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Autore: Afaneia    04/12/2009    10 recensioni
C’era scritto: “Vuoi uscire con me? Mi sono fatto dare il tuo numero. Prendila come una nuova esperienza. Sakuragi.”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Spazio dell

Spazio dell'autrice: Questa non è la mia prima shounen su Slam Dunk, ma è la prima che posto, per un motivo semplicissimo: le altre o sono orribili o mi fa fatica copiarle al computer! Ottima motivazione no? Comunque questa ficci è in ogni caso diversa dalle mie altre perché è nata in seguito a una riflessione: la maggior parte delle ficci che ho letto - e scritto- su SD riguardava sempre un sentimento che sia Hana che Ru provavano ma che non avevano il coraggio di dichiararsi; poi veniva a galla in seguito a molte avventure... Questo non toglie bellezza alla fic, ma mi sono accorta che rischia di diventare un soggetto non banale, ma quanto meno sfruttato... e poi ho pensato: la maggior parte delle coppie - coppie reali- che conosco non si mette insieme così, ma inizia con l'uscire, col conoscersi e poi col vedere come va a finire...

Insomma volevo provare a fare qualcosa che, almeno a me, risultasse nuovo. Non so come sia venuta, l'ho scritta in varie ore tra ieri sera e stamattina, mi ha anche tolto il sonno credo,  quindi la posto per sapere che ne pensate. Mi scuso in anticipo se ci saranno errori di qualsiasi genere, questa è una serie che seguivo anni fa (alle elementari^^) e quindi la mia memoria può far cilecca...

Bene, dichiarando che i personaggi non mi appartengono e che questa fic non ha scopo di lucro né vuole offendere alcuno vi lascio alla storia, spero che vogliate lasciare un parere!

Buona lettura^^

 

Un naso da clown

Quando mi è arrivato il messaggio, non sapevo cosa pensare.

Sono anzi rimasto lì a lungo, a fissarlo e a rileggermelo, per esser sicuro di aver capito bene.

C’era scritto: “Vuoi uscire con me? Mi sono fatto dare il tuo numero. Prendila come una nuova esperienza. Sakuragi.”

Immediatamente ho riposto il cellulare nella tasca della giacca e ho cercato di non pensarci. Ci sono riuscito per due intere ore, poi non ce l’ho fatta più: l’ho ritirato fuori e l’ho riletto un’altra volta.

Che mi piacciono i ragazzi lo so da un bel po’ e mi sono abituato all’idea.

Ma davvero Sakuragi non l’ho mai guardato.

E adesso sono qui seduto su una panchina e mi rileggo il messaggio per la millesima volta o poco meno.

Non c’è solo che io non l’ho mai guardato: c’è anche che io non pensavo che lui guardasse me. Non so se devo sorprendermi: d’altro canto non è il primo ragazzo che mi mostra interesse.

Va bene, il problema è uno solo: è Sakuragi e io non so come prenderlo.

Mi mordicchio un po’ il labbro mentre scorro con gli occhi il messaggio e mi soffermo sull’ultimissima parola: quel “Sakuragi” che ha un sapore d’incertezza e d’imbarazzo. Quasi me lo figuro mentre scrive. Penso che l’abbia spedito tutto d’un botto, premendo il pulsante senza guardare, magari con gli occhi chiusi oppure voltati, per non pensarci. Qualcosa del tipo “lo faccio ora prima che mi venga meno il coraggio” “via il dente via il dolore” o simili.

Sì, penso che abbia impiegato un sacco a scriverlo, magari cancellando quattrocento volte e rileggendoselo altrettante, per essere sicuro di aver usato le parole giuste, ma che poi l’abbia inviato in fretta, prima di ripensarci.

Mi sembra proprio il tipo da farlo.

Forse l’ha persino scritto il giorno prima per rileggerselo più avanti, in modo da ricontrollarlo a mente fredda: dà un’altra impressione.

Ma cosa sto dicendo?

