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Autore: Walnut    23/05/2010    1 recensioni
I giorni passavano lenti e inesorabili; il tempo inflessibile sostava stanco sulle nostre membra e il freddo implacabile batteva forte sulla finestra pregando e dimenandosi per entrare e buttarci definitivamente giù dal baratro.
Questa storia ha partecipato al Multicolour Contest, indetto da _Mary, fierobecca93 e Nabiki93
Genere: Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Luna Lovegood, Mangiamorte
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: Purtroppo i personaggi non sono miei, ma di quel genio J.K.Rowling; quindi propotevi per aiutarmi a finire la statua a lei dedicata. ( E' un obbligo se non l'aveste capito. )

N/A
Questa storia ha partecipato al Multicolour contest indetto da _Mary, fierobecca93 e Nabiki93, classificandosi ottava.
Il contest prevedeva la scelta di un colore alla quale era abbinato un personaggio su cui scrivere: il colore da me scelto è stato l'Indaco; e il personaggio con cui mi sono dovuta cimetare era il POV di Luna Lovegood. Ringrazio ancora tutti i partecipanti e i giudiciH.
Inoltre, la storia è stata divisa a metà per la lunghezza eccessiva; la seconda parte verrà postata a breve.
I giudizi e le mie note verrano postate nella secoda parte. Grazie dell'attenzione.

 Il gioco della morte

1

Caddi a terra di schiena su un pavimento freddo e sporco.
La stanza dove mi trovavo, e che non riuscivo a riconoscere, era buia e piccola, tanto da sembrare uno sgabuzzino.
Solo uno spicchio di luce proveniva dall’esterno, da una piccola finestra situata in alto nella parete adiacente alla mia, illuminando la stanza e mostrando alla luce delle carie di muffa che attaccavano il muro in varie parti, annerendo le pareti bianche.
Il pavimento non era altro che marmo nero lucido, che riportava le usure del tempo e si macchiava qua e la di croste scure, quasi fosse malato.
Vidi due figure nere all’uscio di una porta situata davanti a me, dalla quale proveniva una tenue luce di candele che illuminava una scalinata, che mi guardavano da dietro i loro mantelli neri, ma non seppi riconoscerle poiché si girarono velocemente e chiusero la porta di scatto.
La confusione, che prima era venuta a mancare, in quel momento mi colpì come un fulmine.
Iniziai a guardarmi intorno disorientata, girando la testa di scatto nervosamente: il mio respiro si fece più veloce, sentivo l’aria viziata della stanza entrarmi nei polmoni e attaccarli proprio come quella muffa sul muro. La scarsa visibilità non permetteva alla mia vista di arrivare fino alla fine della stanza, dove il buio stendeva il suo velo lungo e scuro come un manto.
Non avevo la forza di alzarmi: sentivo che se l’avessi fatto, l’oscurità sarebbe scesa su di me come in quella parte della stanza, e mi avrebbe divorato portandomi nell’ignoto e nell’ignoranza del nulla.
Perciò continuai a far vagare il mio sguardo sul resto della stanza per una buona decina di minuti, quando poi capì che continuare a contare le crepe nel muro non sarebbe servito a nulla, mi arresi, chinando la testa e massaggiandomi le tempie.
Fuori la notte aveva perso tutte le stelle.

