CAPITOLO 15
Di terra, di acqua e di luce
C’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo.
Charles Baudelaire
Il buio le aveva sempre fatto paura. Sì, si vergognava ad
ammetterlo, ma era solo una mocciosa piagnona e paurosa. Però quella sera,
nonostante le sue mille angosce – sopra tutte il terrore dei lupi: quando li
sentiva ululare in lontananza le pareva già di sentire le loro zampe correre
leggere per circondarla, di vedere il biancore dei loro denti sulle sue tenere
carni – non si era limitata a guardare le stelle fuori dalla finestra. L’aveva
aperta ed era uscita.
Era tornata all’aia dove raccontavano la storia e, nascosta dalle tenebre, aveva
visto il bardo. Era sempre l’ultimo a lasciare quei piccoli raduni che per loro,
al paese, erano la normale conclusione della giornata, mentre per lui apparivano
come l’appuntamento che dava senso al suo giorno. L’aveva visto incamminarsi,
lentamente, ma non era andato nella direzione della locanda. Stava andando verso
il lago.
Il cuore di Corinna diede un balzo: il lago! Quella distesa d’acqua l’aveva
sempre affascinata – proprio come la notte – ma non aveva mai avuto il coraggio
di andarci da sola, al buio. Di giorno sì: andava spesso a giocare nelle
vicinanze della riva, anche se la nonna non voleva che toccasse quelle acque
tranquille. “Se ti bagni i piedi prenderai la tosse!” le diceva sempre. E
Corinna, obbediva, temendo di non poter più andare a vedere il lago se si fosse
ammalata.
Prese a seguire l’uomo solitario che camminava lentamente davanti a lei. Ma che
passi lunghi che faceva! Per fortuna la bambina conosceva perfettamente il
sentiero, sennò non sarebbe mai riuscita a tenergli dietro. Doveva solo stare
attenta a non inciampare: non sapeva neppure lei il motivo, ma non voleva farsi
scoprire. Non credeva che il cantore l’avrebbe sgridata se l’avesse scoperta, ma
non si sa mai coi grandi. E poi il pericolo dei lupi era sempre lì: se si fosse
fatta male non avrebbe mai fatto in tempo a fuggire e l’avrebbero mangiata.
Anche se la nonna diceva sempre che era troppo magra per essere un pasto
gustoso, anche per un lupo affamato. Però chi ha fame – lupi compresi – si
accontenta anche di poco, pensava lei.
Appena arrivata si fermò a rimirare lo specchio di acqua ai suoi piedi: era
bellissimo. Sembrava un secondo cielo o meglio: sembrava che il cielo gli desse
un volto con le stelle per occhi e la falce di luna per sorriso. Si sedette
sulla riva, a poca distanza dal bardo – non si deve andare in giro da soli dopo
il tramonto! – che appariva immerso nei suoi pensieri, e, proprio come lui,
contemplava la superficie dell’acqua.
Ma quando apparve l’immagine del guerriero, Corinna non distolse lo sguardo e,
men che meno fuggì, anzi: rimase a guardarlo, estasiata, dimenticando di avere
paura della notte e dei lupi. Sapeva perfettamente cosa fosse: finalmente
l’aveva trovato. O ritrovato?
“Signor Sesshomaru?” bisbigliò fra sé e sé.
E, come se l’acqua fosse diventata solo un sottile velo, come una tenda lisa dal
tempo, lo spirito si voltò verso di lei.
Aveva riconosciuto quello sguardo. L’avrebbe riconosciuto fra mille altri.
Grandi occhi neri che mai lo avevano temuto. Eppure il viso non era lo stesso,
neppure il modo di vestire. Però quegli occhi… non poteva sbagliarsi.
Sesshomaru chiuse i suoi per un attimo, per cancellare quell’immagine temendo
nell’ennesimo sogno, nell’ennesima illusoria speranza. Ma la bambina era ancora
lì quando li riaprì. Anzi era più vicina e gli tendeva una piccola mano, per
sfiorarlo, per toccarlo.
Corinna stava camminando con le caviglie lambite dalle acque del lago, dimentica
dei suoi buoni propositi e delle raccomandazioni della nonna. Voleva avvicinarsi
al guerriero bianco, voleva vederlo da vicino, voleva toccarlo. Voleva sapere
perché quella figura gli fosse tanto familiare nonostante fosse la prima volta
che lo vedeva, voleva sapere perché conosceva il suo nome se, fino a poco fa, la
sua esistenza, per lei, era stata solo una speranza a cui si era aggrappata
tante volte, con cui aveva giocato, con cui aveva parlato, ma senza ottenere una
risposta che le suggerisse che quel sogno potesse essere reale.