Sbatto le palpebre per riscuotermi e rileggo un’altra volta il messaggio: ma ormai lo so a memoria e così bene che la mia mente anticipa i miei occhi nel leggere.

Sospiro, mi rimetto il cellulare in tasca, mi alzo e m’incammino. Ho freddo alle mani e me le infilo nelle tasche della giacca.

Sarà un brutto inverno, e credo che mi si stia arrossando il naso per il freddo.

È bruttissimo avere freddo al naso. Camminando mi viene la voglia di comprarmi un naso da clown, almeno terrei il mio al caldo.

Mi sto figurando me stesso con un naso da clown e mi chiedo che ne penserebbe il do’hao…insomma Sakuragi. Forse non gli piacerei più così tanto…perché immagino di piacergli veramente tanto se ha trovato il coraggio di chiedermi di uscire.

Insomma…io per lui non so se l’avrei fatto. Di trovare il coraggio, intendo.

Intanto bisogna che ci pensi. Devo rispondergli entro stasera. Non voglio arrivare all’allenamento di domani e- aspetta, ma domani non c’è allenamento. Domani è domenica, già.

Domenica. Posso dormire fino a tardi la domenica. Studiare un po’ e andare al campetto ad allenarmi. A metà giornata magari, così c’è un po’ di sole ed evito questo freddo tremendo. A correre ci si riscalda, ma c’è un limite a tutto.

E anche se corro, il naso non mi si scalda mai.

Credo che diventerà un’ossessione la storia del naso, quest’inverno.

Ora non devo distrarmi però, devo pensare a cosa rispondere a Sakuragi.

Uscire, sì: e poi? Non sono mai uscito con nessuno in verità. Almeno non ch’io ricordi. Che faremmo io e lui? Ci picchieremmo?

Ah ah. Molto divertente. Non credo che abbia consumato i tasti del suo cellulare a furia di riscrivere il messaggio solo per venire a picchiarsi con me. E non credo neppure che io perderei tutto questo tempo a pensarci se avessi intenzione di fare a botte.

No, penso che cammineremmo. Sì cammineremmo, cercheremmo argomenti di cui parlare…

Basta, ammettiamolo: non so cosa si fa a un appuntamento.

È una lacuna bella grossa, gente.

Cammino per il centro in silenzio e continuo a scervellarmi. Ma siamo sicuri che non sia tutto uno scherzo?

Che poi in fondo, non capisco neppure come mai io ci stia pensando tanto. Cioè, è Sakuragi, no? Dovrei dire di no e basta.

Però non posso dire di no e basta: devo avere un motivo. Da presentare a me stesso se non a lui.

Siamo cresciuti adesso, diavolo, non siamo più quei bambini che al primo anno facevano a botte ogni piè sospinto. Adesso ci ignoriamo: basta. È molto più semplice.

Devo decidere prima di arrivare a casa, altrimenti avrò preso freddo per niente. Ecco: conto fino a dodici e se prima del dodici vedo una bambina piccola, gli dico di sì.

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove...dieci…ecco, quella sembra una bambina. Sì, è una bambina. Fantastico.

Tiro fuori il cellulare e mordendomi le labbra inizio a scrivere. Non basta scrivere va bene, bisogna metterci un po’ di enfasi.

“Va bene. Domani davanti al centro commerciale alle quattro. Non fare tardi.”

Come Sakuragi ha fatto prima di me, rileggo il messaggio e lo invio senza guardare. Solo quando mi arriva l’avviso di avvenuta consegna ricomincio a respirare.

Riprendo a camminare, dandomi di tanto in tanto una strofinata al naso gelato. Fa proprio freddo questo pomeriggio: e sono appena le sei.

Mi arriva un nuovo messaggio. Estraggo di nuovo il telefono e lo leggo. C’è scritto solo “Va bene. A domani. Ciao.”

Spero solo di non essermi infilato in un bel guaio.