Sentivo una luce calda posarsi delicatamente sulle mie palpebre e accarezzarmi il viso.
La luce del sole filtrava dalla piccola finestra situata nella parte alta del muro del “piccolo sgabuzzino” illuminando quella tetra stanza, che esibiva molte più crepe e ragnatele di quanto non ricordassi la sera prima.
Non ricordavo di essermi addormentata, e, solo per un istante, mi ritrovai stordita dalla mia presenza la dentro.
A primo impatto non avevo ricordato dove mi trovavo, malgrado avessi subito riconosciuto il tanfo di marcio che emanava la stanza.
Mi sentivo come infettata da quella prigione - trovai il termine più che adatto per definire quei quattro metri per quattro -
La sua aura nera imprimeva tutta l’aria circostante; potevo sentire il suo respiro affannoso e bramoso risuonare tra le pareti, quasi come fosse viva.
Fui spaventata all’istante dai miei stessi pensieri crudi e insensati, e attribuì tutto ciò alla stanchezza e allo spavento della sera prima.
Non sapevo quanto tempo era passato dal mio risveglio, non riuscivo a contare il tempo che scorreva e la consapevolezza di essere impotente davanti a tutto quello che mi stava succedendo m'innervosiva; alle volte mi svuotava.
Non ero sicura che mio padre centrasse qualcosa, dopotutto lui era sempre stato un buon uomo gentile e rispettato da tutti. Basandomi su queste certezze riuscivo a risollevarmi un po’, e a non pensare a tutto il caos che regnava nella mia testa e che aveva costruito radici ben salde che sembravano non volessero staccarsi mai.

Alla luce del sole, riflettei più tardi, la stanza incuteva meno terrore del dovuto.
Perciò decisi di alzarmi.
Con cinque passi riuscivo a fare la prima parete, e altrettanti con le altre.
Saltai la parete buia che mi sembrava il cuore della stanza, ammettendo a me stessa di averne timore, nato sicuramente dalle mie paranoie.
Quando poi mi trovai di fronte alla parete con la finestrella, volli guardare fuori: non riuscivo ad arrivare completamente alla finestra, ma saltando arrivavo comunque a vedere qualcosa. Al di la della mia prigione un lungo e verde prato si stendeva morbido e compatto sulla terra, tanto da sembrare finto. Cespugli di rose fiorite s'intricavano tra loro dando vita ad un gioco di colori e bellezza, alberi robusti e maestosi ombreggiavano il terreno sotto di loro, e un lungo sentiero di ghiaia conduceva fino al cancello della maestosa prigione dove mi trovavo.
Ero un po’ sconcordante vedere tanta bellezza fuori e una così arcigna malvagità dentro, o almeno in quella stanza.
Nel grosso cancello di ferro battuto, il sole si scontrava su una scritta, che non riuscivo completamente a leggere.
Cercai di riaffacciarmi e mi sforzai ancora di leggere la scritta, ma fui distratta da un rumore fuori dalla porta, da voci concitate e risate cattive, in contrasto con un lieve lamento appena udibile che riecheggiava per la scalinata ripida che io stessa il giorno prima avevo percorso.
Spaventata corsi via dalla finestra andandomi ad appiattire contro il muro, dove tutta la notte ero stata appoggiata, e quando la porta si aprì, un vecchio sanguinante e semi-cosciente fu sbattuto dentro la mia stessa cella.
“La prossima volta la punizione sarà più dura. Nessuno si rifiuta al Signore Oscuro.”

Attesi parecchio tempo prima che il vecchio si risvegliasse.
Non avevo potuto far nulla per aiutarlo- non avendo i mezzi necessari- e vederlo lì, svenuto e senza forze mi faceva sentire quasi in colpa.
C’era qualcosa in quella faccia che non mi era nuova: non sapevo se era solo una mia impressione o se era una persona che avevo realmente visto o conosciuto.
La mano bianca e ossuta del vecchio si mosse tremante nella semi-oscurità della stanza e, una dopo l’altra, le palpebre si aprirono e si richiusero velocemente. 
Allungai una mano verso di lui e lo toccai lievemente, scuotendolo un poco: sobbalzò spaventato come se fosse stato fulminato e si coprì velocemente il viso con lei mani.
“Non è abbastanza per oggi? Lasciate riposare un povero vecchio nella sua tomba.”
Evidentemente, pensai, mi aveva scambiato per uno di quei signoroni dai mantelli scuri.
“Signore, non si preoccupi. Io non le farò niente, glielo prometto.”
Attesi qualche istante prima di vedere una sua qualsiasi reazione: dovette riconoscere che non ero una di quegli scagnozzi, giacché scostò le mani dal viso per guardarmi attentamente, studiando ogni mio movimento.
“Lei non è una di… loro?”
“No, se si riferisce a quegli uomini vestiti di scuro.”
“Mi perdoni allora. Potrà capire –spero- le defiance di un vecchio moribondo.”
“Ma signore, lei non è un vecchio moribondo.”
“Ah, suvvia signorina, non sia troppo buona con me. Oh, ma che maleducato. Non le ho chiesto il suo nome, lei è?”
“Luna Lovegood, signore.”
“Ah, Lovegood eh? Figlia di Xenophilius immagino, il direttore del Cavillo.”
“Sì, signore.”
“Io sono Olivander, il fabbricante di bacchette magiche.”
Ricordavo ora dove avevo visto quell’uomo: era su un vecchio articolo della Gazzetta del Profeta che Neville mi aveva fatto vedere quasi un anno prima. Il giornale, con la foto dell’uomo, recitava:

