai suoi piedi.
“Hai detto qualcosa alla signorina Weasley, Scorpius? L'ho vista turbata.”
Scorpius non lo guardò, tenendo ancora le braccia lungo i fianchi, così rigide e così tese che sarebbe venuta paura di spezzarle al solo toccarle.
“Nemmeno una parola,” rispose, accigliato.
Suo padre non tornò più sull'argomento, attratto dalla figura minuta che era apparsa davanti a loro: Astoria Greengrass, avvolta nel suo mantello blu scuro che faceva risaltare i suoi capelli color oro e riprendeva l'esatta sfumatura pervinca dei suoi occhi, li aspettava con le mani infilate in un manicotto di pelliccia bianco panna, ed un vago sorriso che sembrava quasi colorirle il viso chiarissimo.
È sempre la mamma, ed è sempre bellissima, pensò Scorpius, che ora aveva un'arma – strinse le dita attorno alla sottile bacchetta magica, nella tasca interna del mantello – per difendere la propria famiglia.
“Oh, avete incontrato i Weasley?”
Lo disse con leggerezza, come se stesse chiacchierando del più e del meno – e così avrebbe dovuto essere –, ed anche se suo padre rispose sullo stesso tono - “Sono sempre dappertutto, è impossibile evitarli.” -, Scorpius non era più un bambino, come ancora lo reputavano, ed aveva sentito chiara e distinta la nota di freddezza e di difesa in quella voce musicale che aveva imparato a conoscere fin da quando era un pupetto in fasce. Aveva colto il cambiamento troppo rapido nello sguardo blu di sua madre, nei suoi gesti, ora più rapidi, meno morbidi, meno rilassati.
E mentre si avviavano, spingendo i pesanti carrelli carichi di valigie e bauli, verso l'Hogwarts Express, denigrando scherzosamente e non la progenie di Potter, Scorpius non poté fare a meno di chiedersi, con rabbia e con dolore, cos'avessero in più, rispetto agli splendidi occhi di sua mamma, quelli banali, stupidi, semplicemente castani che Rose Weasley aveva ereditato dalla sua.








Fine






NOTE:
1 – ed una sola XD, ma ormai avevo messo il numeretto, e...)
L'armatura di Enrico VIII è assolutamente XDDD... beh, guardate voi stessi: eccola! (… Perché non è giusto che io ci abbia traumatizzato unicamente la moglia, per la sola colpa di essere venuta in Inghilterra con me XD *saluta Enrichetto*)
Al momento si trova alla Tower of London, ovviamente a Londra :).


*usa capretta tibetana come scudo per oggetti non bene identificati che le verranno lanciati contro per questa storiella *.* *

No, nel caso aveste un'anima Dramione ed aveste notato qualcosa di sospetto... beh, non è sospetto: c'è davvero. E' lì il senso ultimo della storia :p. Siete liberissimi, ovviamente :), di vederci quel che volete, ma ad onor del vero... non l'ho concepita come una Rose/Scorpius XD.
L'ottica è quella di bambini/ragazzini di undici anni, sì. E no, non ho voluto che Scorpius si riferisse a Draco chiamandolo 'padre'.
Non ho assolutamente idea di come sia fisicamente Astoria *temo d'aver rimosso molte cose riguardo al settimo libro: toccherà rileggerlo*, ma avendo Scorpius anche lui i capelli biondi – anche se, lo so, non è detto XD – ho immaginato che fosse bionda. Gli occhi blu pervinca mi piacevano, and so... :p

So che è forse scemo dirlo, ma sentendomi un po' cretina (il che non è mai una novità, né un male: è bene che ognuno sia conscio di ciò che è *O*) nel contattare chiunque recensisca, ringrazio davvero di cuore chiunque abbia letto, recensito, preferito o seguito le mie storielle, e chi lo farà con questa ^^ (incolpate la moglia per il fatto che 'sta roba ora si trova qui XD'').
Spero davvero che la vena di idiozia si plachi, quindi spero di non ammorbarvi qui su EFP per un bel po' ^^',
Emily *sempre nascosta dietro Capretta Mondana (Judy capirebbe XD)*
   
 
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