*
Davide
Chiusi
con un moto di isteria le ante della credenza. Dov’erano? Dove diamine
potevo averle messe?
Mi
lasciai andare su una sedia con uno sbuffo rabbioso e mi passai le mani sul
viso. Non erano nel mio armadio, né nella mia stanza né in salotto. Ero cosciente
di essere disordinato, ma non lo ero così tanto da non trovare due scatole di
dimensioni abbastanza sostanziose, che per altro dovevano essere per forza in
casa.
Ci
pensai su, arrovellandomi il cervello, fino a quando non mi venne il lampo di
genio: se la colpa non era mia doveva essere per forza di qualcun altro.
Afferrai rapido il telefono sul mobile dietro di me e composi il numero
dell’ufficio di Maurizio. A rispondermi fu una segretaria, Lisa, che non
sembrava intenzionata a passarmi il suo capo perché “molto indaffarato in
quel momento”. Stavo per mettermi ad urlare quando sentii uno scatto
sulla linea ed alla voce di Lisa si sostituì quello del mio caro fratellino.
-
Davide? Che c’è? E’ successo qualcosa? Andrea…-
Ogni
volta che lo chiamavo in ufficio, sembrava che potessero essere accadute tutte
le catastrofi più disparate. Mi sfuggì un sorriso: dovevo chiamarlo più spesso,
forse sotto sotto si sentiva trascurato.
-
Ciao, Muzi. Senti non volevo disturbarti ma mi chiedevo se fossi stato tu a
spostare quelle scatole che… quelle che avevo messo da parte, hai
capito?-
Maurizio
non rispose subito: il che voleva dire che, evidentemente, aveva capito a quali
scatole mi riferivo.
Con voce soffocata poi disse:
-
Sì, sì, ho capito. Mi hai chiesto tu di spostarle… eri completamente
ubriaco e volevi addirittura che dessi fuoco a tutto-
Sentendo
quelle parole mi si bloccò il respiro: non era possibile.
Gli
avevo davvero ordinato di farlo? Perché? Cosa diavolo mi passava per la testa?!
Ero capace di dire scempiaggini simili con un po’di alcool in corpo?
Davvero avevo desiderato di dare fuoco a tutte quelle…
Maurizio,
forse intuendo il mio sconforto, si affrettò a continuare:
-
Ma non l’ho fatto. Cioè temevo che poi te ne saresti pentito, così le ho nascoste
nel retro della cappottiera. Io… ho sbagliato?-
Mi
chiese in preda alla preoccupazione. Muzi! Come avrei fatto senza di lui?
-
No. Hai fatto benissimo. Grazie davvero, Maurì! Non so come ringraziarti. Ora
vado e ti lascio tornare a lavorare. Grazie ancora-
Attaccai
e senza indugi mi diressi verso la cappottiera. Non fu difficile trovarle, le
tirai fuori e una alla volta me le portai dietro, poggiandole in salotto, ai
piedi del divano. Premunitomi quindi di una bottiglia di birra, mi sistemai sul
divano. Due scatole: vecchie e ingiallite, mi venne da ridere: non erano così
vecchie in fondo!
Le
avevo riprese, ma ora che erano lì davanti a me non ero più tanto sicuro di
volerle aprire.
Una
in particolar modo mi metteva paura: la seconda, quella non avrei mai aperto da
solo: sarebbe stato troppo pericoloso, doveva esserci qualcun altro con me,
qualcuno in grado di fermarmi in caso di gesti ben poco brillanti che avrei
potuto compiere.
La
prima invece era un ostacolo molto più facile da superare. Con un piede
l’avvicinai di più a me, mentre spinsi lontano la seconda. Scivolai
lentamente a sedere a terra, e aprii la scatola: lì dentro c’era il mio
sogno, quello che avevo lasciato perdere, quello che avevo preferito mettere da
parte.
Era
quasi vuota: c’erano solo due buste e una macchina fotografica. La mia
macchina fotografica.