Sesshomaru allungò la mano verso il cielo, incontro a quella della bambina, ma
toccò solo aria.
Di nuovo il terreno tremò sotto i suoi piedi squarciando la terra, mutilandola e
in lontananza risuonarono grida e richiami.
Quanto ancora resisteremo?
La terra tremò anche sotto i piedi di Corinna. E il lago si riversò su di lei,
ingoiandola in un vortice fatto di acqua, schizzi e schiuma. Non seppe mai dire
se fosse stato un gioco della sua fantasia, un incubo o il frutto della paura,
ma lei fu sempre convinta che, in quel momento, le onde si condensassero nelle
sembianze di un grande lupo nero che l’azzannò alle caviglie per portarla con sé
in abissi molto più profondi del fondo del lago, abissi così lontani dove
neppure la luce della luna poteva giungere, dove non c’era aria per respirare,
dove sarebbe morta senza neppure salutare la nonna. E di nessuno di quei malanni
che l’acqua avrebbe potuto provocarle.
Aveva chiuso gli occhi, Corinna, per non vedere tanto orrore – per non vedere la
morte in faccia – , mentre col poco fiato che le restava, bisbigliava un nome
che era una preghiera: “signor Sesshomaru, aiutatemi, signor Sesshomaru…”
E Sesshomaru sentì le parole, vide il lupo e vide la bambina.
Fu investito da una corrente di aria fredda, e da schizzi d’acqua: il cielo
sopra di lui si era aperto.
In un balzo fu in piedi, la spada sguainata e quella bestia nera come la notte
avvolta in turbini di acqua gelida gli si mostrò in tutto il suo furore. Portava
la bambina fra le possenti zanne e lo guardava altezzosa, superba. Era una
sfida: Sesshomaru non aspettava altro. Un salto, un breve volo e la voragine nel
cielo diventò una porta e una guerra: entrambe portavano verso la libertà. O
verso la morte.
Fu una lotta serrata, fatta di artigli, di morsi e di spade. Lottavano fra case
diroccate che degli uomini portavano solo il ricordo, sentieri disfatti, coperti
di alghe e abitate da creature che, ignare di assistere a uno spettacolo che
avrebbe cambiato il loro mondo, si nascosero o fuggirono, per non soccombere a
loro volta a quelle due furie.
Due guerrieri che combattevano fieramente, perché entrambi sapevano che dal
risultato di quel duello sarebbero dipese molte cose.
Sesshomaru taceva mentre combatteva. Non aveva bisogno di sprecarsi in parole
che non avrebbero ferito il suo nemico abbastanza da indebolirlo o da farlo
soccombere. C’era gelo e fiamma nei suoi occhi, e c’era una volontà di vincere
che mai aveva provato prima. Non c’era solo il suo orgoglio in gioco: c’era la
sopravvivenza degli spiriti – tutti –, la loro libertà. E c’era anche la vita di
quella bambina che doveva avere già incontrato anche se in tempi e in luoghi che
ora sfuggivano dalla sua memoria.
La bestia nera ringhiava e nei suoi ululati c’era dolore e rabbia. Tanta rabbia.
Rabbia per un giuramento proferito di cui non era mai stato pagato lo scotto. E
ora i mondi si erano avvicinati, di nuovo. Abbastanza per riunirsi, vero, ma lui
non lo avrebbe permesso, non finché il mezzo demone non gli avesse dato quello
che era suo: voleva quell’anima. Voleva divorarla. Gli era stata concessa in
cambio di molto – troppo – potere. Era sua.
Nel frattempo si sarebbe accontentato anche di quella bambina. Se solo la sua
anima fosse stata un pochino più nera. Le anime dei bambini non erano molto
appetitose: non avevano ancora visto abbastanza vita.
“Lasciala e te lo porterò,” mormorò Sesshomaru, accorgendosi che quella lotta
non sarebbe mai finita. Non abbastanza velocemente perché la bambina
sopravvivesse, almeno. E probabilmente neppure i demoni nell’altro mondo.
Maledetto tempo! Ora si rendeva conto perché gli umani lo reputassero
dannatamente importante.
