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Autore: Feel Good Inc    30/05/2010    12 recensioni
31 ottobre, 25 dicembre. Lui Halloween, lei Natale. Una coincidenza strana, ma comunque si trattava di due festività completamente diverse. L’una era scura, fredda, e parlava di spettri sotto le maschere; l’altra era rossa, e verde, e dorata e calda, e sapeva di famiglia e di cose che lui non conosceva o semplicemente non ricordava più. [...]
Nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero. (Demostene)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Misa Amane
Note: What if?, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Illusion ~ Storia di biscotti e di leccalecca alla ciliegia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

{ ‘Cause if one day you wake up and find that you’re missing me

And your heart starts to wonder where on this Earth I could be

Thinking maybe you’ll come back here to the place that we’d meet

And you’d see me waiting for you on the corner of the street }

 

 

 

 

 

 

 

Tic, tic, ti-ti-tic, tic.

Il piede destro di Amane, elegantemente fasciato da una calza nera fin troppo elegante per quei suoi diciannove anni, dondola ad un ritmo quasi coerente al suono dei polpastrelli sulla tastiera. Non ci dà troppo peso; ma è un po’ difficile ignorarlo del tutto, così evidente al margine del suo campo visivo.

Si concentra sul lavoro, sullo schermo del portatile solcato da file di lettere, numeri e grafici, escludendo tutto il resto: la presenza della ragazza, il suo continuo e sommesso sbuffare, la leggera tensione al polso che testimonia la compagnia forzata di Yagami e l’aiuto – più o meno sincero; si vedrà, c’è ancora tempo – che sta dando a lui e al resto della squadra.

Ma Misa Amane – lui l’ha capito subito – non è una di quelle persone che non si fanno problemi a passare inosservate.

« Ehi, Ryuuzaki. »

Più che vederla, percepisce che si sta sporgendo verso di lui dal divanetto scuro; il suo leggero profumo dal sentore di fiori si fa più intenso tutt’intorno. È tanto vicina alla sua poltrona di pelle da respirargli sul collo.

Non stacca gli occhi, né le mani, dal pc. « Cosa, Amane? »

« Si può sapere cosa fate tutto il tempo, tu e Light-kun? »

« Ricerche. Dati. Statistiche. Tutti i casi di morti di detenuti trattati dai media. Ogni dettaglio è importante nella nostra ricerca di Kira, Amane. » Nel dirlo tende una mano e afferra un dolce dal vassoio sul tavolino; la catena delle manette si tende mentre lui, sordo al verso impaziente di Light, mangia con calma il pasticcino per poi riprendere a muovere velocemente le dita sui tasti.

Amane sbuffa per l’ennesima volta. Gli soffia addosso una risatina lugubre.

« A me sembri solo un ragazzino con la fissa del computer, Ryuuzaki. Se non vi vedessi sempre alle prese con quelle cose, potrei giurare che per tutto il tempo voi due giocate ai videogame. »

Per un attimo quasi si ferma, sorpreso e incuriosito dall’eventualità; lui non ha mai giocato ai videogame. Chissà com’è? C’era un bambino all’istituto che di certo saprebbe rispondergli… Almeno a giudicare da ciò che ricorda di aver sentito su di lui.

Ma si sta distraendo. Che buffo; soltanto quando parla con Amane gli succedono cose del genere.

« Ryuuzaki-san? »

L’aggiunta del suffisso gli fa intuire che sta per arrivare la solita richiesta. Si concentra di nuovo, insofferente, ma non può fare a meno di invitarla a proseguire con un « Mmm? » di cortesia.

« Non puoi proprio lasciare che Misa-Misa e il suo Light-kun stiano un po’ da soli? »

Per la prima volta alza gli occhi su di lei, china tra lui e Yagami – uno sguardo quasi supplichevole nelle iridi chiare e il labbro inferiore teso all’ingiù come quello di una bambina in attesa di una sospirata concessione.