Era
una Nikon nera, ancora in ottima condizioni. La presi in mano e me la rigirai
fra le dita: era una bella sensazione, avevo dimenticato come mi sentissi
tenendola in mano. Era un’emozione confusa: fotografare era sempre stata
la mia passione, adoravo l’idea di poter fermare con un semplice scatto
dei momenti di vita: fotografo di tutto, qualunque cosa mi colpisse. Con il
passare del tempo poi avevo cominciato ad affinare il metodo, riuscendo a
capire quale fosse l’angolazione migliore, il momento più adatto a
scattare.
E
le mie foto con il tempo diventavano sempre più belle.
Aprii
quasi con diffidenza una delle due buste: conteneva centinaia e centinaia di
immagini. Foto di Maurizio, di Andrea, di papà, serate in pizzeria, gite con
gli amici, Andrea, Fil ed io allo zoo, papà e mamma, Maurizio e Veronica…
mi bloccai su quella foto: era nel posto sbagliato. Doveva stare
nell’altra scatola. Ci pensai su per un po’ poi decisi che
l’avevo messa nella busta giusta: l’altra scatola era solo di Lari
e me, Veronica non c’entrava.
Ad
Ilaria non piaceva essere fotografata: diceva sempre che sprecavo solo foto
scattandole a lei, che non ne valeva la pena. Dio! Non aveva idea di come fosse
errato ciò che pensava! Con il tempo riuscii a farle perdere quella terribile
convinzione, riuscendo a farla sentire a suo agio davanti all’obiettivo.
E
così arrivai ad unire le mie due più grandi passioni.
In
quella seconda scatola c’erano migliaia di foto che ritraevano Lari e me.
Avevo
chiesto a Muzi di bruciarle… come avevo potuto?
Anche
perché lì dentro non c’erano solo quelle immagini. C’erano anche
dei fogli che mi ricordavano che razza di bastardo fossi. Fogli che perciò non
dovevano per nessuna ragione essere cancellati, anche se, pensandoci bene,
dalla mia memoria non sarebbero mai scomparsi.
Ero
ancora immerso in quelle riflessioni, quando una mano che mi scuoteva la spalla
mi fece fare un salto di buoni tre metri dalla paura. Con il fiato corto mi
voltai per vedere chi ci fosse e mi trovai di fronte Armando. Mi posai una mano
sul cuore, sentendolo battere tanto forte da essere udibile anche da lontano, e
guardai l’orologio: erano le quattro. Spalancai gli occhi e rivolsi a Nando
un’occhiata sorpresa:
-
Già qui? Ma finisci di lavorare così presto? Quando ci eravamo accordati per
stasera credevo ci riferissimo alle nove, o anche più tardi-
Nando
fece spallucce:
-
Non volevo spaventarti. Ho bussato ma non rispondeva nessuno e dato che la
porta era aperta… Non ti dispiace vero che sia già qui?-
Scossi
la testa ancora confuso e gli indicai la poltrona, quindi andai in cucina a
prendere un po’ di alcolici.
In
salone trovai Armando che, togliendosi la giacca, osservava curioso le foto che
stavo rivedendo. Gli lanciai una birra che afferrò prontamente, poi prese posto
in poltrona, sempre continuando ad esaminare le foto:
-
Sono proprio belle. Le hai scattate tu? Hai un talento eccezionale!-
Disse
sincero. Io scossi la testa per lasciar cadere l’argomento e mi sistemai
sul divano:
-
Dì un po’, non è che sei già qui perché eri curioso di sapere il continuo
della storia? Cioè credevo che in quanto strizzacervelli tu le avessi già
sentite di tutti i colori!-
Lui
distolse lo sguardo e ribattè:
-
No, certo che no. E’ solo che il mio appuntamento delle cinque si è
anticipato e così…-
Non
concluse, accigliandosi per via del mio sguardo scettico. Sbuffò e bevve un
sorso della sua birra:
-
E va bene! Ma non è che ero curioso! Solo scocciato dall’idea di non aver
ancora capito come funziona la tua mente bacata!-
Esplose,
per poi pentirsene subito e guardarmi con aria afflitta:
-
Scusa. Io non intendevo…-
Scoppiai
a ridere, era forte in fondo quel topo!