Fabbricante di bacchette magiche scomparso.
L’anziano e famoso mago Olivander, conosciuto per la sua bravura nel fabbricare bacchette, sembra essersi dissolto nel nulla.
Il suo negozio è stato ritrovato… ( continua a pag. 8 )

Dal tempo in cui era stata scattata la foto, era cambiato molto: la pelle si era raggrinzita e aveva assunto una colorazione giallastra; gli occhi erano infossati e cerchiati da profonde occhiaie scure, che accentuavano ancora di più la sua carnagione; i capelli grigi e flosci gli  ricadevano sul viso. Sembrava dieci anni più vecchio dal giorno in cui era stata scattata la foto.
 Era irriconoscibile, se qualcuno l’avesse visto adesso, non avrebbe mai detto che quell’uomo fosse Olivander.
“Come mai si trova qua, signorina Lovegood?”
“Io non lo so signore, mi hanno rapito mentre ero sull’Espresso per Hogwarts.”
“Hanno rapito anche me, circa un anno e mezzo fa… mi sembra.”
“Se posso permettermi, signore. Come mai l’hanno rapita?”
“Il Signore Oscuro voleva una cosa che io non possiedo, e ha mandato i Mangiamorte a casa mia- non di certo per una visita di cortesia.”, accennò a un sorriso.
“Il Signore Oscuro, lei… lei sta parlando di… “
In quel momento mi parve che il mondo mi crollasse sotto i piedi.
Ora vedevo tutto più chiaro: quei signori vestiti di scuro non erano altro che Mangiamorte.
Nell’Espresso non ero riuscita a riconoscerli in mezzo a tutta quella confusione e quel fumo che ingoiava la parte centrale del treno, poi ero stata Smaterializzata in quest’enorme casa e non ne ero più uscita.
Ero prigioniera di Voldemort che mi teneva rinchiusa in una celletta con uno dei più famosi fabbricanti di bacchette del Mondo Magico, e non capivo il perché.
“Sembra sorpresa, da quel che vedo.”, la voce di Olivander mi distrasse dai miei pensieri.
“Beh, vede, prima che lei mi dicesse di essere stata catturata dai Mangiamorte io non sapevo chi fossero i miei rapitori… “
“Davvero? Oh, è molto strano che lei non lo sappia.”, fece schioccare la lingua sul palato, contraendo i muscoli facciali rimuginando su qualcosa, poi tornò a guardarmi, “ Voldemort cerca di fare meno prigionieri possibili, non gradisce la compagnia.”
   