Guarda oltre, oltre quell’aria falsamente innocente, oltre i capelli biondi che le sfiorano la guancia, e constata che Yagami non potrebbe essere meno interessato al responso. Nonostante i tentativi della sua ragazza di conquistare un attimo di meritata privacy, è evidente che tutta la sua attenzione è assorbita dal computer che gli sta davanti.

Falso. Con lei o con lui? Forse con entrambi.

Quando torna a fissare la giovane, vede che una parte della sua silenziosa supplica ha lasciato il posto ad un velo d’impazienza.

« No, Amane, non posso proprio. »

L’espressione si trasforma del tutto, e lei si tira su ed incrocia le braccia, arrabbiata.

« Sei veramente poco carino, Ryuuzaki! Non credevo che potessero esistere ragazzi insensibili come te… E io ne ho conosciuti molti, di ragazzi. »

« Non faccio alcuna fatica ad immaginarlo. » Si concede un’altra pasta alla crema prima di dedicarsi ancora una volta al portatile.

« Oh, andiamo! » Amane si lascia cadere di nuovo tra lui e Light, ma questa volta si aggrappa alla sua poltrona, irrompendo ancora di più nel suo spazio vitale con quel suo inconfondibile profumo di fiori. « Neanche cinque minuti? Neanche tre? »

« Neanche uno » conferma, senza più guardarla.

Tanta incuranza evidentemente non fa che aumentare il fastidio di lei.

« Antipatico! Antipatico, egoista e insopportabile! » Si sporge, punta le mani sul bracciolo, lo fulmina con gli occhi anche se lui non li sta guardando – o forse proprio per quello. « Sei veramente la persona più senza cuore che abbia mai conosciuto. E con il brutto carattere che ti ritrovi, di sicuro non hai mai avuto un amico… Non avrai mai neanche baciato una ragazza. »

tic.

Si ferma e si volta a guardarla, di nuovo, senza fretta. Le sue guance gonfie di sprezzo, arrossate, gli sembrano di colpo irrigidirsi per qualcosa che non è più irritazione; e gli sembra di veder passare un’ombra di disagio nei suoi occhi – in quegli occhi così diversi, così irrimediabilmente diversi dai suoi, quegli occhi che non sanno oppure sembrano non sapere…

E mentre riflette a fondo sulle sue parole e osserva la sua crescente confusione, per la prima volta dopo un tempo troppo lungo, la mente di lui insegue il ricordo di una notte di troppi anni fa – quell’unico ricordo a cui non ha mai voluto rinunciare.

 

 

 

*

 

 

 

L’adolescenza è probabilmente il periodo più difficile dell’intera vita umana. Ad un certo punto ci si accorge che si sta crescendo, che si sta abbandonando il tempo in cui tutto è facile e basta un niente per cancellare il dolore e per sorridere al volo di una farfalla in un prato e per sognare qualcosa di grande e luminoso. Semplicemente, ci si accorge che nella vita non si avrà sempre il coraggio di andare avanti: ci saranno dei momenti di sconforto, di ribellione, di disperazione persino, di voglia di dire Io non sono questo, io sono un altro, io posso rinunciare a me ed essere chi voglio.

È così per tutti, è indiscutibile; e così fu anche per L.

Perché essere un genio non ti rende immune alla stanchezza.

 

 

La notte del suo quindicesimo compleanno pioveva, e lui era solo in una strada umida e deserta.

Faceva freddissimo. Tremava da capo a piedi, rannicchiato in un vicolo, tra i bidoni della spazzatura. Nell’unica notte dell’anno in cui le strade restavano frequentate fino a tardi, popolate di ragazzini vestiti di colori vivaci o cupi, di maschere e scherzi, di risate e spaventi, di dolci, lui aveva scelto appositamente l’angolo più buio e silenzioso che avesse potuto trovare. Non che temesse che qualcuno andasse a cercarlo – sapeva bene che avrebbero lasciato a lui la scelta di tornare. Aveva paura, piuttosto, che il ritrovarsi tra la gente gli avrebbe fatto venire voglia di ripercorrere i suoi passi, di rivestire i suoi panni e dissolversi nuovamente nella sua vita vuota e lontana.