-
Lascia stare, va benissimo così. Mi stai facendo già un grandissimo piacere,
anche se non te ne rendi conto. Allora dov’eravamo rimasti?-
Dopo quella sera in cui “l’accompagnai” a casa,
iniziai ad aspettarla tutti i giorni, al solito posto.
Andammo avanti così per più di due settimane:
lei finiva di lavorare e trovava me ad aspettarla.
Ci alternavamo: una volta guidavo io,
l’altra lei. In quel periodo fu per me come un’amica. Credo sia
stata la prima. Imparai a conoscerla, a capire dal modo in cui mi salutava se
quel giorno era nervosa o felice.
Scoprii che le piaceva molto il caffè e
che su di lei aveva lo strano effetto di calmarla, così ogni sera gliene facevo
trovare uno fumante in macchina. Le piaceva poco zuccherato.
Iniziai a capirla sempre di più, ma non
smetteva mai di sorprendermi.
Non avevo mai conosciuto una ragazza
come lei, o forse, ad essere sinceri, non avevo mai davvero conosciuto una
ragazza. Era diversa, originale, a dir poco strana, ma senza accorgermene
cominciai a dipendere da quella piccola dose giornaliera di lei.
Si intendeva egregiamente di macchine ma
le piaceva anche leggere ed andare a fare compere.
Molto spesso si perdeva nelle sue
riflessioni, dimentica di ciò che le succedeva attorno.
Era piena di contraddizioni: decisa in alcune
cose e del tutto insicura su altre.
Dolcissima in alcuni momenti, fredda e
distante in altri.
Era sempre un passo avanti a me, e per
starle dietro mi ritrovavo in un continuo stato di agitazione.
Non parlava quasi mai di sé, sempre
chiusa e riservata, ma c’erano volte in cui riuscivo ad estorcerle
qualcosa e in quei momenti mi sentivo fortunatissimo: al settimo cielo perché
era a me che stava confidando quelle cose.
Tutto cambiò il sedicesimo giorno, se
non ricordo male.
Ero io a guidare quella sera, andavo
estremamente al rilento, cercando di prolungare il più possibile quei miseri
dieci minuti. Mi fermai davanti al suo palazzo sempre chiacchierando
amabilmente, quando un improvviso silenzio di lei mi mise in allerta.
Seguii il suo sguardo e vidi un ragazzo
seduto su uno scalino fuori il portone. Aveva i capelli ricci, di un castano
molto chiaro, e gli occhi neri che guardavano sorpresi Ilaria al mio fianco.
Lei allora sorrise imbarazzata e,
congedandomi con un grazie, scese per raggiungere lui.
In quel momento provai una fitta allo
stomaco, lancinante in quel caso era un eufemismo.
Lì per lì non la identificai come tale,
ma era proprio quello: gelosia allo stato puro.
Mentre facevo retromarcia vidi nello
specchietto retrovisore come la abbracciava, sussurrandole qualcosa
all’orecchio. Non mi piaceva per niente: come si permetteva?
Lui non ne aveva alcun diritto.
Ero io a capirla veramente, io stavo in
ansia per lei quando mi sembrava anche solo un tantino preoccupata, ero io
quindi a doverla abbracciare, solo io potevo avvicinarle le labbra
all’orecchio... non me ne resi conto subito, ma quella rabbia che provavo
nei confronti di quel giovane era semplice invidia: morivo dalla voglia di
abbracciarla, anche solo di sfiorarla e non l’avevo mai capito.
Stavo per lasciare la frizione con un
gesto rabbioso quando notai che nella scena che stavo osservando qualcosa non
andava: Lari si era innervosita, e ora stava spingendo via il ragazzo che
subito fece per riavvicinarsi.
In un batter d’occhio ero dietro
di lei.