 2

-In questo momento siamo a Malfoy Manor, signorina Lovegood -, aveva esordito ad un certo punto Olivander, dopo essere rimasto in silenzio nel tentativo di riposarsi.
Ne ero rimasta sorpresa all’inizio: avevo sempre pensato che Voldemort avesse scelto un covo più nascosto di Malfoy Manor, più cupo. Immaginavo nella mia mente una grossa stanza circolare, illuminata da fioche candele e dal soffitto alto, dove le ombre giocavano fra loro e confondevano con innata maestria gli ospiti all’interno, come illusionisti...
Più tardi, dopo lunghi e soporiferi discorsi, scoprii la vita all’interno della prigione.
Olivander mi disse subito che evadere era pressoché impossibile: aveva, infatti, tentato più volte di darsela a gambe. Una volta aveva preso a pugni un Mangiamorte grassoccio di nome Tiger, a cui aveva rubato la bacchetta, tentando successivamente di scappare dalla porta di servizio – La porta di servizio, dico io! Di servizio! Dovevo essere ubriaco quel giorno- Era stato bloccato con una serie di schiantesimi mentre correva verso il cancello.
Un’altra volta aveva provato a passare dalla finestrella della cella, con scarsi risultati.
-Sarò anche dimagrito, ma... per le autoreggenti di Merlino! Non potevo passarci!-
Era stato poi scoperto da due guardie che si trovavano fuori dalla stanza mentre si dimenava scalciando l’aria. Era rimasto incastrato.
-Un giorno ho fatto finta di sentirmi male. Quei Mangiamorte erano così idioti da non essersi resi conto della cosa. Anche li ho provato a fuggire, ma quella volta ad aspettarmi al cancello c’era Bellatrix Lestrange -
Mi disse anche che i pasti erano serviti due volte al giorno, pranzo e cena, e che consistevano negli avanzi della giornata.
Ero riluttante all’idea di mangiare gli scarti di un’altra persona, poi però capii che se volevo rimanere in vita dovevo accontentarmi di quello che mi passavano.
-Non sperare di poter trovar qualcosa da fare qui durante le giornate, non c’è assolutamente niente-, disse infine dopo un lungo discorso su come ci si doveva comportare per non essere puniti – Ricordati: qui anche i muri hanno gli occhi!-
Aggiunse dopo – Anche le orecchie non funzionano male però!-

3

Come detto da Olivander, gli avanzi della cena arrivarono puntuali la sera stessa.
Capimmo che stava arrivando qualcuno quando sentimmo le torce bruciare l’aria sotterranea e il riecheggiare di passi nelle scale; mi spostai come la mattina davanti alla porta, appoggiata al muro in attesa che qualcuno entrasse.
Quando la porta si aprì, una figura alta e sottile si affacciò alla porta brandendo una bacchetta in una mano e un piatto nell’altra.
“State indietro”, pronunciò con voce fredda e intimidatoria.
Dapprima non riconobbi la voce, troppo occupata a guardare l’ombra che si avvicinava velocemente a me, costringendomi a ritirarmi ancora di più verso il muro, poi in quel tono di disprezzo ritrovai una certa familiarità.
Malfoy”, urlai.
Fu tutto inutile: appena udì il suo nome, il ragazzo lasciò andare il piatto che cascò a terra infrangendosi in mille pezzi, e chiuse la porta con forza alle sue spalle.
La stanza fu inghiottita dall’oscurità ancora una volta.