Non voleva. Non voleva tornare indietro.

Gocce incessanti piovevano su di lui dalla grondaia dell’edificio fatiscente sotto la quale si era riparato. Si strinse le ginocchia con le mani, ma ormai le mani stesse perdevano sensibilità. I piedi nudi stavano diventando blu; ipotermia, gli venne in mente, si chiamava così. Sarebbe morto di freddo nella notte di Halloween. Un triste modo di concludere una vita ancora più triste, ma almeno avrebbe potuto rivedere ancora una volta i suoi genitori.

E poi, proprio quando stava chiudendo gli occhi per non vedere più il proprio pallore assurdo contrastante con l’oscurità in cui era immerso il vicolo, sentì d’un tratto che la pioggia cessava di inzupparlo.

Strano; ne sentiva ancora il rumore scrosciante, lo sgocciolio nelle pozzanghere poco oltre i suoi piedi. Stava morendo davvero? Non riusciva neanche più a distinguere il bagnato?

Aprì gli occhi.

Ci volle un po’ perché distinguesse qualcosa nella sagoma china di fronte al suo viso; all’inizio pensò che fosse di nuovo lui, come qualche anno prima, che fosse venuto a prenderlo con la sua mano guantata e a condurlo fuori da lì sorridendogli da sotto quei sottili baffi bianchi di signore buono – poi si rese conto che stava guardando negli occhi una bambina.

« Ti sei perso, ragazzo? »

Rimase a fissarla senza rispondere. Non aveva nulla a che vedere con i bambini che vivevano con lui; le sue guance erano paffute, non c’erano occhiaie sul suo visetto roseo, e i suoi occhi curiosi erano troppo accesi, vivi. Era in ginocchio, con lo sguardo quasi all’altezza del suo, e lo riparava con un ombrello rosso. Addosso aveva quello che doveva essere un costume di Halloween; da strega, forse, a giudicare dallo strano cappello a punta e dallo smalto nero sulle piccole unghie mangiucchiate.

La bambina lo osservava attentamente, il capo appena inclinato da una parte, le labbra socchiuse. « Non abiti qui, vero? Non ti ho mai visto prima. Allora, ti sei perso? »

Si ritrasse impercettibilmente. Non gli piaceva molto il contatto con le altre persone. Con gli sconosciuti ancor meno.

« Dovresti essere a casa » gli uscì detto, rendendosi conto che per la ragazzina, evidentemente più giovane di lui, non era bene girovagare fuori sotto la pioggia nella notte di Halloween. « I tuoi genitori saranno preoccupati. »

Lei rise; era un suono così cristallino, così strano che per un attimo lui non riuscì più a sentire la pioggia.

« Ma i miei genitori sanno che ero dalla mia amica Hikari! C’è stata una bellissima festa, Hikari ha invitato tutti i bambini della nostra classe, c’era anche Toshiro che è così carino e che mi ha regalato un leccalecca alla ciliegia e poi… » S’interruppe e lo fissò, reclinando di nuovo la testa. I capelli scuri le scivolarono giù dalla tesa di quel cappello assurdo. « Perché mi guardi così, ragazzo? Non sono mica un fantasma. »

Ovvio che non lo era, ma non per questo gli sembrava più reale. Era… diversa, semplicemente. Diversa da tutte le altre persone che gli era capitato di incontrare finora. Eppure, a guardarla bene – i suoi occhi già abituati alla penombra riuscivano ora a cogliere più dettagli – aveva un’aria stranamente familiare.

« Ragazzo? Se stai così zitto a fissarmi mi fai paura. »

La sua voce aveva assunto una curiosa nota tremante. Sorprendente; di tutte le cose che avrebbero potuto impaurirla, come il fatto di essere sola di notte con uno sconosciuto più grande di lei o il rombo dei tuoni incessanti, erano il suo silenzio e il suo sconcerto a spaventarla. Ricambiò lo sguardo con interesse, e ad un tratto capì.

