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Autore: Guardian1    20/04/2010    2 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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capitolo cinque
senza sapere



I force silence down the throats of mutes,
down the throats of mating-cries of animals who know they are extinct.
The chameleon’s death-soliloquy is your voice’s pulse;
your scorched forehead a constellation’s suicide-note.

A phonograph needle plunges through long black hair,
and stone drips slowly into our veins.
The earth has been squandered by the meek.
And upsidedown in the earth a dead man walks upon my soles when I walk


Costringo al silenzio le gole dei muti,
le gole di animali che si accoppiano sapendo di essere estinti.
Il soliloquio di morte del camaleonte è la cadenza della tua voce;
la tua fronte scottata è la lettera di suicidio di una costellazione.

L’ago di un fonografo si tuffa tra lunghi capelli neri,
e la pietra ci cola lentamente nelle vene.
La terra è stata sperperata dai mansueti.
E sottoterra quando cammino un uomo morto cammina a testa in giù sulle mie suole


- bill knott



I secondi divennero ore, le ore divennero giorni, i giorni divennero settimane.

Passavo la maggior parte del tempo nella noia più nera e disperata percorrendo ogni centimetro del pavimento della mia stanza mentre progettavo alacremente piani di fuga. Ogni tanto parlavo con Rain, che era gentile, buono e premuroso e mi portava nelle enormi cucine della Reggia, dove mi faceva sedere su una delle credenze per controllarmi come una bambina piccola. Mi preparava sempre dei dolcetti con cannella e zucchero, e io li mangiavo lasciando tracce calde e appiccicose sulle dita mentre parlavamo della vita, del tempo e dei chocobo. Parlavo anche con altri maghi neri, dolci cose mai ingenue con i cappelli grossi e gli occhi gialli, e in una botta di originalità li chiamai Cloud, Sun e Tide. Un altro lo chiamai Rainbow Moonshine Seaspray, ma tutti si confondevano quando cercavano di ricordarsi quel nome e alla fine optammo per Shiny.

Alle volte mi terrorizzava il misto di tenerezza e violenza con cui Tango Nero trattava i suoi maghi, i suoi piccolini. Poteva tanto accarezzare loro il cappello e pronunciare parole d’affetto quanto prenderli a calci nei fianchi, riuscendone a tollerare a stento la vista quando li superava in tutta fretta. Faceva lo stesso con me, un bastardo dal temperamento burrascoso che però ogni tanto si sedeva al mio fianco e rimaneva in silenzio per molto tempo come se non sapesse bene cosa dire.

Nei giorni di pioggia si appollaiava in cima alla torre della biblioteca, e dalla mia camera lo osservavo disintegrare con Fire dopo Fire gli antoleon che uscivano a farsi un bagno. Avrebbe potuto polverizzare una città intera senza alcuno sforzo. Avrebbe polverizzato una città senza alcuno sforzo. Ti prego non Lindblum, ti prego non Lindblum, ti prego non Lindblum…

Quando la caldaia si rompeva scendevo a ripararla per Rain, ma ci volevano sempre ore di suppliche per convincere Tango a darmi gli strumenti adeguati. Una volta, dopo aver finito, mi ero infilata una chiave inglese nei pantaloni, con le palme sudaticce per la paura e i dubbi: avrebbe potuto tornarmi utile. Quando ero uscita lui era lì ad aspettarmi, e mi aveva stracciato i pantaloni a mani nude per farla venire fuori. L’aveva sollevata, e io ero trasalita, preparandomi al colpo; poi però si era voltato verso Rain e l’aveva colpito con una violenza tale da sbalzarlo contro il muro. Mi ero allontanata con il maghetto tra le braccia, sotto il suo sguardo.

Tu sei mia, linden-bloom, aveva detto. Non ho bisogno di farti male con le mani per ferirti.

