*
Davide
Non
fu difficile cogliere la sorpresa di Armando.
Forse
fu per via del rumore degli occhiali che gli erano caduti di mano.
O
per il sonoro “Cosa?!” che gli uscì come un grido soffocato.
Spinsi
più a fondo le mani nelle tasche dei pantaloni, continuando a fissare il vetro
della finestra: non si vedeva niente, o forse erano i miei occhi a non
funzionare più. Presi diversi respiri, cercando di calmarmi: stavo andando in
tilt. E non ce n’era alcun motivo!
Non
stavo facendo niente di male: una semplice conversazione con un amico, ecco
cosa stavo avendo.
Com’era
possibile allora che mi sentissi così male?
Mi
sembrò di essere risucchiato di nuovo in quel vortice di emozioni: quelle che
avevo tanto accuratamente cercato di ignorare, quelle che ora mi stavano
uccidendo…
Poggiai
la fronte contro il vetro fresco, e rimasi così, immobile, per qualche minuto.
Mi
sentivo bruciare, un giramento di testa mi colse improvviso, facendomi perdere
la stabilità sulle gambe e dovetti tenermi forte alla credenza davanti a me.
Era possibile che mi sentissi in quello stato senza essere ancora davvero
arrivato al punto saliente del racconto?
Era
ora che arrivava il difficile.
Ora che dovevo cercare di spiegare le mie ragioni, probabilmente del tutto
errate, ma comunque mie.
Ora che avrei raccontato le cose dal mio punto di vista… la visuale
di un folle.
Tenendo
gli occhi chiusi, a rischio di scontrarmi violentemente con qualcosa, tornai al
divano. Mi ci sdraiai di nuovo e poggiando la testa sulle braccia, a mo’
di cuscino, ricominciai da dove mi ero fermato:
-
Allora Nando, non è affatto facile per me, quindi non rendermi le cose più
complicate di quello che già sono. Io… è stato perché… è lei
che… Dio! Come faccio a spiegartelo?!-
Non
ero mai stato tanto in difficoltà con le parole. No, nemmeno questo era vero.
Era
possibile che mentissi persino a me stesso?
Con
un moto di isteria mi voltai verso Armando: mi squadrava con occhi indagatori,
gli occhiali scesi sul naso, le labbra contratte, sembrava più che mai un
topolino, eppure non riuscì a farmi sorridere. Fu lui a parlare, con voce
calma, misurata, come ponderando ogni singola frase, ogni domanda:
-
Un po’ alla volta, Davide. Vediamo: eravate nei pressi di un campetto,
quando lei ti ha detto “Ti amo”. Giusto, fin qui?-
Annuii.
Annuii solamente. Di più non potevo fare.
Armando
si inumidì le labbra e riprese il discorso, fissandomi e accompagnando le mie
risposte come si fa con un bambino:
-
Quindi, fino al “Ti amo” ci siamo; ora: cos’è successo dopo?
Ci deve essere stato un fattore scatenante: lei ha combinato qualcosa di male?
Ti ha che so fatto arrabbiare? Oppure è andato storto qualcosa nelle vostre
conversazioni successive? O… non dirmi che ti sei ubriacato!-
Fu
Armando a sbloccarmi: lui e tutte quelle sue assurde ipotesi. Come poteva anche
solo pensare che fosse minimamente colpa di Ilaria?! O che io solo per
un’arrabbiatura avrei potuto fare una cosa del genere?
Non
lo sentivo più ormai, mentre continuava con le sue assurde congetture: ero di
nuovo su quel prato bagnato, con Lari fra le mie braccia, le sue parole nelle
orecchie. Non arrivai al bacio, però. Mi fermai prima. Perché non era con quel
passato che dovevo fare i conti: ma con un altro, che meritava dopotutto di
essere ricordato.
Un
passato niente affatto piacevole, che risvegliava in me pensieri
tutt’altro che graditi: quelli che mi facevano sbattere contro la
consapevolezza della mia umanità… non che mi credessi un Dio, ma quei
momenti in particolare mi facevano apparire persino a me stesso come un
bastardo patentato, di quelli che dovrebbero essere condannati a morte senza
pensarci sopra due volte.