 

 

Kaede Rukawa non è mai in anticipo o in ritardo a un appuntamento dato: è puntuale. Sono le quattro e io sono davanti al centro commerciale.

Ho rinunciato ad allenarmi per lui, perciò spero che si faccia vivo. Sto iniziando ad avere freddo al naso. Non so quanto sia di buon auspicio.

Alla fine arriva anche lui, comunque, e in lieve ritardo: quattro e due.

- Ciao.

- Ciao…

- Beh…dove possiamo andare?

Silenzio.

- Andiamo in centro?

È lui a proporlo. Alzo le spalle e ci muoviamo: tutto pur di non stare fermi.

Non so come debba iniziare una conversazione a un appuntamento, ma credo di saperne abbastanza da poter dire che non mi sembra esattamente calorosa la nostra.

Fantastico.

Mi nascondo le mani sotto le braccia: Sakuragi lo nota.

- Hai freddo?

- Perché, tu no?

- Un po’…ma non tanto. Difficilmente ho molto freddo. Entriamo da qualche parte?

Annuisco. Perché no? Potremmo prendere qualcosa. Qualcosa che sia possibilmente bollente.

Alla fine entriamo in un bar e prendiamo due cioccolate. Ci sediamo a un tavolo ad aspettare che il barista ci faccia cenno che sono pronte.

Di nuovo questo accogliente, direi quasi rilassante silenzio imbarazzato.

- Ti ha stupito il mio messaggio?

Mi guarda con gli occhi diretti, né li allontana dai miei. Vuole saperlo e cavolo, non ha fatto questa domanda così per parlare.

- Sì.

- In bene o in male?

- In nessuno dei due. Mi ha stupito e basta.

- Non sapevi cosa rispondermi, vero?

- Infatti.- Non mi pare elegante dirgli della bambina.

Si appoggia al tavolo. – Non pensavo che Kaede Rukawa potesse avere freddo, sai?

- Perché, tu sì e io no?

- Non mi sembravi il tipo. Non mi ti figuro con i guanti.

- Non mi metto i guanti.- Un attimo di silenzio. – Ho smesso di comprarli in realtà. Li perdo sempre.

Un sopracciglio inarcato. Ha le sopracciglia da vero uomo Sakuragi. Non sopporto un ragazzo con le sopracciglia fatte dall’estetista.

- Ma sono andati a prendere il cacao in Equador?

- Staranno mungendo la mucca.

- Può darsi.

Incredibile a dirsi, arrivano anche le cioccolate. Ci sono persino i biscotti. Che carini. Considerando che ci hanno fatto aspettare un quarto d’ora, era il minimo che potessero fare.

Prendo un biscotto dal mio piattino: è di quelli con le gocce di cioccolato. Vedo Sakuragi aprire una bustina di zucchero e versarne mezza nella propria tazza. Al primo cucchiaio fa una faccia strana: - Che schifo, è amara!

È il mio turno d’inarcare le sopracciglia. – Mettici l’altra mezza bustina.

Sakuragi segue il consiglio e riprova. – E’ ancora amara…

Finisco il mio biscotto e svuoto due bustine di zucchero nella mia cioccolata. Niente da fare: è ancora amarissima.

Allora arriviamo alla terza bustina, poi alla quarta; io mi ritiro alla quinta, ma Sakuragi svuota anche la sesta. Inutile: fa schifo.

- E che facciamo? La lasciamo qui?

- Tappiamoci il naso e ingoiamo.

Così facciamo: è tremenda. Ha un sapore amaro, un po’ anche aspro. Mi viene il dubbio che il latte non fosse proprio freschissimo, ma ormai è troppo tardi.

A questo punto paghiamo e usciamo. Ricominciamo a camminare e di nuovo c’è silenzio.

Dopo un po’: - Hai il naso rosso.- Ridacchia.

- Ancora?!

- Perché ancora?

- Uhm…niente.

Abbiamo di nuovo freddo. Conviene trovarci un altro negozio: c’è una libreria a pochi passi. Ha un’aria calda e illuminata. Entriamo.