« Stronzo » sibilai in seguito in camera mia, tra le lacrime. « Figlio di puttana, bastardo, succhia yan – Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio! Muori! Fermati! Sanguina! »

« Va tutto bene » gracidò Rain dal mio letto, la voce ridotta a un sussurro. « Eiko, non fa niente. »

« Ti ha picchiato! Ti ha picchiato con una chiave inglese! » Era così piccolo, così dolce. Nella mia mente c’era soltanto l’immagine di lui che sbatteva sul muro, e poi il cappotto, il cappello e le sue scarpe si tramutavano in quelle di Vivi, e lui diventava Vivi-

« Mi riprenderò. » Emise un sospiro. « Lui si arrabbia, Eiko. Lui – lui non riesce a fermarsi. Dopo si dispiace. »

« E se ti avesse ucciso? » ruggii io. « E se fossi morto? »

« Lui – dopo se ne sarebbe dispiaciuto. »

« Se ne dispiacerà adesso. »

« Non avrei dovuto farti prendere la chiave inglese. »

« Santo cielo. » Mi inginocchiai sul letto e posai il mento sul materasso, stringendo gli occhi e sentendomi immensamente colpevole. « Oh, Rain. È colpa mia. Non avrei dovuto cercare di prendere la chiave inglese. Avrei dovuto immaginare che ti avrebbe fatto qualcosa. Se ti avesse ucciso la colpa sarebbe tutta mia. Voglio soltanto tornare a casa. Non ce la faccio più a stare qui. »

« Lo so » sussurrò lui in tono rassicurante. « Lo so. Ma devi, Principessa, devi, finché lui non ti lascerà andare. »

O finché non l’avessi ucciso gonfiandolo di Sancta. L’avrei ucciso. L’avrei ucciso. L’avrei ucciso.

Scorgendo l’odio sul mio viso, Rain fece un cenno di diniego col capo. « Datti pace, Eiko. Noi ti vogliamo bene. »

« Vi voglio bene anch’io. » Ed era già vero. Piansi nel suo guanto.



Voler bene a quei maghi neri faceva male come un pugnale, e suppongo di aver iniziato a volergliene per un motivo che più sbagliato non si può: volevo Vivi da ognuno di loro e non lo trovavo. Avevo perso Vivi per sempre, sempre, era morto, non c’era più, e non avevo mai elaborato la cosa. Mia madre aveva detto che i bambini sono resistenti, che mi sarei ripresa presto, ma non fu così. Nessuno che avesse conosciuto Vivi si era mai ripreso del tutto, in un piccolo anfratto del proprio cuore. L’ingiustizia di quello che era accaduto, il dolore, l’orrore, e l’affetto si mischiavano tra loro e logoravano talmente tanto che bisognava ficcarsi il tutto in qualche andito del cervello; ci si limitava a piangere quando arrivava la notte del suo compleanno e si sussurrava alle tenebre, « Avrebbe compiuto quattordici anni- » « Avrebbe compiuto sedici anni- » « Avrebbe compiuto diciott’anni- »

Era venuto al mio compleanno, al mio primissimo compleanno con mamma e papà, e c’erano anche Garnet, Freija, Steiner e tutti quanti. Quina mi preparò un tè speciale e persino Amarant si fece vivo. (Il regalo di Amarant puzzava un po’ di compere dell’ultimo minuto: una borsa di caramelle, qualche gil, un calamaio vuoto e il suo vecchio set di Poison Knuckle. Freija gli mollò uno schiaffo e gridò, « Non puoi fare un regalo del genere a una bambina, imbecille! » Quindi si misero a combattere, evento che trovai eccessivamente divertente per l’età che avevo. Attaccai gli artigli alla parete a dispetto della costernazione di mamma, e attesi trepidante il set dell’anno seguente. Mi regalò altre caramelle e un paio di pozioni, fatto tanto inspiegabile quanto deludente.)

Vivi però mi portò un pacchettino incartato e un mazzo di fiori selvatici. Il cappello ballonzolava in tutte le direzioni e aveva una voce imbarazzatissima, ed era la prima volta che ricevevo dei fiori; faceva molto “persone adulte.” Il suo regalo non era nulla di eclatante: una collana di perline, verde e carina, che però non tolsi fino ai quindici anni, quando la persi. Mi trovavo sul ponte, stavo lavorando a una turbina e mi si sciolse, precipitando in città. Ebbi una mezza crisi isterica e piansi convulsamente per la collana di perline, per il dono di Vivi. Grande e grossa com’ero, strisciai a singhiozzare sul grembo di mia madre.