Io e Olivander mangiammo in silenzio tutto il tempo.
Il cibo non era male, considerando che si trattava di scarti, e che sicuramente era stato preparato da elfi. Dopo che Draco Malfoy - ormai ero sicura che fosse lui - se ne era andato lasciando per terra la cena, nella stanza non si era più udito un fiato.
Olivander era impegnato a rimuginare su qualcosa a bassa voce, alzando alle volte la testa e guardando il soffitto buio della stanza contorcendosi freneticamente le mani sudaticce.
Io non facevo altro che ripensare agli eventi che mi avevano colpito negli ultimi due giorni, ma troppo spesso m'incantavo a guardare le pareti o il vecchio di fianco a me senza rendermene conto. Avevo sempre fantasticato in vita mia: mi piaceva liberarmi della realtà e ritrovarmi in altre dimensioni dove far passar le mie noie o divertirmi da sola.
Ma in quella stanza ero confusa, distratta...
Neanche io sapevo cosa mi succedeva in quei momenti: sentivo di venir pian piano trascinata in un altro mondo. Con lentezza esasperante qualcosa mi prendeva e affannosamente, non riuscendo quasi a trattenersi dal desiderio che faceva vibrare il suo corpo, mi portava con sé.
Era spaventoso ma allo stesso tempo curioso. Annientava tutte le mie difese, ipnotizzandomi e illudendomi; e lo vedevo, vedevo il suo riso nel buio e lo sentivo rimbombare tra le pareti, tanto forte da opprimermi e da attrarmi...
Non potevo resistergli.
Una voce bassa e spaventata arrivava alle mie orecchie, confondendosi con le sue risa, e che all’improvviso si bloccò.
Il vecchio mi guardava dalla parete da cui proveniva la luce artificiale dei lampioni sparsi nel giardino; raggomitolato su se stesso si teneva le gambe con entrambe le braccia e si dondolava leggermente, spaventato e terrificato.
I suoi occhi spalancati brillavano nel buio di una luce sinistra, ora non muoveva neanche più un muscolo, e d’un tratto parlò con voce bassa e roca.
Non lo ascoltare
Olivander si appoggiò al muro chiudendo gli occhi, e tornò a torturarsi le mani.

La notte fu una notte tormentata: stracci di sogni mi tornavano in mente ogni volta che chiudevo le palpebre, i fantasmi di ciò che avevo visto si formavano davanti ai miei occhi.
Danzavano davanti a me; indossavano delle maschere grottesche e deformate.
-Indossano la morte!- mi suggerì allora una voce dentro di me.
Gelai sul posto e sentì un rivolo freddo strisciare sulla mia schiena come un viscido serpente.
La paura non era mai stata tanta, o forse non l’avevo mai provata veramente.
Era palpabile: la sentivo addosso a me, appiccicosa e pesante; tanto da diventare insopportabile a un certo punto.
Non sopportavo il timbro della sua voce calda e invitante che saliva e saliva ancora sempre più, fino a diventare un urlo, che soffocò perfino l’angoscia che si era impossessata di me.
Poi, com’era iniziata, smise.
Quando il suono si dissolse nell’aria, lasciando di se solo un senso di vertigine, scomparirono anche le figure bianche, e la stanza rimbombò di nuovo di quell’eccessivo buio e silenzio.
E dovetti trattenermi dal ridere quando lo vidi comporsi dal nero pece della notte, guardandomi voglioso e divertito anch’esso.
I suoi occhi rossi iniettati di sangue erano fissi su di me, e il suo corpo proteso verso il mio.
Non aspettava altro che scattare per prendermi alla mia prima distrazione.
Luna”, chiamò.

4

Il ricordo di quella notte mi perseguitò per le notti a seguire.
Malgrado cercassi di non badarci, riscoprì che era pressoché impossibile non ricadere nei miei incubi oscuri.
Io e Olivander non avevamo più parlato da quella notte: lo vedevo seduto nell’angolo vicino alla finestra, quello più illuminato, guardare la parete che io temevo e sfidavo al contempo.
Da quando era iniziato quel calvario lo vedevo ancora più cambiato: era un morto che camminava.
Lo avevo sentito ridere certe notti nel silenzio della stanza: la risata selvaggia si allargava tutt’intorno e mi avvolgeva completamente. Non lo guardavo.
Mi bastava vedere la sua ombra distesa sul pavimento per capire l’orrore e la pazzia che questa casa gli aveva provocato, e che ora voleva prendere anche me.
Resistere era inutile: se non ero al sicuro neanche nei miei sogni, nella mia testa, accettare la realtà sarebbe stato come darsi in pasto ai leono.
Quella prigione non aveva vie d’uscita, la trappola era stata ben costruita ed era troppo complessa e ingarbugliata per essere aggirata.
Neanche Olivander era riuscito a difendersi, fino a rendersi conto di essere senza possibilità di fuga; e il poveretto aveva provato ad avvertirmi, ma era stato troppo tardi.
Non mi ero accorta di essere stata risucchiata anch’io in quel circolo vizioso... dove non trovavo soluzione.