- Guarda…Il Rosso e il Nero. Di Stendhal. Voglio leggerlo…

- Di chi?

- Stendhal, Sakuragi.

- Bello?

- Credo di sì- Non so se è una risposta. Comunque mi si sta scaldando il naso, il che è un bene. Tamburello colle dita sul libro. – Come mai hai voluto uscire con me?

- Sai…era un po’ che ti guardavo.

- Ah.

Continuiamo a guardare i libri, così, tanto per scaldarci. Alla fine è solo questo quello che compro però.

E’ un pomeriggio che siamo in giro, eppure non riusciamo a tenere in piedi una conversazione decente. Sembriamo due bambini.

Maciniamo chilometri su chilometri, molto romantico (vero?).

Se io fossi una ragazza, e fossi in tacchi alti, penso che a questo punto farei hara-kiri.

Passano le sei.

- Mi sa che è ora che vada.

- Già…anch’io.

- Bene, allora ci vediamo domani a scuola.

- Va bene. Ciao…

- Ciao…

 

Passano due giorni. Di nuovo un messaggio. “ Ti va di rivederci? Fammi sapere.”

Stavolta non faccio alcun gioco per decidere se uscire o no. Ci penso un po’ su però.

La conversazione non è stata un granché, ma non sono stato male: dopotutto, quella scena della cioccolata mi ha divertito, poi era rassicurante parlare con Hanamichi…oh, fantastico. Adesso ho preso pure a chiamarlo Hanamichi. Quanto mi conviene?

Sono a pancia in giù sul letto col cellulare alla distanza del mio braccio steso. Gli dico di sì o di no?

Magari ci riesco solo questa volta, per vedere come va. Non posso giudicare dalla prima uscita. Credo che fossimo entrambi un po’ in imbarazzo – un po’?-.

Va bene, gli dico di sì. Domani dopo gli allenamenti. Così andiamo anche a mangiare un boccone.

Stavolta mi sono portato l’armamento pesante: cappotto, cappello e sciarpa dove affondo mezza faccia. Certo, se voglio parlare, il naso lo devo esporre per forza: ma considerata la velocità della nostra conversazione, e soprattutto la scorrevolezza…

Solo i guanti non ho, per quanto li abbia cercati per tutta la casa. Beh, ce n’era un paio spaiato, ma non mi pareva il caso.

Anche Sakuragi ha un piumino. Ha persino i guanti lui. Devo prendere in considerazione l’idea di comprarmene un paio anch’io. Dopotutto sono abbastanza grande da non perderli un’altra volta.

Credo.

- Ciao…che freddo. Allora, dove si va?

- Nello stesso bar dell’altra volta.- Mi è venuto spontaneo dirlo.

Mi guarda stranito. – Stai scherzando?

- Sì.

- Ah…

- Andiamo a mangiare qualcosa invece. Hai fame?

- Da morire…dopo gli allenamenti, sempre.

- Va bene. Andiamo allora.

Stavolta c’è un clima più rilassato, mi sembra. Credo sia una cosa buona. Camminando c’imbattiamo in un banchetto di beneficenza: ci sono i clown che fanno un numero. Ho la faccia mezza avvolta nella sciarpa, ma uno dei loro nasi non mi starebbe male comunque, penso. Mi viene il dubbio.

- Come mi vedresti con un naso da clown?

- Con un naso da clown? Tu?

- Sì, io.

- Sembreresti un cretino.

- Ah, grazie, molto carino da parte tua.

- Ma perché vorresti un naso da clown?

- Vuoi saperlo davvero?

- Le domande a caso ancora non le faccio.

- Perché ho freddo al naso.

Un attimo di silenzio.

- Solo per questo?

- Per quello che ti ho detto, Hanamichi. Solo per quello che ti ho detto.

Cala un silenzio più grave. L’ho chiamato per nome.