Vedete, è strano, ma io sono sempre stata una sentimentale. Non avrei dovuto esserlo. Per troppi anni della mia vita ho vissuto nelle terre rocciose insieme ai moguri, rubando il necessario per sopravvivere e mangiando certe cose, d’inverno, che oggi solo a ripensarci mi viene la nausea. Non avrebbe dovuto esserci spazio per i sentimentalismi. Ma c’era, c’è sempre stato, e aspettavo quasi ossessivamente che un bellissimo cavaliere bianco venisse a prendermi e rendesse la mia vita perfetta come lo era stata quando mio nonno era vivo. Il cavaliere che arrivò era molto più grigio, sporco e ghignante delle mie previsioni. Amavo e amo ancora Gidan – nel senso originario inteso dalle bambine, lui sarà sempre il mio idolo scintillante. Ma non penso che fosse lui il mio cavaliere.

Pochissime persone hanno un cavaliere tutto per loro. Preferirei essere come Beatrix o Freija e farmi da cavaliere da sola piuttosto che dovermi affidare a qualcun altro.

Questa volta non sto anticipando le cose; le sto posticipando, faccio un riepilogo del mio passato. Male lo stesso. Andiamo avanti.

Imparare di nuovo gli incantesimi era come incidere su un tatuaggio sbiadito: era un processo lento e meticoloso, un’agonia che si trasformava in un trionfo sanguinoso ogni volta che un’Energia mi usciva dalle dita. I miei Eidolon non mi parlavano – anche se il rumore dei loro bisbigli reboanti s’intensificava ogni giorno di più – ma la magia a poco a poco stava rifiorendo. Allestii qualche piccolo percorso a ostacoli in camera – avevo troppa paura di lavorare con esseri viventi più grandi degli insetti, i maghi neri l’avrebbero riferito a Tango in un battibaleno – e mi esercitai. Non dovevo imparare da capo come si lancia un incantesimo, visto che quella parte la conoscevo come le mie tasche; dovevo recuperare la mana che risiedeva nel mio corpo e riconcentrarmi. La maggior parte delle volte finiva tutto in lacrime, frustrazione e scintille sibilanti.

Gli spiriti sarebbero giunti per tempo. Avevo superato i sedici anni, pertanto quei maledetti avevano avuto la libertà di sgattaiolare via dalla mia presa – ma non mi erano stati estratti, se mi fossi protesa abbastanza avrei potuto toccarli. Mi capitava spesso di rimanere sveglia di notte a fantasticare sulla faccia che avrebbe fatto Tango quando avrei evocato le magie distruttive di Fenril e sarei scappata su Fenice portando con me tutti i maghi neri. Poi sarei tornata con un’aereonave e avrei bombardato la Reggia del Deserto fino a ridurla in polvere.

Ero assetata di sangue. Non ero la figlia di mia madre.

Sulla bacchetta erano fioriti dei germogli, cosini piccolissimi di un rosa scialbo, semplici gemme che profumavano di mele. Di notte la nascondevo sotto il cuscino, sotto le coperte, di modo che Tango non la vedesse quando entrava dalla finestra come un grande pipistrello nero. L’odore era fragrante, ricco, e mi dava, se non bei sogni, quantomeno il vuoto, un nulla delizioso, nessun incubo popolato da figure nere non del tutto formate che si stagliavano nel crepuscolo.

La mia prigione era arida, polverosa, e conteneva un cimitero di arazzi per le regge; non ero nuova ai deserti – Madain Sari era un affioramento roccioso abitato da pazzi – ma avevo una voglia di alberi e corsi d’acqua come non l’avevo mai avuta. Neanche in città, a Lindblum, ne avevo sentito tanto la mancanza. Forse perché adesso non potevo averli, mentre normalmente mi sarebbe bastato alzare la testa dai diagrammi per potermi ritrovare dopo poco a stringere aghi di pino tra le dita.

« Ehi » bisbigliai alla bacchetta. Le foglie frusciarono come mosse da un vento inesistente, il legno liscio come seta mi palpitava tra le mani. E pensare che una volta faceva parte di un cassettone. « Come va? »

La bacchetta non rispose. Non ero ammattita abbastanza da aspettarmi che lo facesse. Piuttosto, presi un coltello da cucina – quello Tango non me lo aveva trovato tra le scorte, era un lucido coltellino per tagliare le verdure – e mi preparai a un altro spinoso round del rito che avevo denominato Corpo Scongiurante.