Ma
ero io in fondo quell’individuo spregevole, non c’era niente da
fare.
-
No, Nando. Non ci sei. E’ stata colpa di Ilaria, ma non nel modo che
pensi tu. La sua unica colpa è stata di dirmi
“Ti amo”. L’ha detto alla persona sbagliata: ad uno
stronzo immane, ecco dov’è stato il suo errore. Non doveva farlo,
semplicemente non doveva. E’ stato quello il fattore scatenante,
capisci?-
Sollevai
lo sguardo per incontrare quello del mio ascoltatore e mi scontrai con il suo
disappunto. Stava scuotendo la testa, lentamente, in maniera inquietante:
-
No, non capisco. Come può aver potuto un semplice “Ti amo” causare
tutto questo? Due parole. Due minuscole parole! Ormai vengono dette in
continuazione, per lo più a sproposito, in qualunque momento a chiunque!
Com’è possibile che abbiano causato la vostra rottura? Non era quello che
volevi sentirti dire, forse?-
Ogni
affermazione fu per me come una frustata: dolorosa, implacabile, ma soprattutto
piena di verità e portatrice di rimorso. Tormento che fu presto sostituito
dalla rabbia. Ira immotivata.
Scattai
a sedere, strizzando gli occhi, stringendo le mani a pugno e piantandomi le
unghie nei palmi, come facevo quando non riuscivo a controllarmi.
Ma
non dovevo comportarmi così e lo sapevo.
Sapevo
che era sbagliato, che l’ultima volta che l’avevo fatto mi ero
ritrovato con le mani sanguinanti ed il cuore straziato. E ora non volevo
succedesse di nuovo, né il sangue né alcun altro tipo di dolore.
Lentamente
allentai la presa e prendendomi la testa fra gli avambracci mormorai fra i
denti:
-
Lo so. Lo so. Lo so! E’ colpa mia! Solo ed unicamente mia! Va bene?-
Ero
arrivato quasi ad urlare, alzando il tono di voce senza rendermene conto.
Urlavo
per il semplice motivo di non voler sentire la verità, ma era quella, e non si
poteva cambiare; gridare non sarebbe servito a nulla. Pian piano tornai nei
limiti e continuai, rispondendo alla domanda più difficile:
-
Certo. Certo, che era quello che volevo sentirmi dire. Non desideravo altro.
Inconsciamente aspettavo quelle due parole con tutto me stesso, ma non avevo
pensato alle conseguenze… Nando, ricordi che io a lei lo dissi la prima
volta che ci baciammo? “Ilaria ti
amo” Per me era facile. La cosa più semplice è naturale del mondo. Era
come dire qualunque altra cosa, perfettamente normale. Questo non significa che
non fosse importante per me, era speciale ogni singola volta. Non era
difficile, però.-
Sospirai
cercando le parole per spiegarmi meglio. Così non andava bene.
-
Per Ilaria è stata dura, capisci? Quella fu la prima volta che me lo disse,
mentre io glielo ripetevo ogni giorno, in ogni momento! Non pensare che mi
dispiacesse: non era un problema per me. Rispettavo i suoi tempi: e se non era
ancora pronta, che ci potevo fare? Già mi dimostrava il suo amore in ogni bacio
che mi concedeva in fondo. Perché avrei dovuto imporle qualcosa? Doveva essere
lei a compiere quel passo, da sola.-
Nando
si tolse di nuovo gli occhiali e bisbigliò, come sottomettendosi
all’atmosfera rigida che c’era:
-
Quindi, l’ha detto troppo tardi? Ha aspettato troppo? Ti sei sentito
offeso in qualche modo?-
Tornai
ad appoggiarmi al divano con un sospiro e piegai la testa all’indietro.
Ma che razza di strizzacervelli era? Come faceva a non arrivarci?
-
No! Certo che no! Se anche avesse aspettato altri dieci anni non sarebbe stato
troppo tardi! Il problema è che è stata sincera! Cioè, pensava seriamente quello
che diceva…-
Armando
sgranò gli occhi, guardandomi come se stessi delirando. Come dargli torto?
-
… Non capisci? Fino a quando ero solamente io a dirle di amarla, era come
se in gioco ci fossi solo io.