« Tu sei la bambina degli Hello Panda. »

Lei sembrò spiazzata per un istante, ma poi sorrise radiosa, e lui rivide con più chiarezza nella mente la stessa espressione felice che aveva visto sui cartelloni pubblicitari in città.

« ! Sì, sono io. Allora hai visto la pubblicità? Sono così contenta, la mia mamma dice che diventerò famosa, che questo è solo l’inizio e che tutto il Giappone conoscerà il mio nome! Mia sorella invece non la pensa così, secondo lei mi chiederanno di mangiare tanti di quei biscotti Hello Panda che diventerò tutta ciccia e brufoli. » Cambiò subito tono e si morse il labbro, ansiosa. « Tu pensi che diventerò tutta ciccia e brufoli? »

Soppesò la domanda con la dovuta serietà. Voleva essere sincero. In fin dei conti era una bambina molto carina.

« No, non lo penso. »

Per la terza volta vide il bagliore del suo sorriso.

« Che bello! » La bambina gli si fece più vicina sotto l’ombrello, aggrappandosi alle sue mani chiuse sulle ginocchia, e di colpo trasalì. « Ma… hai la pelle ghiacciata, ragazzo! Sei tu quello che dovrebbe correre subito a casa… Dov’è che abiti? »

Tutto il contesto – la fuga, il freddo, la stanchezza – gli tornò alla mente all’improvviso. Si chiese come avesse potuto lei, con l’allegria delle sue chiacchiere, riuscire a fargli dimenticare che erano accovacciati in un vicolo sotto la pioggia e che lui stava praticamente morendo assiderato. Rabbrividì, e la bambina si alzò e cercò di trascinarlo con sé.

« Senti, io non so chi sei, ma non ti posso lasciare qui a congelarti. Dai, vieni con me. »

Le membra intorpidite gli impedirono di sottrarsi alla sua mano calda e morbida. Cercò di opporsi, invano, mentre lei iniziava a camminare lungo il vicolo trascinandoselo dietro come un cucciolo.

« Non credo sia una buona idea » le fece notare, il tono di voce fermo malgrado il battere dei denti.

« Perché no? »

« Ai tuoi non piacerebbe sapere che hai portato in casa un estraneo. »

Lei si voltò per un attimo a guardarlo, disorientata; poi sorrise ancora. « Ma no, loro non sapranno niente. »

La sorpresa si sovrappose al rifiuto. « Che cosa vuoi dire? »

« Tu fai quello che ti dico io… »

 

 

La ragazzina era entrata in casa come se niente fosse e lui aveva seguito le sue precedenti indicazioni – chiedendosi per quale motivo lo stava facendo davvero, perché non si limitava a sparire come aveva già fatto una prima volta quella notte – e si era appostato sotto la finestra che gli aveva indicato.

Lei era comparsa pochi minuti dopo, gli aveva fatto un cenno e aveva aperto le ante.

« Fortuna che non dormo al primo piano, eh? » aveva riso mentre lo aiutava ad entrare dalla finestra.

Non aveva trovato nulla da dire. Era ancora in lotta con se stesso, cercando di capire cosa lo avesse spinto a seguirla fin lì piuttosto che andarsene semplicemente in un qualche vicolo meno frequentato.

Ora il ragazzo era seduto sul letto di lei, rannicchiato come per toccare il meno possibile l’ambiente intorno a sé – persino quello era diverso, totalmente diverso – e si guardava intorno con inevitabile curiosità, mentre la bambina si toglieva la sciarpa che aveva ancora al collo e iniziava a trafficare con una borsa gocciolante che aveva con sé.

« Oh, spero tanto non si sia bagnato. Ecco » ed estrasse qualcosa con un sussurro trionfante.

Si voltò a guardarla, e si vide tendere un leccalecca alla ciliegia.