Sancta. Sancta. Volevo saltare a piè pari tutti gli altri passi come se stessi barando al gioco della campana, mi serviva la magia sacra. Mi serviva quello che arrivava dopo che l’anima richiedeva in un grido tutto ciò che vi era di buono, vivo, puro e bellissimo al mondo.

« Ecco il sangue della mia falange. » Mi tagliai il dorso della mano, attendendo con impazienza che la linea rosso cremisi iniziasse a scorrere per strofinarla sul legno e macchiarlo. « Ecco il sangue della mia gola… »

Ecco il sangue del mio occhio e della bocca. Ecco il sangue della mia gamba e della testa. Ecco il sangue del mio cuore. Ecco le mie lacrime, più dolci del sangue…

Dicono che non si dovrebbero mai toccare la bacchetta, la racchetta o l’asta di un altro mago; ne si contaminerebbero la magia e le vibrazioni. In realtà, se tutti conoscessero le pratiche di purificazione, la voglia di toccarle passerebbe comunque – su questi bastoni si sputa, si starnutisce, si sanguina, si piange, e molto di più. Tutte le peggiori schifezze che una bacchetta possa sperare di sostenere per raggiungere un buon livello. Dimenticate le Aste di Fuoco e di Ghiaccio – qui stiamo parlando delle Magiche Aste dell’Influenza definitive.

Permeatemi di qualcosa che sia meglio di tutto ciò, che sia più pulito dell’acqua e scotti più del fuoco, che dal nero più nero della magia nera diventi il nero puro e vellutato del cielo notturno. Prendete il mio verde, prendete il mio bianco. Offrirei perle, ma non ne possiedo-

Lui interpretò diversamente le cicatrici alla gola, ai polsi e alla spalla. Le toccò e rise, « Oh, Principessa, no. È un modo tanto tanto sudicio per morire. Se vuoi una morte rapida e indolore, toccami qui- » E indicò il buio che aveva al posto del viso. Io gli diedi uno spintone, nauseata, e in seguito mi chiesi quale morte vorace tenesse in serbo accanto ai suoi occhi.

La prima neve vergine; la prima rosa sul primo cespuglio di rose sbocciata nel primo giorno di Gaya. Il primo respiro…

Uno dei germogli rosa si aprì in un silenzio tombale. Una cosa che sembrava ghiaccio strisciò sui petali e li sbiancò; il fiore buttò della polvere di stelle in aria e vibrò. Scomparvero il sangue, gli sputi e la saliva.

Esitai, poi baciai la bacchetta con le labbra tremanti e la abbassai. Avrei voluto saltellare in piedi e mettermi a ballare per la stanza al grido di: « Un urrà per me! Un urrà per me! Chi è la regina del mondo? EIKO è la regina del mondo! », ma avrei attirato curiosità sgradita. Tra l’altro non avevo più sei anni.

… Beh…

« Ma chi è la regina del mondo! Io sono la regina del mondo! »

In quei giorni andavo in visibilio anche per le cose più piccole. Probabilmente avevo solo bisogno di aggrapparmi a qualcosa.



« Cosa c’è nella stanza sotto l’ala ovest in fondo a tutto, Sunny? »

Stavo facendo ciondolare le gambe dal bancone della cucina, nude, libere; solo le cosce erano fasciate da un paio di pantaloncini che ricordavano un po’ delle succinte, voluminose culottes viola. Mi divertivo ancora come una matta a trafficare nel guardaroba di Kuja. Avevo anche trovato un boa di piume in uno dei suoi armadi, e l’avevo annodato alla colonna del mio letto a baldacchino. Tango pareva impensierito dalla sua presenza.

Sun si fermò e mi guardò, i tondi occhi d’oro spalancati, sistemandosi distrattamente il cappello di cuoio grigio. Stava impastando qualcosa; i poveri maghi neri avevano sempre una fame adorabile. Poco prima avevo visto Rain creare della farina, e vedergliela colare dalle mani fu ancora più bello della prima evocazione di Alexander.