Mi
appoggiavo senza accorgermene all’idea che nel caso fosse successo
qualcosa, a me o a lei, se fosse capitata una qualunque cosa, a soffrire di più
sarei stato io. Era un modo assurdo di proteggerla. Fino a quando non avesse
pronunciato quelle parole sarebbe stata, almeno nelle mia improbabili convinzioni,
difesa…
Poi
invece lo disse. E quasi non riuscivo a credere a come suonasse bene sentirselo
dire, a come fosse bello. Trasmetteva dolcezza, aspettativa, fiducia, e
soprattutto, amore. Lì per lì, ti giuro, mi sarei potuto mettere a ballare,
incapace di contenere le emozioni! Ma poi…-
Alzai
per un istante lo sguardo su Nando, per poi riabbassarlo.
Ecco
il punto, ora non potevo più evitarlo, c’ero arrivato.
L’unica
soluzione sarebbe stata saltarlo ancora una volta, ma non era quello che dovevo
fare.
No.
Anzi,
se proprio dovevo affrontare la situazione a testa alta, tanto valeva farlo
come si doveva.
Tornai molto tardi a casa quella sera.
Saranno state le tre, se non le quattro.
Non riuscivo ad allontanarmi da Lari: avevamo passato il resto della serata
assieme, girando per negozi, passeggiando sul corso, il tutto ancora bagnati,
scaldandoci a vicenda.
Poi l’avevo portata a cena e
ancora in giro. Mi ero deciso a riaccompagnarla a casa solo grazie ad un immane
sforzo di volontà: sentivo di non dover mettere dello spazio fra noi, come se
fosse stata un’ avvisaglia, un monito a stare attento, a non lasciarmi
andare.
Ma non potevo rimanere con lei in
eterno, e tornai a casa. Quatto quatto, cercando di
non fare rumore, mi chiusi in camera e mi sdraiai a letto. Mi tirai le coperte
fin sopra il naso: non mi ero nemmeno tolto i vestiti, convinto che mi sarei
addormentato subito, sfiancato dalle emozioni di quella serata. Ma non fu così.
Non riuscii a prendere sonno.
Per qualche inspiegabile motivo ero nervoso,
a dir poco inquieto. C’era qualcosa che non andava, e forse ero soltanto
io, troppo provato da tutte quelle emozioni, che stava dando i numeri: riuscivo
infatti solo a pensare alle parole di Ilaria, ma non in modo positivo,
purtroppo.
Riflettevo e mi tormentavo
all’idea che ora fosse realmente entrata nella nostra partita a due.
Ora anche lei era in gioco, quanto e
forse più di me.
Cercai inutilmente di scacciare quelle
considerazioni a dir poco biasimevoli: sarei dovuto essere contento non terrorizzato.
Perché le cose stavano andando in quel modo? Perché nella mia testa stava
andando tutto a rotoli? Perché non potevo reagire come una persona normale, non
facendo quasi caso a quella dichiarazione d’amore a dir poco antiquata?
E io la risposta la sapevo: era perché
sapevo quanto quell’ ormai sottovalutata dimostrazione d’amore
fosse importante per la mia Lari. Avevo capito come era stato difficile per lei
dirlo e cosa quindi ciò comportasse.
Avrei dovuto stare molto più attento,
riflettendo e giudicando ogni mia azione, perché se mai l’avessi ferita
ora… non volevo pensarci, la sola prospettiva di ferirla era
agghiacciante, figurarsi il perderla!
Fu durante uno di questi miei sproloqui
mentali che mi addormentai.
Dormii fino all’una del giorno
dopo: un sonno ininterrotto e senza sogni. Quando mi risvegliai ero intorpidito
e ancora agitato. Mangiucchiai veloce qualcosa e poi uscii di casa, per andare
da Ilaria.
Più o meno allora imboccai la discesa,
metaforicamente parlando è chiaro.
Quella discesa che avevo solo osservato
timorosamente prima di prendere sonno.
Sempre quella che mai avrei voluto
prendere, ma che mi ritrovai a percorrere a tutta velocità, senza riuscire a
fermarmi, senza alcuna possibilità di tornare indietro.