Riprendiamo a camminare, lentamente. Il cielo è già scuro, eppure non è molto tardi. Sollevando lo sguardo, vedo già la prima stella.

- Qualche mese fa a quest’ora c’era ancora il sole…

- Manca un mese a Natale.

Mi sorprende che gli sia venuto in mente adesso. Ma ora che guardo, per strada ci sono già le luminarie. Sono tutte blu e gialle.

- Un mese.

- Già.

Mi soffio sulle mani, che si stanno arrossando per il freddo. Decisamente so cosa devo comprare.

Mi guarda divertito.

- Kitsune…fatti regalare un paio di guanti per Natale!

- Credo che sarebbero utili- riconosco a malincuore, rimettendo le mani nelle tasche del cappotto.

- Vuoi i miei?

- No, grazie.- E’ un grazie detto freddamente, così, pro forma, perché si dice e basta. Non sono contento che me l’abbia chiesto, perché penso che anche quello sia pro forma: è una cosa che di chiede e basta, senza che venga così, spontanea, perché lo vuoi fare. Solo una di quelle cose che senti di dover fare perché chiunque lo farebbe e perché non vuoi essere l’unica persona che non lo farebbe.

- Hai già incominciato a leggere quel libro?

- Quale?

- Quello che hai comprato.

- L’ho iniziato ieri sera. Per ora è molto bello.

Di nuovo quel silenzio. È tremendo. È una di quelle cose che ti fa domandare perché sei voluto uscire. Non è il freddo, è il silenzio. Per le strade ci sono i bambini che piangono per farsi comprare qualcosa e le madri che li sgridano, solo noi siamo in silenzio.

- Al primo anno non saremmo mai usciti insieme, vero?

- No. Credo di no.

- Da quanto ti piacciono i ragazzi?

È una domanda personale questa, ma non mi dà fastidio. Se me lo domandasse qualunque altra persona probabilmente si beccherebbe un pugno, ma mi limito a gettargli un’occhiata aggrottando leggermente le sopracciglia.

E lo vedo che mi guarda con aria interessata, gli occhi franchi e diretti, schietti senza imbarazzo, né malizia.

Vuole solo saperlo.

- Non lo so.- Anch’io sono franco e diretto: non so cosa dirgli. Ma sono sincero, comunque, o credo di esserlo, che è la stessa cosa. – E tu?

Anch’io voglio solo saperlo e so che, se mi guardasse negli occhi, vedrebbe lo stesso sguardo che io ho visto prima nei suoi.

Non mi guarda perché ha gli occhi fissi davanti a sé; non per imbarazzo, però, perché è tranquillo e non arrossisce.

- Neanch’io lo so più. L’ho dimenticato, forse.

Dimenticare. Sono cose che si dimenticano queste? Ma forse non è dimenticare come si dimenticano le chiavi; forse è una cosa così naturale e lenta che non ti accorgi neanche che sta accadendo.

- Mi ricordo di chi mi sono innamorato per primo, però. Non so se è la stessa cosa.

Suona come una scusa, una giustificazione. È un po’ strano. Alzo le spalle.

Anche stasera maciniamo chilometri come farebbe un autobus di linea, e in silenzio anche stavolta: ma stavolta è diverso, anche il silenzio è più tranquillo, è naturale: non c’è imbarazzo in questo silenzio, c’è una strana calma. È quasi rassicurante.

- Hai ancora freddo al naso?

Annuisco. Ho mezzo viso affondato nella sciarpa, ma questo maledetto naso non accenna a scaldarsi.

- Forse ti ci vorrebbe davvero un naso da clown…una specie di scalda naso. Di lana.

- Credo di sì.

- Se si potesse prendere un naso come si prendono le mani per scaldarle, ti darei una mano…

Mi viene da ridere. È un pensiero carino, anche se non è il massimo del romanticismo, magari.

- Sono riuscito a farti ridere…

C’è una specie di soddisfazione nelle sue parole: come se silenziosamente avesse mirato per tutta la sera soltanto a questo, e ora ci fosse finalmente riuscito.