Le cose che avrebbero potuto fare per dar da mangiare agli affamati-

« Ala ovest in fondo a tutto? » mi fece eco. « Ah. »

« In fondo a tutto » ripeté Shiny, infilando qualcosa nel forno. « C’è… Principessa, non ci pensare. »

« Non pensarci. »

« È meglio così. »

« Assolutamente. » Sun mi passò un po’ di pasta; io saltai a terra e cominciai a stenderla con un rullo per farne la base di un dolce. Rimasi girata verso di loro, però; i loro volti erano preoccupati, rigidi.

« Pensate che lui mi farebbe del male se ci andassi? » chiesi all’improvviso, traducendo l’esitazione dei loro faccini. « Mi ucciderebbe? »

Ci fu un mezzo sospiro. Si fece avanti Shiny, che si stava togliendo la farina dai guanti con movimenti lenti. « Il Signore… fa delle cose, Eiko. E tu lo fai arrabbiare. »

« Preoccupare. »

« Soffrire. »

« Intristire tantissimo. » Sun scosse la testa; il cappello dondolò con lui. « Si tiene per un po’ tutto dentro la pancia, e poi lo vomita. »

« È pazzo » borbottai, cospargendo la pasta di zucchero. « Ha bisogno di aiuto. Aiuto a palate. Preferibilmente accompagnato da scosse elettriche. »

« Quando tutto sarà finito » disse Shiny in tono sognante, « lui starà di nuovo bene. Ci costruirà delle case dove tutto è verde e erboso, e non si vestirà più di nero, e ballerà e canterà. E non si arrabbierà più, e non sarà più triste, e non ci sarà più nessuno che possa ferirlo o che lui possa ferire. »

« Quando tutto sarà finito. » L’altro mi fissò raggiante, con gli occhi d’oro che brillavano. « Staremo tutti insieme, Eiko. »

C’era qualcosa nella loro gioia che disgustò una parte di me. Continuarono a mescolare, caldi e flemmatici, e io indietreggiai. « Devo, devo andare in bagno » mi scusai, prima di andarmene in tutta fretta.

La pelle mi si tingeva di rubino, topazio e smeraldo mentre superavo di corsa le vetrate colorate da cui deflagrava la luce del sole. Il top legato alla nuca che avevo sgraffignato tentava di scivolarsene via, troppo grande, cucito per un’altra taglia: ero molto più minuta di Kuja, delicato ma forte. Me lo avvinghiai addosso senza fermarmi, oltrepassando i corridoi tetri e le finestre oltre le quali fischiava il vento e urlavano gli antoleon, spingendomi fino alla fine dell’ala ovest.

La porticina semplice avvolta dalle ombre che mi si presentò davanti non era chiusa. L’aprii con una spinta, senza far rumore, senza difficoltà.

Dentro, c’era un giardino.

Il soffitto era di vetro trasparente; la stanza sembrava calda, umida e accogliente. Il pavimento terminava bruscamente in favore di una vasta distesa di erba che sfavillava soffice, verde e liscia come seta ai miei piedi scalzi. Il prato era punteggiato da fiorellini selvatici viola, rossi e blu in parte recintati da aiuole luminose radunate su un lato, e in fondo c’erano degli alberi.

Per un attimo pensai che, appesi ai rami, ci fossero i cadaveri dei maghi neri; si trattava invece solo dei cappelli, dei vestiti, delle loro scarpe. Sotto le foglie chiare e multicolori spuntavano dei frutti luccicanti che contenevano qualcosa di blu.

Tango, come un corvo, era seduto nell’erba proprio sul limitare del boschetto. Aveva le ali ripiegate sulla schiena come un uccello, e seduto lì a giocherellare con qualche filo d’erba pareva più grosso, nero e innaturale del solito. Come in un sogno, quasi accecata, mi avvicinai a lui.

Non si girò. Continuò imperterrito a rotolarsi un filo d’erba tra le dita fino a ridurlo in poltiglia. « Linden-bloom » salutò infine.