« È quello che mi ha regalato Toshiro, ma puoi prenderlo tu, sono sicura che hai una fame da lupi. »

Come a rendere inconfutabili tali parole, lo stomaco di lui rumoreggiò in modo inequivocabile. La bambina rise, e quel suono gli strappò un sorrisetto in risposta.

« Dai, prendilo. »

Accettò il dolce dalla sua mano, teso, e lo scartò con gesti attenti, quasi come se si aspettasse di trovare una bomba al posto del leccalecca.

La bambina si sedette sul tappeto, a gambe incrociate, e gli rivolse ancora una volta il suo sguardo curioso.

« Come ti chiami? »

« Non posso dirtelo. »

La guardò, al di sopra della pallina rossa che si accingeva ad assaggiare, e la vide a metà dispiaciuta e a metà contrariata.

« Perché no? » ripeté.

Il ragazzo si mise in bocca il leccalecca, senza distogliere lo sguardo, ma sentendosi un po’ in colpa. Dopotutto lei era stata molto gentile con lui, e lui era costretto a ripagarla così.

« I miei non vogliono che lo dica » disse alla fine, e un po’ era vero.

Lei non sembrò capire, ma se non altro parve accettare la risposta. « Oh… Beh, fa niente. E quanti anni hai? Dodici, tredici? »

« Quindici » mormorò, omettendo il fatto che li aveva appena compiuti.

« Davvero? A guardarti non sembri così grande! » Era sinceramente meravigliata.

« Lo so. » Teneva ancora il dolce tra la lingua e il palato; parlare così era un po’ scomodo, ma gli piaceva sentire il sapore a poco a poco, lasciare che gli pervadesse la bocca lentamente, come il calore della stanza stava man mano rinfrancando il resto del suo corpo. « E tu? »

Non sapeva dire se gli importasse davvero la risposta, ma aveva ancora voglia di parlare con lei. Buffo. Di solito preferiva starsene in silenzio.

« Ne compio dieci il 25 dicembre » disse, con una punta di infantile orgoglio.

« Mmm. »

31 ottobre, 25 dicembre. Lui Halloween, lei Natale. Una coincidenza strana, ma comunque si trattava di due festività completamente diverse. L’una era scura, fredda, e parlava di spettri sotto le maschere; l’altra era rossa, e verde, e dorata e calda, e sapeva di famiglia e di cose che lui non conosceva o semplicemente non ricordava più.

Si concentrò sul leccalecca, assaporando a fondo il gusto di ciliegia, gli occhi sempre fissi sulla bambina che ora stava giocherellando con una frangia del tappeto.

« I tuoi genitori sono molto permissivi. »

Sollevò la testa, dubbiosa. « Che cosa vuol dire? »

La sua giovane età evidentemente non aveva ancora compreso nel suo vocabolario quella parola. Un’ulteriore prova di quanto il suo mondo fosse diverso dal suo.

« Ti hanno lasciato tornare da sola da una festa di Halloween… E hanno anche permesso che il tuo viso servisse ad una campagna pubblicitaria su scala nazionale. »

Lei si accigliò lievemente, confusa dal suo ragionamento o forse dalle sue ultime parole. « E che cosa c’è di male? »

La fissò a lungo. « Non so. » Finalmente si tolse di bocca il dolce e parlò in modo più diretto. « Ci sono alcuni genitori che non vorrebbero mai rischiare di far montare la testa ai propri figli… Vorrebbero che restassero bambini per sempre. »

La ragazzina scosse la testa. « La mia mamma e il mio papà non sono così. Loro dicono che non è mai troppo presto per cominciare a crescere… Che è importante camminare da soli e imparare, e sbagliare anche, perché questo ci renderà forti. Non ho capito molto bene cosa significhi » ammise, con un sorrisetto di scusa, « ma so che vogliono il meglio per me, e così anche se vado alle feste da sola e faccio le pubblicità e cose del genere, so che loro sono fieri di me. »

Il ragazzo rimase in silenzio, guardandola nascondere uno sbadiglio dietro la mano. S’infilò nuovamente in bocca il leccalecca e si alzò dal letto.