- E’ così strano?

- Beh, visto che tu non ridi mai…

Ha ragione, non rido mai. Proprio mai, e di certo non in pubblico.

- E’ una specie di maschera vero?

Di nuovo quello sguardo. Diretto e sincero. Schietto, senza secondi fini. Vuole soltanto sapere quello che ha chiesto. – Quella di non ridere mai, dico.

Sorrido. – Forse una volta lo è stata, ma tanto tempo fa. Adesso sono io. Sono solo io.

È la prima persona a cui lo dico, ma sono anni che lo so. Annuisce. Anche stavolta non mi guarda. Però sento che stavolta qualcosa si è rotto.

È una bella sensazione.

- Guarda… un fast food. Andiamo a mangiare lì?

Oh, fast food, la corretta traduzione di “mangiar sano”. Ma va bene, per una volta non credo che mi ucciderà.

Ma se trovo un topo morto nell’hamburger, chiamo la polizia.

Entriamo e dentro c’è un sacco di luce e calore e tutto è molto colorato. A quest’ora c’è ancora poca gente. Ci accodiamo al bancone e ordiniamo due hamburger, due patatine e due bibite.

Ci sediamo a un tavolino a mangiare. Fantastico. Forse sembriamo una coppietta, ma adesso non mi dà più così tanto fastidio.

Non è come l’altra volta stasera, anche se stiamo entrambi zitti non sono a disagio. Ho appoggiato il cappotto e la sciarpa e il cappello sulla sedia rimasta libera accanto alla mia. Alla stessa altezza di questo tavolino, dall’altra parte, c’è una mamma che sta cercando di far mangiare la bambina. Potrebbe essere la stessa bambina dell’altra volta? No, forse no. Si volta sulla seggiola colorata, ci vede e ci dice: - Ciao.

- Ciao- la risaluta Hanamichi.

Lo osservo mentre sorride alla bambina e vedo luminosi i suoi occhi e le sue labbra piegate in un sorriso rassicurante. Non l’ho mai visto così.

Ha una bella bocca – ma che discorsi faccio? Però è vero. Sì ma adesso non dovrei mettermi a pensare a queste cose. La bambina ci volta le spalle e, girandosi verso di me, Hanamichi si mette a ridere.

È più bello quando ride – ma che cosa sto dicendo? Devo smetterla di pensare a queste cose. Mi concentro sul panino che sto mangiando.

- Pensi che i miei capelli attraggano l’attenzione?

Mi guardo attorno. Sì, a volte qualcuno ci guarda: due ragazzi alti un metro e ottanta, uno dei quali coi capelli che sono un pugno in un occhio.

- Forse…un pochino.- Quella dei bambini, sicuramente.

- E a te come sembrano?

- Sono…particolari.

- Particolari? E poi?

Eccoli, due occhi onesti e intelligenti che ti fissano.

- Belli.

- Davvero?

Non rispondo più e sbatto le palpebre. Sorride. Ha ottenuto ciò che voleva e, se non m’inganno, questo gli fa un piacere immenso.

Finiamo di mangiare e usciamo. Dopo mangiato ho un po’ meno freddo, e poi, ci siamo riscaldati a lungo.

- Ecco…credo che tra un po’ si debba rientrare. Prima che sia tardi.

- Prima che si crepi dal freddo- aggiungo, ed entrambi ridiamo un po’.

Lo accompagno alla stazione dei treni. Ecco, adesso deve salire.

- Bene, allora ciao.

- Ciao. Grazie della serata.

Ecco, questa è una cosa che non dico a malincuore, perché va detta; la dico perché voglio dirla, perché bisogna che sappia che stasera è andata meglio dell’altra volta.

È sorpreso nel sentirmela dire. Resta interdetto per un attimo, poi sorride.

- Grazie a te. Allora a domani.

E prima di salire sul treno, si sporge e mi dà un bacio sulla guancia.