-
Va tutto bene?-
Le chiesi in ansia. Non mi aveva visto
arrivare e la colsi di sorpresa. Annuì ancora confusa:
- Sì, tutto bene. Davide, che fai ancora
qui?-
Avrei dovuto provare imbarazzo, ma in
quel momento riuscivo solo a scrutare con aria di sfida il giovane davanti a
me. Lui intanto mi studiava con reale meraviglia, e ogni tanto spostava lo
sguardo su Ilaria con fare interrogativo. Ad un certo punto, rivolgendosi a lei
disse:
- Non mi presenti il tuo amico?-
Ilaria sbuffò, come infastidita da
quella semplice richiesta, ed indicando prima lui e poi me, fece le
presentazioni:
- Mirko, Davide. Davide, mio fratello-
Sgranai per un secondo gli occhi: avevo
sentito bene? Aveva detto fratello?
Un momento: aveva un fratello?
Rimasi totalmente scombussolato e lei se
ne accorse, perché mi sorrise indulgente e disse, come a trarmi
d’impiccio:
- Non devi andare?-
Annuii ancora frastornato e stavo per
scappare via quando Mirko, con un tono indagatore e divertito chiese:
- Come mai sei intervenuto, prima?-
Domanda legittima, che parafrasata
equivaleva a: “Perché non ti sei fatto i cazzi tuoi?”
Accennai un mezzo sorriso e risposi:
- No, niente. Mi era sembrato che Lari
si fosse innervosita e credevo fosse per causa tua e… non sapevo fossi il
fratello perciò scusate se mi sono intromesso, io…-
Mirko sollevò una mano a fermarmi e con
fare comprensivo scosse la testa:
- No, no, avevi visto giusto. Si è
innervosita e per colpa mia. Ma non ho tutte le colpe. Devi sapere che stasera
dobbiamo andare ad un anniversario di matrimonio, stiamo parlando di nostra zia
quindi non possiamo mancare. Ma… Lari, come l’hai chiamata
tu… stava già cercando di ricontrattare per non venire-
Guardai Ilaria che non mi contava
proprio, troppo occupata ad incenerire il fratello con lo sguardo. Non capii il
motivo di tanta rabbia finché Mirko non continuò:
-
Hai da fare stasera? Perché se sei libero potresti venire anche tu, come
cavaliere di Ila. Certo mi aiuteresti almeno a portarla fin lì-
Mi aveva davvero chiesto di
accompagnarli all’anniversario della zia?
Con la coda dell’occhio vidi
l’espressione di Lari: faceva paura. Non sembrava lontana
dall’avventarsi contro il fratello per strangolarlo. Sapevo perfettamente
che avrei dovuto declinare gentilmente l’invito, ma la mia lingua era
sempre stata più veloce del cervello, così sentii la mia voce dire:
- Certo. Sarà un piacere! Vengo qui
alle…-
Mirko si illuminò alla mia risposta, e
felicissimo continuò per me:
- Fra un’oretta, ti va bene?-
Annuii senza pensarci, eccitato
all’idea. Li salutai entrambi, ignorando volutamente la rabbia di Lari e
salii in macchina. Tornando a casa non riuscii a capacitarmi di come avessi
potuto accettare, mi ero forse bevuto il cervello? Mai uscire con una ragazza assieme
ai suoi familiari: era una mia regola ferrea, come avevo osato infrangerla
così?
Un attimo… uscire?! Quella era da
considerarsi un’uscita?
Sentii il mio stomaco che si rigirava
furioso.
Arrivai fuori casa e parcheggiai con una
manovra che avrebbero dovuto dichiarare illegale.
Salii le scale in un lampo ed entrai in
salone come una furia. Andrea e Maurizio stavano giocando a scacchi e mi
guardarono con tanto d’occhi. Finsi di non notare la loro sorpresa e
corsi in camera mia. Aprii con uno scatto agitato le ante dell’armadio e
iniziai a cercare fra tutti i vestiti quello nero buono. Dopo inutili ricerche
chiusi l’armadio con un calcio isterico e cacciai un urlo:
- Maurizio! Il mio completo nero buono
dov’è?!-
Mi voltai di scatto sentendo la sua voce
vicina: era sulla porta della mia camera, con la spalla appoggiata allo
stipite, mentre Andrea si era sdraiato sul letto. Maurizio inarcò le
sopracciglia e mi rispose con un sorriso enigmatico:
- Lo hai portato a lavare l’altro
ieri. A che ti serve?-
Giusto. Tutta colpa di quell’oca
di Annarita che me lo aveva impiastricciato con il rossetto.