I giorni passavano lenti e inesorabili; il tempo inflessibile sostava stanco sulle nostre membra e il freddo implacabile batteva forte sulla finestra pregando e dimenandosi per entrare e buttarci definitivamente giù dal baratro.
Il giorno in cui ero stata rapita – e che ora mi sembrava lontano anni – era il vent’un dicembre.
Ero così contenta di ritornare a casa per festeggiare il Natale con mio padre che non avevo neanche avvertito il pericolo imminente. Ora non sapevo che giorno era: se era passato il Natale, o ancora doveva venire.
Non si riusciva ad avere una percezione del tempo lì dentro.
Vedevo solo nero, solo buio.
Certe volte mi chiedevo come Olivander avesse potuto resistere tutto quel tempo nella stanza, con la sua unica compagnia.
Mi ritrovai a guardarlo ancora: stava finendo il pranzo avidamente, guardando di sottecchi il mio, lasciato lì in disparte. Glielo porsi spingendolo con una mano, e con un gesto veloce lo prese e lo portò alla bocca; dove lo sentì sbriciolarsi e smembrarsi sotto i denti.
-Champ. Champ. Champ-, faceva.
 Diventava sempre più rumoroso e chiassoso, e non riuscivo a sopportarlo più.
Basta”, sussurrai. Lui alzò gli occhi dal piatto e mi guardò confuso, inghiottendo l’ultimo boccone di cibo, lasciò il piatto a terra e si pulì con la lurida camicia grigia.
Non lo ascoltare”, ripeté ancora.

5

“Allora siamo d’accordo”, iniziò Olivander, “ Io chiamo la guardia e tu la colpisci.”
“Ma potrei fargli veramente male!”
“Non sai quanto male hanno fatto a me, e non ti scordare di quello che hanno fatto a te. Non c’è pietà in questa guerra, per sopravvivere si devono fare cose terribile, cose che non si sognerebbero mai di fare.”
La sua improvvisa fermezza, nata da quando avevamo deciso di provare a fuggire – questa volta in due -, mi aveva ridato un po’ di carica. Mi sentivo come a Hogwarts ai tempi della Umbridge e della presidenza di Piton.
“Va bene, allora.”
“Io gli prenderò la bacchetta, il resto del piano già lo sai.”

“Guardia... guardia... “, la voce di Olivander suonò come un lamento doloroso e stanco, “Guardia, abbiamo un problema!”
Sentì qualcuno scendere verso la nostra stanza, con passo veloce.
“Cosa diavolo c’è vecchio.”
“Io non credo... non credo di sentirmi bene.”, con un gemito si accasciò a terra.
“Ehi! Ehi vecchio. Cazzo!”
La chiave fu inserita nella serratura, che scattò secca, e la porta si aprì.
In quel momento l’adrenalina investì il mio corpo come un’onda: da tempo non provavo più quelle sensazioni, e quando strinsi il piatto con forza, con rabbia, e vidi l’uomo entrare trafelato nella stanza, il mostro ruggì e si unì al mio urlo.
I cocci del piatto schizzarono in tutte le direzioni macchiati di un liquido vermiglio che si sparse a terra quando il Mangiamorte cadde svenuto al suolo.
Il mio respiro affannoso riempiva la stanza, insopportabile: non riuscivo a calmarmi.
 “E’ morto?”, chiesi.
“No, è svenuto. Gli hai dato una bella botta eh?”, e rise, sussultando lievemente.
Annuì automaticamente, senza avere il controllo del mio corpo, troppo scioccata per quello che avevo fatto.
Dal piano di sopra sentimmo delle voci alterate: l’urlo di poco prima non era passato inosservato.
“Ti hanno sentito.”, Olivander parlò ancora,” Meglio muoverci.”
Estrasse la bacchetta dalla tasca del Mangiamorte e mormorò un veloce incantesimo: il sangue a terra fu assorbito dal pavimento. Ci girammo in contemporanea verso il corridoio, e la luce ci investì in pieno: accecante, seppur prodotta da delle deboli candele.
Sentimmo ancora le voci da sopra, e agitati entrambi, iniziammo a correre verso le scale.
Un’ombra si allungò fino a noi, e prima che il Mangiamorte potesse anche dire solo un fiato, uno schiantesimo rosso partì dalla bacchetta di Olivander, e lo colpi pieno petto facendolo volare via.
Tanta era l’agitazione e l’adrenalina che ci scorreva in corpo, che percorremmo le ultime scale due a due, e poi, dietro l’angolo spuntò un altro Mangiamorte.
Stupeficium”, e Olivander ne schiantò un altro.
Ormai era fatta: questo pensiero ci pulsava in testa come un martello. Eravamo così sicuri di averla scampata e di aver guadagnato finalmente la nostra libertà, che non ci accorgemmo della figura che comparì da dietro l’angolo.
Pietrificus Totalus”, urlò Draco Malfoy.
                                                                 