Fissai lui, gli alberi, i frutti e i vestiti. « … Questo è un cimitero, vero? »

« Un posto molto carino per la morte. Un tempo pensavo che la morte fosse carina. »

M’inabissò una potente onda di pietà. Maledetto, maledetto, maledettissimo cuore. « Tango… »

« Una volta l’ho vista. » proseguì, in un fruscio strampalato. « Famelica. Silenziosa. E il vuoto sarebbe nero? È blu, tutto blu, tutto… blu. » Piegò di scatto il capo. « Lo rincontrerò. »

Non mi uscivano le parole. Il silenzio che mi avviluppava quando ero vicina a Tango somigliava troppo spesso a un incantesimo: le mie corde vocali diventavano come gonfie e maldestre, incapaci di emettere suoni di senso compiuto.

« Lo farò cadere sul ginocchio solo, stavolta » La sua voce era come un terribile sorriso. « In ginocchio. Gaya sarà il mio altare, completamente zuppo di sangue. Poi lo strangolerò con le mie promesse, e non camminerà più in mezzo a noi, in mezzo a tutti i miei piccini. Niente più blu. Solo nero, oro e verde. »

Muta, lo guardai stiracchiarsi, appiattire l’erba con i guanti di cuoio, inclinare la testa all’indietro e ululare. Era una nota lunga, funebre, aliena, e mentre guaiva il suo canto batté i palmi delle mani sull’erba.

Crollai in ginocchio al suo fianco. Tango era un mago nero con la forma sbagliata. Non era basso e tozzo come la proverbiale teiera; era alto, sottile e si curvava male, quando stava seduto si accartocciava su se stesso come un ramoscello. Puzzava di marcio e cuoio, e di vecchia legna arsa e poi spenta, un odore deciso e pungente. « Tango » bisbigliai, quando la nota morì.

« Meglio Fermarsi » mormorò, roco, dimenando la testa in modo quasi spasmodico. « Perchepercheperché? Meglio. Perché non riesco a Fermarmi? »

Inorridita, gli poggiai lentamente una mano sulla spalla, titubante e riguardosa. Nonostante il calore e il cuoio, al tatto era fredda. Tango si voltò verso di me e la sua espressione mutò; mi afferrò il polso e me lo strinse fino a farmi scricchiolare le ossa.

« Non toccarmi, Eiko Carol. Tu non sai, non hai mai-saputo. Ancora non capisci. »

« Tu non mi dici mai niente! » strillai, la voce alta e spaventata resa acuta e tesa dal dolore. « Lasciami andare, maledetto! Sai soltanto fare male! »

Lui mi liberò subito. Mi cullai immediatamente il polso in petto; faceva un male cane, ma non doveva essere rotto. Era solo una leggera distorsione. Per fortuna.

Tango sollevò la mano e io mi ritrassi, certa della morte; ma lui mi sfiorò le spalle con le dita, accarezzando la seta cascante della maglietta troppo larga fino al mio sterno, quando io mi ritrassi di nuovo. Mi prese il polso tremulo e se lo portò al volto nascosto dal buio per baciarlo. Bruciava.

« Vattene, linden-bloom » ordinò, con un tono distaccato che non ammetteva repliche. « Vattene. »

Io mi rimisi in piedi, traballante, senza sapere cosa dire. Le uniche parole che di solito avevo per lui erano insulti amari, ed era questo che si aspettava.

« Ti odio » riuscii a biascicare, senza emozione. Poi tornai in cucina con il polso che penzolava mollemente – dopo sarebbe stato coperto di lividi – per consumare in silenzio il dolce ormai pronto. Sun e Shiny non dissero nulla e mi medicarono la mano ferita; ebbero perfino la premura di parlare d’altro, mentre mangiavo e delle grosse lacrime mi rigavano le guance.

« Se ne dispiacerà, dopo » mi mormorò alla fine Shiny, e questo mi fece soltanto piangere di più, e non sapevo perché.





Note della traduttrice: Le angst. Eccovi la traduzione letterale o quasi dei nomi dei maghi neri:
Rain: Pioggia. (uohohooo)
Cloud Strife: Nuvola.
Sun/Sunny: Sole.
Tide: Marea.
Rainbow Moonshine Seaspray/Shiny: Spuma-di-mare-chiaro-di-luna-arcobaleno/Brillantino (questo è un aspirante Mary Sue XD).
Ricordate solo che quando parlano di pioggia potrebbero riferirsi a Rain, okay? : D
   
 
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