« Sei stanca, hai bisogno di dormire. »

Lei schizzò in piedi di rimando, d’un tratto sveglissima. « Oh, devi andare? Ma puoi restare ancora un po’, non sono così stanca… Oppure domani hai scuola? »

« Scuola? » La fissò, incerto. « No » ammise alla fine, pur senza rivelarle che non aveva mai seguito una ‘scuola’ normale in vita sua.

« Allora resta ancora un po’! » Sorrideva; anche se si sforzava di parlare piano per non farsi sentire dai suoi, la sua voce era un invito di un’allegria trascinante, quasi impossibile da declinare. « Sono curiosa, non ho mai parlato con un ragazzo silenzioso come te, pensavo fossero tutti chiacchieroni come Toshiro, e vorrei sapere tante cose…! »

Esattamente ciò che lui voleva evitare. Si ritrasse verso la finestra, scuotendo piano il capo.

« No, no. È tardi. » Esitò. « Grazie… per avermi aiutato… »

La bambina non si rese conto di quanto fosse suonato strano per lui pronunciare quella semplice parola di sei lettere – forse perché non gli capitava praticamente mai di ringraziare qualcuno? Di solito era lui a prestare il proprio aiuto, in un modo o nell’altro – ma capì che non sarebbe rimasto, perché mise su un’espressione un po’ contrita e prese a tormentarsi una ciocca di capelli tra le mani, mordendosi il labbro.

« Oh… Capito. Devi tornare a casa. »

Le dava già le spalle quando seguì l’impulso di risponderle con la verità.

« No… Non torno a casa. »

Cadde il silenzio. Anche senza guardarla, sapeva di averla lasciata a bocca aperta.

« Cosa? » la sentì esclamare dopo un po’, con voce un po’ più alta di prima. « Non torni a… Sei scappato? Non hai un posto dove stare? »

Vide il suo riflesso sui vetri della finestra aperta. Dovette ricredersi; forse era più intelligente di quanto potesse sembrare.

Prima di risponderle, scavalcò il davanzale e si voltò di nuovo per rivolgerle un ultimo sguardo di saluto.

« Va tutto bene. » La sua voce fu molto più sicura di quanto lui stesso si sentisse. « Non devi preoccuparti per me… Vai a dormire. »

Lei si avvicinò alla finestra, chinandosi al livello dei suoi occhi, come poco prima, nel vicolo. « Sei sicuro? »

Annuì. « Buonanotte, bambina degli Hello Panda. »

Lei sorrise, un po’ più tranquilla. « Buonanotte, ragazzo senza nome. »

 

 

Un colloquio con una bambina ottimista e altruista non aveva cambiato le cose. Per quanto le sue parole avessero continuato ad echeggiargli nella mente per ore e ore, per quanto avessero cercato di convincerlo che, sì, crescere e affrontare le proprie responsabilità era la cosa giusta – l’unica da fare, lui non si era ancora risolto a cambiare idea.

Non era tornato indietro.

Per tutta la settimana successiva a quell’incontro, il ragazzo era rimasto nella stessa strada dove abitava la bambina. Aveva imparato a non farsi notare, a rendersi invisibile, e sopravviveva come facevano – aveva sentito – quei ‘senzatetto’ di cui tanto si parlava. Loro potevano essere poveri, potevano non avere una casa né una famiglia né un letto caldo o un leccalecca alla ciliegia, però non avevano neanche bisogno di fuggire da se stessi. Erano liberi.

E lui era diventato come loro, un anonimo invisibile che viveva di ciò che trovava per caso, ma senza avere il coraggio di allontanarsi troppo da quella casa all’angolo della strada.

