Alla mia Anna, anche se aveva un altro nome.
Alla Fra'.
Mamma...?
Piange, Anna,
su una sedia scomoda dell'ospedale,
in una sala d'aspetto
tre metri per due.
Ha un libro aperto in grembo,
le mani tremanti strette ai jeans chiari;
vent'anni compiuti ieri
e un bimbo nel ventre.
"Essere mamma non è un mestiere.
Non è nemmeno un dovere.
È solo un diritto
tra tanti diritti."
Legge così sul suo libro,
e continua a ripetersi
che ad un diritto si può rinunciare.
In una situazione normale
manderebbe le preoccupazioni al diavolo
e si farebbe due risate;
ma ora, ovunque vada, con lei c'è un'altra vita,
la sente dentro di sé,
anche se a due mesi
il suo bambino ancora non può muoversi.
Pensa e ripensa, Anna,
a quando Mattia
ha saputo tutto
e le ha detto sorridendo
che sarebbero stati una famiglia.
Ricorda
i progetti, le risate, la speranza
di rimanere davvero insieme,
loro due e il bambino;
e ricorda anche
il giorno in cui si è svegliata
e Mattia non c'era più.
Ma lei, stupida,
ha creduto che sarebbe tornato,
ha continuato a immaginare una famiglia;
ed è rimasta intrappolata in quell'illusione,
come una mosca nella ragnatela,
fino a quando si è accorta
che Mattia è sparito per sempre,
e che quel bambino,
in fondo,
nessuno dei due lo ha mai voluto.
Sono troppo giovane,
non posso rovinarmi la vita così,
si ripete, cercando di convincersi
di aver fatto la scelta giusta.
Eppure
continua ad immaginare un'esistenza
con il bambino e Mattia, e piange ancora,
e non riesce a respirare
sapendo che quella famiglia non esisterà mai,
perché Mattia non tornerà più
e lei sta per rinunciare a quella vita
che le cresce nel ventre.
E guarda le altre donne
sedute in quella sala d'aspetto tre metri per due,
le guarda mentre al loro turno
varcano una porta bianca uguale alle altre,
e singhiozza, pensando a quando l'infermiera
verrà a chiamarla
per andare ad uccidere quel bambino
che ha vissuto dentro di lei per nove settimane.
Non l'ha mai chiamato mio figlio,
nemmeno mentre immaginava un'impossibile famiglia:
le è sempre mancato il coraggio di farlo.
Vorrebbe riuscire a dirlo,
perché Anna vuole sempre essere forte,
ma dalle labbra le sfugge solo un gemito.
Lascia scivolare il suo libro a terra, sentendosi debole,
maledicendo tra le lacrime
quel bambino che non vuole
ma che tante volte ha immaginato di tenere,
intrappolata nel suo sogno di crearsi una famiglia,
di sentirsi chiamare mamma dalla voce incerta di un bambino.
Ma invece sente solo un'infermiera dire il suo nome
e allora si stringe le braccia al ventre,
come a voler proteggere
il bambino a cui sta per rinunciare;
sembra quasi che voglia pronunciare
quelle parole sempre taciute,
quel mio figlio
per cui le è sempre mancato il coraggio.
Ma, mentre si alza e abbandona
quella sala d'aspetto tre metri per due
per varcare la porta bianca uguale alle altre,
rimane in silenzio:
la consapevolezza che quel bambino non la potrà mai chiamare mamma
è già troppo forte.