E lui che aveva sempre pensato di averne a disposizione senza limite…
La risposta della bestia nera fu l’ennesimo ringhio. Un ringhio che pareva una
risata e uno sberleffo e che tradiva la minaccia che stava dietro. Ma era anche
un’affermazione e un ultimatum: prima della prossima luna piena, gorgogliò,
dissolvendosi in acqua fra le nere acque del lago.
Sesshomaru raccolse la bambina – “è ancora viva!” pensò – e la riportò in
superficie.
E quando Rin si risvegliò bagnata come un pulcino, la prima cosa che vide fu uno
spirito bianco che contemplava una sottile falce di luna nel cielo.
***
Prima che il bardo potesse rimettere piede nel villaggio, la terra aveva tremato
sotto i suoi piedi. Era durato soltanto un istante, più la vertigine della
caduta che la sensazione di un crollo, ma era stato sufficiente perché tutta la
gente si riversasse nella piazzetta, chi piangendo, chi pregando, e chi trovando
conforto nella paura degli altri. Ovviamente non mancavano neppure i baldanzosi
che urlavano il loro coraggio, soprattutto ora che tutto era finito.
Il bardo si tenne in disparte: non aveva voglia di compagnia. E neppure era
tornato alla locanda: era troppo inquieto per rinchiudersi fra quattro mura, per
stendersi su un letto e mettersi a dormire.
Si era diretto svogliatamente nell’aia del racconto e, trovandola
miracolosamente vuota, si era seduto, la schiena appoggiata al solito ciliegio.
Aveva chiuso gli occhi, per cercare il sonno sotto il cielo che tante volte
l’aveva guardato dormire.
Un ticchettio ritmico lo fece sussultare: aprì gli occhi e si guardò attorno:
un’ombra si muoveva fra le altre. Un’ombra che con una mano si reggeva ad un
bastone e che, con l’altra, si reggeva il petto. Anzi no: reggeva qualcosa di
luminoso, che, a mala pena, riusciva a nascondere con la mano.
“Cosa fate qui, cantore?” gli chiese con una voce roca e stanca.
La vecchia!, pensò il bardo alzandosi lentamente in piedi.
Avrebbe voluto chiederle la stessa cosa, ma si trovò a aiutarla a sedersi su uno
dei ciocchi: essere arrivata fin lì doveva essere stato uno sforzo troppo grande
per lei. Eppure era sembrata così energica in quei giorni! Solo quella sera
aveva tossito, ma non poteva essere così grave…. O sì?
“Avete visto la mia bambina?” chiese in un bisbiglio.
Il bardo fece un cenno di diniego.
E quando la vecchia portò la mano che teneva al petto a coprirsi la bocca per un
attacco di tosse, il bardo la vide: una sfera grande quanto una noce che
emetteva una tenue luminescenza rosata. Una luce che, pian piano, sembrava
aumentare di intensità.
Ipnotizzato da quella visione – che diavoleria è mai questa? È forse? No… la
Sfera dei Quattro Spiriti? – accostò la mano per toccarla, per sentire se era
calda per sentire se era viva.
Ma una stretta ferrea sul polso da una mano ghiaccia lo distolse dal suo
intento. Alzò lo sguardo e brividi gli corsero lungo la schiena quando incrociò
gli occhi neri da rapace della vecchia.
Paura, di quella vera. Paura di essere nel posto sbagliato, nei panni sbagliati,
nella vita sbagliata.
E paura – tanta, davvero – alla fine di aver trovato una storia che non avrebbe
potuto raccontare.
***
Nota dell'autrice: ebbene sì, è tornato e si avvicina alla conclusione. Mi scuso immensamente di aver impiegato più di un anno ad aggiornare questa storia. Mi scuso con chi l'ha amata, con chi l'ha seguita e anche con chi è solo passato di qui per caso.
Ringrazio infinitamente Miriel67 e Gweiddi at Ecate che mi hanno mostrato più e più volte quanto tenessero a questi personaggi (in particolare al bardo) e a questa storia.
Un abbraccio anche alle adorabili (e adorate) Jekka e Avalon9.
Come ho già detto, la conclusione è vicina. Pazientate: ultimamente sono diventata lentissima a scrivere per un sacco di motivi, ma non lascerò passare un altro anno per il prossimo aggiornamento!
Ringrazio tutti per la vostra attenzione.