Pur sapendo quanto fosse inutile e persino infantile passare il tempo a sbirciare dal vicolo nella speranza di rivedere la bambina, non poteva farne a meno. Continuava a guardare da quella parte, di continuo, e a sollevarsi sulle punte dei piedi nudi per vedere se per caso la sua figurina passasse davanti a una qualche finestra di quella casa così diversa dall’istituto – e quando questo accadeva, avvertiva una sensazione strana, come di appagamento, per quel semplice istante in cui aveva intravisto di nuovo il suo sorriso. In un certo senso, era quasi come spiare un’amica.

Lui non aveva mai avuto amici. Però quella bambina era qualcosa che ci andava molto vicino.

E divenne così incauto nell’osservarla che lei, un pomeriggio tornando da scuola, finì per accorgersi di lui.

 

 

La bambina ormai passava a trovarlo tutti i giorni. Non era molto contenta di saperlo lì – più e più volte si era offerta di ospitarlo a casa sua; avevano una casa grande, c’era spazio per tutti, e lei sarebbe stata felice di aiutarlo se davvero non voleva saperne di tornare dalla sua famiglia, perché di sicuro aveva una famiglia, no? – ma con l’avanzare dei giorni aveva imparato ad accettare il suo bisogno di stare là da solo, pur nella pioggia e nel freddo di novembre.

Ogni giorno gli portava un leccalecca. Qualche volta due, quando la mamma aumentava la paghetta; le piaceva pensare di aiutarlo a sfamarsi, e anche se quei dolci sarebbero serviti a ben poco per mantenerlo in forze, lui li apprezzava sempre moltissimo.

La pioggia sembrava incessante. Quando la bambina era con lui, al ragazzo non importava molto di bagnarsi; era più giusto perché lei aveva l’ombrello, e a lui andava bene dirle di tenerlo, lui poteva stare seduto sotto la grondaia, l’importante era che lei non si buscasse un raffreddore. La bambina rideva e diceva che era tanto gentile e di solito finiva che si stringevano sotto quell’ombrello rosso insieme, e qualche volta lei sedeva sulle sue ginocchia – e anche se lui continuava a non apprezzare il contatto altrui, non gli importava più di tanto.

Non parlavano molto, o meglio, lui non parlava affatto, mentre lei gli raccontava le sue giornate e gli faceva domande che quasi mai ricevevano una risposta vera e propria. Sembrava che anche alla bambina stesse bene così; ad ogni modo, fu sempre contenta di passare qualche minuto con lui, prima e dopo la scuola, e di salutarlo con la mano dalla sua stanza la sera prima di addormentarsi.

Ma poi, all’inizio di dicembre, lei arrivò e gli mostrò il visetto solcato dalle lacrime.

Vederla piangere era una cosa così inedita – molto più dell’aver instaurato quella sorta di vicinanza con lei, in effetti – che il ragazzo si alzò in fretta dal suo angolo tra i bidoni e le si avvicinò, per la prima volta in vita sua in preda alla preoccupazione.

« Cos’è successo? »

La bambina lasciò cadere l’ombrello e corse da lui, gettandosi tra le sue braccia e restando così inerte a singhiozzare sul suo petto.

« Ci trasferiamo. »

 

 

I suoi avevano deciso di iscriverla ad un’importante scuola di recitazione. I preparativi erano già a buon punto; non dovevano fare altro che traslocare, e la nuova vita della bambina degli Hello Panda sarebbe iniziata. Il suo sogno sarebbe diventato realtà.

« Non capisco. » La osservava piangere senza freni, così piccola e minuta al suo fianco, molto più di lui; non riusciva a capacitarsi, e anche questo non gli era mai successo prima. « Pensavo fosse quello che volevi. Studiare per diventare famosa. Cosa c’è che non va? »

Lei sollevò il viso e lo guardò tra le lacrime; i suoi occhi arrossati sembravano più accesi che mai, nonostante tutto quel pianto.

« Non ti vedrò mai più » mormorò.

Lui rimase in silenzio, come succedeva spesso, ma stavolta avrebbe tanto voluto trovare qualcosa da dire.