 

 

È la terza volta che usciamo. Stavolta cinema, così si sta al caldo. Inutile dire che ho scelto io pensando al mio povero naso.

Lo aspetto davanti al cinema in armamento pesante ed eccezionalmente, guanti. Li ho comprati ieri sera tornando a casa dall’allenamento. Quando Hanamichi me li vede addosso, si mette a ridere.

- Kaede, ma quelli…sono guanti!

- Ma dai?

- Credevo non ti piacessero i guanti.

- Non ho detto che non mi piacevano, ho detto che li perdo sempre.

- Sono curioso di vedere quanto ti dureranno.

- Ah ah…molto spiritoso.

Entriamo e paghiamo il biglietto. Il film è Nemico Pubblico, con Johnny Depp. È un bel film, e anche se sono stato io a decidere di venire al cinema, devo ringraziare lui per aver scelto lo spettacolo. Perciò sono contento quando usciamo, anche se ormai abbiamo perso le ore di luce e mi devo stringere nel cappotto.

- Non è ancora troppo tardi…facciamo una passeggiata?

- Sì, così ci scaldiamo.

A camminare ci si scalda un pochino, ma insomma non mi pare il caso di lamentarmi. Sono di buon umore questo pomeriggio, e questo non credevo che potesse succedere in sua compagnia.

- Non credevo che fosse il tuo genere di film questo, sai?

- Ah no?

- No…ti figuravo più il tipo da film romantico.

Lo guardo. Perplesso. – Film romantico? Io?

E mentre lo guardo mi accorgo che mi sta prendendo in giro e sbuffo, ma di divertimento.

- Sei tremendo…

- Davvero?

- Davvero. – E neppure io so se sto scherzando, o se sto dicendo sul serio.

Passiamo tutto il pomeriggio fuori, ma siccome c’è un ventaccio freddo, praticamente usciamo da un bar ed entriamo in un negozio. Alle sette, per scaldarci siamo arrivati a una cioccolata, un caffè e un libro a testa.

Sì, perché nella prima libreria io ho comprato un libro di André Gide, e nella seconda lui, chissà perché, un libro di Hesse.

- Come mai, Hanamichi?- gli chiedo mentre paga.

- Lo sai che so leggere anch’io, kitsune?

- Cosa? Ma stai scherzando?

- Poi sono io quello tremendo?

E mi metto a ridere, perché sembra indispettito.

Alle sette insomma bisogna andare a casa. È brutto salutarsi, un po’. Mi sono divertito questo pomeriggio.

- Sono contento di essere stato con te- gli dico mentre aspettiamo il suo treno.

Lo sa che sono onesto. Mi sorride. – Anch’io. Ma…tu non avevi i guanti?

Mi guardo le mani. E’ vero, ho dimenticato di rimetterli. Quando faccio per cercarli però me ne accorgo.

- Cavolo, ne ho perso uno!

Si mette a ridere. – Lo dicevo io che non ti sarebbero durati!

Mi offenderei, ma in fondo ha ragione e rido anch’io. In fondo avrei dovuto saperlo.

Ci rilassiamo e stiamo zitti per un minuto intero. Mi rendo conto di quanto sono stanco. Senza sapere perché, mi appoggio con la testa alla sua spalla. Avverto la sua confusione e mi metto a ridere.

- Ma che fai kitsune?

- Niente…non si vede?

- Mah…contento te…

Resto ancora un po’ così, poi sentiamo annunciare il suo treno. Ci alziamo e ci avviciniamo ai binari.

- Magari ci possiamo risentire tra qualche giorno, per uscire…

- Certo.

Ecco, il treno sferraglia sui binari accanto a noi. Mi protendo e gli do un bacio, non sulla guancia, sulla bocca.

E non so chi di noi due è più stupito, né adesso né quando è lui a baciarmi.

 

 

È la vigilia di Natale, tra un po’ sarà un mese che stiamo insieme.