Senza una parola mi diressi in camera di
Muzi e aprii il suo armadio: qualcosa sempre avrei trovato.
- Allora, si può sapere che hai?-
Era stato Andrea a domandarlo. Erano di
nuovo tutti e due dietro di me. Non risposi e Maurizio intervenne:
- Stasera sbaglio o devi uscire con
Laura?-
Imprecai mentalmente: l’avevo
dimenticato. Mugugnai e decisi di spiegarmi:
- Le darò buca: stasera vado con Ilaria
e suo fratello ad un anniversario di matrimonio-
Anche senza vederli in viso la loro meraviglia
era chiarissima.
-
Ilaria? Quella della concessionaria?-
Andrea si intromise:
- Quella è Ilaria? Uau, è la ragazza con
cui è stato più costante-
E continuarono così, scambiandosi
battutine ed insinuazioni come se io non ci fossi. Emisi un’esclamazione
di gioia quando trovai fra i tanti completi uno di mio gradimento: nero, con
una camicia bianca sotto, ricordava uno smoking, ma era molto più elegante. Lo
afferrai e andai in bagno per cambiarmi. Dopo pochi minuti, mentre cercavo di
annodarmi la cravatta, la porta venne spalancata da Andrea che con un sorriso
ironico esclamò:
- Aspetta, aspetta. Non avevi detto con
Ilaria e suo fratello?-
Alzai gli occhi al cielo: non gli era
sfuggito.
- Sì, viene anche il fratello. E’
stato lui ad invitarmi-
Sbuffai sentendo la risata di Maurizio
provenire dalla stanza affianco e guardai con fare minaccioso Andrea, per
intimargli di stare attento a quel che avrebbe detto. Lui sorrise con fare
innocente e alzò le mane in segno di resa:
- Com’è il fratello?-
Lo squadrai per vedere se avevo sentito
bene e lui indifferente continuò:
- Se con quest’ Ilaria vuoi
concludere qualcosa, vengo anch’io e ti tengo occupato il fratello-
Sgranai gli occhi e lo fissai, cercando
di capire fino a che punto scherzasse:
- Andrè, sei mica passato
all’altra sponda?-
Lui sbuffò scocciato:
- Guarda Davide che lo faccio per te. Se
non ti interessa il mio aiuto…-
Sembrava avere un’aria quasi
risentita. Scoppiai a ridere e gli ammiccai:
- Andiamo, dai-
Sospirai sollevato, vedendo di avergli
ridato il sorriso e mi avviai verso l’uscita. Poco prima che aprissi la
porta mi fermò lanciandomi addosso qualcosa, lo sentii esclamare divertito:
- I pantaloni vuoi metterli o credi che
così arriverai prima al sodo?-
*
Ilaria
Scesi
dalla moto mantenendomi a lui.
Mi
tolsi il casco e glielo passai, mi sorrideva serafico e un po’ riluttante
ricambiai il sorriso. Non era sceso dalla moto e si era solo alzato la visiera
del casco. Era come se si sentisse a disagio: ora che eravamo di nuovo in
città, non più soli ed immersi nell’atmosfera speciale di quei luoghi, i
fatti accaduti potevano risultare alquanto imbarazzanti ed era tutta colpa mia.
Mia
e solo mia.
Ero
io che ancora non mi sentivo pronta a lasciarmi andare con lui, con Fil…
e per quale assurdo motivo?
Non
lo sapevo nemmeno io. Quando ero stata lì lì per
cadere e lui mi aveva presa, perché non lo avevo lasciato libero di baciarmi?
Perché mi ero scostata? Ripensai a tutte le emozioni di quel pomeriggio: a
quando eravamo scesi assieme su quella specie di seggiolino.