Quando fui di nuovo in possesso del mio corpo, fui torturata da Lucius Malfoy e Bellatrix Lestrange fino allo stremo.
Non sentivo più i miei muscoli e la testa mi esplodeva di dolore puro, provocandomi continui giramenti di testa.
La tortura durò così a lungo, che mi sembrò passassero anni prima della fine: i Cruciatus si susseguivano uno dopo l’altro, e con essi i miei disperati urli; fino a quando dalla mia bocca non uscì più niente. Non avevo neanche più fiato in corpo quando i due Mangiamorte se ne andarono lasciandomi sola nella stanza, distesa e senza forze sul pavimento.
Vedevo immagini sfocate susseguirsi senza riuscire a coglierne l’essenza, e voci confuse ed eccitate arrivarmi alle orecchie.
“Prendi la ragazza e curala.”
Svenni venendo abbracciata dal buio.

 Quando mi svegliai mi trovavo in’altra stanza, non quella dove ero stata rinchiusa.
La testa mi doleva ancora un poco; sentivo le membra pesanti e un forte odore di Pozioni miste, vari aromi mi arrivavano al naso solleticandomi l’olfatto.
C’era qualcosa di strano in quella stanza però, non strano come nella mia prigione: sentivo uno sguardo fisso su di me.
Mi spaventai e un brivido percosse le mie ossa, provocandomi dolore.
“Ti sei svegliata, finalmente”, disse Malfoy.
Riconobbi subito il suo tono di voce strascicato e annoiato.
“Mi hai guarito tu?”
“Si, ho lavorato per tre lunghi giorni.”
“Sono stata incosciente per tre giorni?”, mi meravigliai a quell’affermazione.
“Esattamente.”
Molto lentamente cercai di alzarmi, e le fitte di dolore ricominciarono, facendomi gemere involontariamente.
“Vedi di non fare troppo casino, non ho voglia di ricominciare tutto da capo.”
Lui era lì, davanti a me.
Immobile come una statua e con il suo solito sguardo freddo e indifferente, mi guardava fisso negli occhi. Stava seduto su una sedia al contrario, con le braccia incrociate e la testa inclinata da un lato; un leggero broncio gli deformava il viso, dove i capelli ricadevano più lunghi di come ricordavo.
“Grazie.”
Dovere”, rispose secco.
“Che giorno è oggi?”
“Che diavolo di domanda è questa?”
“Voglio solo un’informazione.”
“Sei strana per essere strana sai? Comunque oggi è il 31 Gennaio.”
“Oh... di già?”
A quel punto il ragazzo mi guardò male, cambiando repentinamente posizione.
“Beh, io non pensavo fosse già Gennaio, il tempo è trascorso così velocemente... “
“Perché, cos’avevi da fare?”
“Il Natale... è passato.”
“Beh, auguri”, disse sarcastico.
“Non ti piace il Natale?”
“Dipende da che punto di vista lo si prende.”
“Dipende con chi lo si passa.”
Di nuovo mi guardò male, inarcando un sopracciglio biondo.
“Devo legarti e riportarti in cella.”
No!”,urlai spaventata, “Non voglio rientrare la dentro.”
“Hai paura dell’uomo nero, Lunatica Lovegood?”
Lo guardai negli occhi e annuì debolmente.