Natale in famiglia, okay, ma la vigilia voglio passarla con lui.

Così adesso sono qui ad aspettarlo davanti al centro commerciale, col suo regalo in una busta bianca appesa al polso. Al polso, perché le mani sono in tasca: i guanti ho – di nuovo- rinunciato a comprarli.

Non ci siamo promessi amore eterno, non ci sposeremo e non andremo a vivere insieme: stiamo insieme perché insieme stiamo bene. Punto. Se poi ci innamoreremo, lo vedremo col tempo. Intanto, stiamo a vedere.

Alla fine arriva anche lui, col suo lieve ritardo di cinque minuti. Ho smesso di arrabbiarmi ormai. Va bene anche così.

Ci salutiamo con un bacio. Staccandomi, mi accorgo che ha una busta in mano.

- Ma non ci eravamo detti di non farci regali?

- Però mi sembra che anche tu non abbia tenuto fede alla parola- osserva sorridendo vedendo la mia busta.

- Uhm…questo non è un regalo. È una sfida.

- Una sfida? Ma davvero? Sono curioso.

Sorrido. – Credo che lo scoprirai domani…

- Domani è così lontano! Io sono curioso adesso!

Sospiro, stavolta. Non mi sbagliavo: è proprio tremendo…

- Va bene allora. Apriamoli adesso. Così non saranno dei veri regali di Natale e potremo anche dire di aver tenuto fede alla parola.

È una soluzione che gli piace. E che piace anche a me, lo ammetto, perché anch’io sono curioso.

Ci sediamo su una panchina. È lui il primo ad aprire il suo regalo: e che faccia strana fa quando scarta Cime Tempestose di Emily Bronte! Strana, ma non delusa: è solo perplesso.

- Kitsune, grazie, ma non capisco…perché sarebbe una sfida?

- Perché una volta mi dicesti che sapevi leggere…ed è arrivato il momento di scoprire se è vero!

Si mette a ridere, contento, e mi dà un bacio. – Apri il mio, adesso.

Non c’è il pacchetto, c’è solo la busta, chiusa con vari punti di spillatrice. La apro con cura e dentro ci sono più cose. La prima che tiro fuori è un paio di guanti. Sono belli, grigi, morbidissimi, molto eleganti.

- Belli…questi cercherò di non perderli!

- Guarda meglio… c’è un’altra cosa.

Frugando in fondo alla busta, trovo qualcosa di sottile e morbido. Lo tiro fuori. È una corda sottile, grigia, elastica, della stessa stoffa dei guanti: alle estremità ci sono due specie di mollette…

- Cos’è?

- E’ per legare i guanti uno all’altro! Così se proprio li perdi li perdi entrambi e non uno solo! Ma sta’ attento, perché se li perdi ti ucciderò- aggiunge molto seriamente. – Comunque, guarda ancora…c’è un’ultima cosa.

- Ancora?- Guardo nuovamente dentro la busta. Vedo qualcosa di piccolo e rosso. Infilo la mano e quando lo tiro fuori non riesco a trattenermi dal ridere.

- Non ci posso credere…

- Bello eh?

- Ma non dicevi che sembravo un cretino?- E’ un naso da clown.

- Infatti lo sembrerai…ma non ne posso più di sentirti dire che hai freddo al naso!

- Come sei romantico certe volte, Hana…

- Ah, molto romantico sentirti dire in continuazione “Mi fa freddo al naso”!

- Uhm…comunque grazie per essertene ricordato.

È vero, sono contento che se ne sia ricordato. Penso che sia carino da parte sua, no? Forse non romantico, ma sicuramente carino.

- Bene…- Gli do un bacio. – Allora una volta finiti di scartare i nostri non-regali di Natale, andiamo da qualche parte?

- Okay…cioccolata?

- Non ne staremo prendendo un po’ troppe questo mese?

- No…male non farà- sorride attirandomi a sé e ci incamminiamo per le strade della città.

Owari.

   
 
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