Ero
terrorizzata ma eravamo arrivati sani e salvi dall’altra parte: quasi non
riuscivo a crederci, era stato divertentissimo! Il sentirsi volare: in aria, su
un burrone di non so quanti metri… fra le braccia di Fil. Entusiasmante
era un eufemismo. Avevamo riso per buoni dieci minuti dopo, stuzzicandoci,
provocandoci per il puro divertimento di vedere le reazioni dell’altro.
Ed erano passate altre due ore, poi eravamo tornati alla moto e dopo un tempo
che mi sembrò brevissimo si era fermato sotto casa mia.
Lo
guardai ancora una volta, cercando di capire cosa stesse pensando, cosa
nascondessero quelle pozze d’acqua azzurra che mi fissavano. Ma lui non
disse niente, si limitò a farmi un cenno col capo per poi partire a tutta
velocità. Rimasi immobile ad osservare il punto dove poco prima era ferma la
sua moto: se ne era andato e non ero tanto sicura che lo avrei rivisto ancora.
Ricacciando indietro le lacrime ed ignorando il groppo amaro che mi si era
formato in gola mi voltai e mi avvicinai al portone.
Avevo
appena cominciato a cercare le chiavi che il portone si aprì con uno scatto.
Ringraziai mentalmente Mirko e salii di corsa le scale. La porta di casa era
socchiusa, la luce dell’atrio accesa ma troppo debole per farmi vedere
chi vi fosse. Feci per togliermi la giacca ma rimasi pietrificata
nell’atto dalla sorpresa.
Sgranai
gli occhi, non riuscendoci a credere ed in un men che non si dica ero fra le
sue braccia.
-
Ray?! Zio Robby! Ma come…? Che ci fai qui? Ti credevo ancora in Africa!-
Buttai
lì quelle esclamazioni di gioia, non sapendo esprimere in altro modo la mia
felicità.
Adoravo
quell’uomo.
Era
la tipica pecora nera di famiglia: costantemente disoccupato, nomade, sciupa
femmine, imbroglione e via dicendo, ma era riuscito a guadagnarsi il mio
affetto incondizionato. Era stato per Mirko e me più presente dei nostri genitori:
lui era stato partecipe ai nostri primi amori, alle nostre prime delusioni e
poi anche a tutte le successive, lui era venuto ai nostri diplomi, e alla festa
di inaugurazione della nuova casa… era sempre lui quello presente. In
qualunque capo sperduto del mondo si trovasse in qualche modo riusciva sempre a
presentarsi al momento giusto.
Continuai
a stringerlo forte finché non sentii una risata alle mie spalle, a quel punto
lo lasciai libero dall’abbraccio e guardai irritata Mirko che fingeva di
asciugarsi le lacrime con un fazzolettino:
-
Non fate così: mi fate commuovere!-
Stavo
per rispondergli male, ma finalmente riuscii a guardare meglio Ray: era
dimagrito e si era lasciato crescere i capelli, ora c’era una leggera
barba ispida a coprirgli la mascella. Aveva l’aria stanca, eppure
sembrava molto eccitato per qualcosa: lo vidi scambiarsi un’occhiata
d’intesa con Mirko e sospirai:
-
Che avete? Mi sono persa qualcosa?-
Sghignazzarono
e mi fecero segno di sedermi con loro in salotto. Ubbidii sebbene ancora
diffidente: non me la contavano giusta. Li guardai con aria interrogativa e fu
Mirko a prendere la parola:
-
Ray starà qui con noi per qualche settimana. Mi stava raccontando della sua
ultima avventura in Africa, quando squilla il telefono: Maurizio-
Sorrise
vedendo la mia bocca aprirsi leggermente dalla sorpresa e dopo avermi fatto
l’occhiolino continua imperterrito:
-
Sì, hai capito bene, Maurizio, che leggermente a disagio mi chiede di
ricordarti che ti aspetta domani alle nove nel suo ufficio. Lo zio Robby non
riusciva a capire il motivo della mia sorpresa e sai come mai? Credeva che tu
stessi ancora insieme a Davide, anzi ormai vi dava per fidanzati. Lasciati dire
che da te questa proprio non me la
aspettavo: come hai potuto non dirglielo?-
Scosse
la testa fingendo delusione e sorrise a Ray: si stavano divertendo un mondo.