Ero quasi arrivato a casa di Lari quando
frenai di colpo, e in un attimo avevo fatto retromarcia, tornando veloce
indietro. Iniziavo già a non essere più cosciente delle mie azioni.
Per quale inspiegabile motivo
l’avevo fatto?
Tornai indietro, girando senza meta,
senza vedere realmente dove andavo.
E alla fine mi ritrovai fuori casa mia,
di nuovo.
Tornai in camera e mi rigettai sul
letto: ero di nuovo al punto di partenza.
Non sapevo cosa fare: possibile che mi
comportassi come uno qualsiasi di quei ragazzini stupidi e tremanti della
televisione? Quelli brufolosi, ancora lontani dalla pubertà, che al minimo
sentore di prossime responsabilità fuggivano a gambe levate?
Stavo scappando?! Davvero lo stavo
facendo?
Non riuscivo a crederci, principalmente
perché la parte del mio cervello ancora funzionante non arrivava ad individuare
il motivo di tanta paura. Non era cambiato niente… o no?
Certo avevamo raggiunto un maggiore
stadio di intimità e fiducia reciproca. In quel momento capii dov’era uno
dei tanti errori: la fiducia. Era quella che mi spaventava: che Ilaria potesse
iniziare a fidarsi di me.
Non meritavo tanto. Non ne ero degno.
Io, Davide, ragazzo modello e
responsabile? Ma per favore!
Non ci avrebbe mai creduto nessuno: di
solito si scommetteva su quanto potesse durare una mia relazione, ma era un
gioco molto in negativo, la cui massima puntata era sulle due settimane. Se
avessi detto a qualcuno: “Sai mi sono innamorato e credo di star vivendo
quella che si potrebbe definire una relazione seria”, questo qualcuno mi
avrebbe sicuramente riso in faccia e, dopo avermi poggiato una mano sulla spala
con fare comprensivo, avrebbe asserito: “Stai buono su, vedrai che fra
poco ti passerà”
Chi aveva ragione, il qualcuno o la mia
Ilaria?
Perché mai lei era così pazza da fidarsi
a tal punto di me?
Era tutto sbagliato! Non doveva andare
così… io non dovevo sentirmi così!
Iniziai a girare in circolo per la
stanza fin quando non cominciò a girarmi la testa; a quel punto crollai sulla sedia
della scrivania e mi curvai sul tavolo davanti a me. Nel farlo senza
accorgermene avevo schiacciato assieme diversi pulsanti della tastiera che
azionando chissà quali comandi avevano dato vita a numerosi suoni.
Alzai gli occhi sullo schermo, e mi persi
nell’immagine del desktop: un paesaggio invernale, una baita in montagna,
quella dove stavo progettando di portare Ilaria… con uno scatto
involontario presi il mouse e frettolosamente tentai di coprire la foto aprendo
una partita di solitario.
La persi, così come persi quella
successiva e quella dopo ancora. Non mi andava di giocare.
Aprii la barra dei menù e scorsi i
programmi, non mi andava nessuna di quelle cose. Stavo ponderando l’idea
di iniziare a navigare su Internet, considerando attentamente quanto fossi
pericoloso nel web senza un intento ben preciso, quando l’occhio mi cadde
su una finestra colorata nell’angolino in basso a destra dello schermo:
era una finestra informativa, mi ricordava di avere ben trentasei messaggi non
letti.
Ci cliccai sopra e mi si aprì davanti
una lista di letterine gialle. Ci vagai con lo sguardo, cancellando quelle di
lavoro, ignorando quelle di Andrea… non mene interessava nessuna, o
almeno così credevo.
Ma mi sbagliavo: nella pagina di quelle
più recenti, una mi balzò improvvisamente all’occhio, ingrandendosi e
brillando nella mia mente. Lentamente mossi il mouse su di essa, ma
all’ultimò momento deviai il gesto, portando il cursore sul pulsante di
chiusura. Stavo per chiudere tutto, quando il cellulare mi vibrò in tasca; lo
presi con l’altra mano e guardai il numero sul display: era Ilaria.
Chiusi un attimo gli occhi e riposai il telefono nei pantaloni, quindi tornai a
guardare lo schermo del computer ed aprii quell’e-mail.
L’e-mail di Marianna.
Marianna Esposito.
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