Le corde, legate intorno alle mie mani dietro la schiena, non erano state strette forti; così ringraziai Draco Malfoy, che per tutta risposta alzò le spalle.
Mi puntò la bacchetta dietro il collo e m'iniziò a guidare verso la mia stanza.
Le scale le vedevo di nuovo ripide ora: piccole e diroccate, erano l’unica parte della casa meno curata. Le nostre ombre ci seguivano silenziose appena dietro di noi, le candele ci fissavano maliziose, facendo vibrare lingue di fuoco nell’aria.
Poi, la vidi.
La stanza numero 13 era davanti a me, il suo nome splendeva illuminato nell’oscurità delle prigioni: la porta era graffiata e scura; schegge di legno si affacciavano sinistre verso il vuoto, appuntite e minacciose, attorno ad essa... ancora quella muffa nera.
Ora che la vedevo meglio, era più una macchia.
Come una pozza di pece, si allargava in tutta la parete, allungando le sue braccia verso l’esterno in un gesto estremo: sembravano tanti corpi marci ammassati uno sull’altro, che cercavano di fuggire dalla stanza ma che non ci riuscivano.
Riuscivo a scorgere le braccia, le dita, le gambe, gli occhi perfino; bianchi e vuoti... senz’anima.
Non sapevo se era la mia immaginazione o la mia stanchezza dovuta allo scontro di tre giorni prima che mi provocava tutto ciò, ma mi sembrava così reale... da non capire come gli altri non potessero non notarlo.
M'impuntai sui piedi, spingendo indietro verso il corpo di Malfoy, decisa a non rientrare la dentro.
“Cosa diavolo stai facendo, entra senza fare storie.”
“No... no, quella stanza... la stanza!”
“Ho detto basta. Entra o subirai ancora il piacere della Maledizione Cruciatus!”
“Ti prego, ti prego. Non voglio entrare la dentro, tutto ma non la dentro!”, e inaspettatamente iniziai a piangere accasciandomi sul pavimento, e strisciando con il corpo verso il muro di mattoni dietro di me.
“Non mi commuoverai piangendo Lovegood! Entra e non ti succederà nulla.”
“Se anche tu entrassi la dentro capiresti. C’è il male la dentro, il male!”
“Certo, così farei la fine di Codaliscia vero? Sai quante schegge abbiamo dovuto toglierli dalla testa? Così tante da poterci costruire un nuovo piatto!”, e scoppiò in una fragorosa risata, “ Non sono un imbecille come lui.”
Continuai a piangere, sempre più forte.
Il mal di testa era ricominciato e un dolore al petto mi aveva colpito improvviso.
Draco mi prese con forza per un braccio e mi portò davanti alla sua faccia.
“Io non ho tempo da perdere.”
Mi spinse con più forza e urlò – Olivander, ti conviene spostarti dalla porta -, e con un calcio spalancò la stanza numero 13 e mi ributtò nel mio inferno, non curandosi minimamente di farmi male.
Ora era davanti a me con la bacchetta in mano, pronto a chiudere la porta.
E mentre realizzavo quello che stava per succedere, l’urlo mi nacque spontaneo e uscì dalle mie labbra, facendo esplodere il dolore che minacciava di venir fuori dal mio petto.
“NO!”
Vidi il suo volto spaventato arretrare nell’oscurità mentre la porta mi veniva sbattuta ancora una volta in faccia; e mi sentì sopraffatta dalla paura.

   
 
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