Arrossii
ed iniziai ad agitare nervosamente il piede; Mirko sorrise anche a me e
continuò:
-
Ma andiamo avanti: gli faccio un breve riassunto della situazione ed ero quasi
arrivato a dirgli che non avevo la più pallida idea di dove tu fossi quando
squilla di nuovo il telefono. Veronica stavolta. Veronica che si aspettava di
trovarti a casa e che quando scopre che non è così scoppia a ridere. Tento di
capire il motivo di tanta ilarità e cosa vengo a sapere? Che sei chissà dove
con un certo Filippo!-
Sentii
le guance andarmi a fuoco e lo corressi in un respiro:
-
Fil-
Mi
guardarono entrambi con tanto d’occhi e Ray mi fece segno di andare da
lui.
Mi
ci sedetti in braccio e mi lasciai andare contro il suo petto.
-
Fil? Quello che ti ha accompagnata qui in moto?-
Bene!
Ora mi spiavano anche dalla finestra!
-
Non mi è sembrato ti abbia salutato con tanto affetto, scricciolo-
Chiusi
gli occhi, perché dovevo starli a sentire?
-
E dì un po’: dove ti ha portata a pranzo?-
Perché
facevano così? Volevano farmi soffrire?
-
In una trattoria fuori città-
Risposi
continuando a tenere gli occhi serrati.
Li
sentii sospirare e lo zio Robby iniziò ad accarezzarmi la schiena, come a
consolarmi:
- Ed
era il primo pranzo assieme? Te lo ricordi Davide invece…-
Che
bastardi.
Ma
che avevano in mente? Si stavano forse facendo un filmino mentale per via della
chiamata di Maurizio? Perché altrimenti quella era pura e semplice cattiveria.
Meschinità
all’ennesima potenza.
Volevano
farmi fare un confronto? Farmi fare un paragone fra i due?
Non
era affatto giusto e loro lo sapevano…
Non sapevo cosa aspettarmi: avevo
imparato a non dare nulla per scontato con Davide.
Aveva detto solo: “Faremo tardi,
piccola. Davvero tardi”
E visto che mi aveva dato appuntamento
alle tre del pomeriggio non sapevo cosa pensare: cosa mai poteva aver
organizzato? Anche applicandomi con tutte le forze, non avrei mai potuto
immaginare tanto: il luogo d’incontro era davanti alla nostra solita
caffetteria, così quasi mi aspettavo di vederlo arrivare a piedi.
Invece venne in moto: veloce mi fece
montare dietro di lui e partì a tutto gas.
Provai a chiedergli dove stessimo
andando ma lui non rispose.
Si fermò in uno spazio riservato e mi
portò in quello che sembrava un aeroporto in disuso.
Lì, fermo, vi era un aereo o meglio,
come mi corresse lui sorridendo: “un jet privato, un Airbus A380”
Il suo preferito.
L’ultimo regalo del paparino: un
jet del costo di 500 milioni tondi tondi, aggiunse
con disinvoltura.
E così salimmo su quel jet, chiamato
anche Flying Palace, ovvero Palazzo Volante e non a caso.
Passammo tutto il tempo a visitare quel
coso immenso, mi sentivo come una bambina ai suoi primi passi, completamente
disorientata, intrigata e curiosa. E lui mi seguiva, standomi dietro, sempre
attento, divertito dalla mia meraviglia, pronto a rispondere a tutte le mie
domande.
Per le prime due ore di viaggio
dimenticai persino di chiedergli dove stessimo andando, fu lui poi a portarmi
vicino ad un vetro e a quel punto capii da solo la nostra meta.
Non fu troppo difficile comprenderlo:
davanti ai miei occhi vi era la Tour Eiffel.
Mi aveva portata in Francia: a Parigi!
E quella era la nostra prima vera e
propria uscita, rabbrividii pensando a quello che avrebbe potuto combinare le
volte seguenti. Mi abbracciò da dietro e mi sussurrò piano all’orecchio:
- Ti piace?-
Quasi non riuscivo a rispondere tanto
forte era l’entusiasmo. Lui capì al volo e mi diede un bacetto sul collo:
- Non ti agitare troppo, piccola. Ancora
devi vedere tutto. Questo non era niente, non credevo ti avrebbe fatto tanto
effetto-
Disse calmo, per lui era tutto normale,
all’ordine del giorno. Sentii le gambe tremarmi e lui strinse la presa
sui miei fianchi. Mi soffiò sul collo come si divertiva a fare e disse, tutto
contento:
- Scendiamo? Non che abbia fretta, ma
non sapendo che genere di ristorante preferissi ho prenotato in tutti, così
facciamo un giro completo. Ti va?-
Annuii. Quasi non capivo più niente. Ma
faceva sul serio? Oh, sì, era serissimo.
Davvero aveva prenotato in tutti: mi
portò in tutti i ristoranti di Parigi.
Per prima cosa mi fece fare un giro
sulla Senna: sulla nave Capitaine Fracasse, dove prendemmo un aperitivo; poi andammo
al Baxo: ottima musica, moderno e sofisticato; quindi alla Brasserie Lipp:
assolutamente chic e raffinato; e ancora un salto a Montmartre per andare da
Chartier: uno dei ristoranti più caratteristici di Parigi; successivamente al
Petit Zinc, al La Crémaillère, al Tour d’Argent… e per concludere
in bellezza al Les Ombres: qui aveva prenotato una sala privata tutta per noi,
il tavolino era minuscolo, con due candele ad illuminarlo, come nei migliori
film.
Eravamo come sospesi in aria: circondati
solo da vetrate, con la Tour Eiffel a pochi passi da noi…
A
mala pena riuscii a reprimere le lacrime fino alla porta della mia camera.
Ignorai
le proteste e le scuse dei due che mi seguivano e mi chiusi la porta alle
spalle. Era stata una carognata quella che mi avevano fatto. Davvero una
carognata.
Mi
buttai sul letto e seppellii la testa nel cuscino.
Presi
il telecomando a terra vicino alla mia mano e accesi la musica: All the
words…
Chiusi
gli occhi, cercando di non pensare più a niente: né agli occhi di Filippo
quando se ne era andato sgommando in moto né alle labbra di Davide che sapevano
di champagne parigino davanti alla Tour Eiffel…
Sobbalzai
sentendo una mano sulla spalla. Saltai a sedere e mi ritrovai a fissare un paio
di occhi blu.
-
Fil? Cosa…?-
Lui
mi prese per mano e mi fece alzare. Aveva una strana espressione che non
riuscii a decifrare, pian piano si aprì un largo sorriso sul suo viso e
fissandomi sussurrò:
-
Vieni qui-
La
luce in camera era spenta, provenivano solo dei deboli bagliori da fuori la
finestra, eppure il sorriso di Fil sembrò brillare ed illuminare tutto. Si
avvicinò e mi tirò più vicino a sé: eravamo a pochissimi centimetri di
distanza, sentivo il suo respiro sul mio viso… mi soffermai ad osservare
le sue labbra, leggermente tremanti, e ne rimasi incantata: quasi non mi
accorsi che si avvicinavano sempre di più, e quando lo capii non feci niente
per impedirglielo.
Intrecciai
le mie dita con le sue nello stesso momento in cui le nostre labbra si
congiungevano le une alle altre. Strinsi ancora di più la stretta sulle sue
dita ed il bacio si fece ancora più intenso…
Mi
piacque, e ancora di più quando con le labbra sulle mie bisbigliò:
-
Scusami… Scusa per non averlo fatto prima: non sapevo cosa mi perdevo e
non avevo capito di dover lottare per averlo a tutti i costi.
*