 

 

La sera prima della partenza, la bambina venne a salutarlo nel vicolo.

« Mi sarebbe piaciuto portarti un altro leccalecca. »

« Non fa niente. »

« Mi sarebbe piaciuto anche invitarti per Natale. Per il mio compleanno » precisò, triste.

Lui scosse la testa. « Va bene così » disse, come la notte di Halloween, quando se n’era andato dalla sua stanza.

Lei piangeva ancora. Per la prima volta in quelle poche settimane, il ragazzo cercò il contatto di lei per primo, e tese una mano per asciugarle una guancia con la punta di un dito. La bambina gli prese la mano tra le sue, e lui non si sottrasse.

« Ci rincontreremo, un giorno? »

« Non so… Forse. »

« Ti porterò tonnellate di biscotti Hello Panda. »

« Grazie. »

Una breve pausa.

« Posso chiederti di farmi una promessa? » chiese poi lei, in un soffio.

Lui rimase in attesa, e la bambina interpretò il suo silenzio come un assenso.

« Promettimi che tornerai a casa. A casa tua. Dalla tua famiglia. » Gli si avvicinò. « Da qualsiasi cosa tu sia scappato, so che sei abbastanza forte per affrontarlo. »

Una volta aveva letto da qualche parte: Nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.

Lui si era illuso.

Si era illuso di potersi sottrarre ad un peso troppo grande, di poter essere un altro, semplicemente fuggendo.

E si era anche illuso di saperne di più di una bambina di dieci anni, che una notte gli aveva parlato del crescere e del fatto che è giusto farlo da soli, imparare a farlo un passo alla volta.

Ancora una volta non disse niente, ma la bambina non sembrava volere una risposta. Sorrideva, ora, come se avesse capito che lui aveva capito.

« Non dimenticarti di me, ragazzo senza nome. »

Si sollevò sulle punte dei piedi. Con la spontaneità e la naturalezza che solo i bambini possono avere, posò le labbra contro le sue; quindi si ritrasse e corse via, fuori dal vicolo, sotto la pioggia.

Il ragazzo non seppe mai per quanto tempo rimase lì a fissare la sua finestra chiusa.

 

 

Il giorno dopo, tornò alla Wammy’s House, e tornò ad essere L.

 

 

 

*

 

 

 

Tic, ti-ti-tic, tic, tic.

È solo la tastiera del computer di Light Yagami a riempire il silenzio, ora, mentre il detective continua a fissare Amane senza muoversi.

La ragazza si innervosisce vistosamente; non le piacciono mai i suoi silenzi, è evidente – forse perché pensa che stia elaborando chissà quale test psicologico per incastrare lei e il suo fidanzato, mentre lui dal canto suo sta pensando a tutt’altro. Come in questo preciso momento.

« Ryuuzaki? La smetti di guardarmi in quel modo? Mi rendi nervosa. »

Distoglie lo sguardo. « Perdonami, Amane. Stavo riflettendo. »

« Ma che scoperta. »

La sente tornare a sedersi pesantemente sul divano, esasperata. Non se ne cura.

Il ricordo, però, gli ha reso difficile concentrarsi.

Di nuovo ignora le proteste di Light e stavolta tende le manette per riuscire ad afferrare un pacchetto nella tasca posteriore dei jeans, cosa peraltro non facile, data la posizione tutt’altro che rilassata delle sue gambe. Quando vi riesce, apre il pacchetto con tutta calma e lo posiziona sul bracciolo della poltrona, appena prima di udire l’esclamazione di sorpresa di Amane.

Si volta a guardarla sopra il biscotto che è già pronto ad assaggiare.

Gli occhi bruni di Misa vanno da lui agli Hello Panda con stupore, forse pensando al passato, senza capire, mentre L osserva la sua bocca appena dischiusa e si chiede se quelle labbra hanno ancora lo stesso sapore dei leccalecca alla ciliegia.

 

 

 

 

 

 

 

« Non dimenticarti di me, ragazzo senza nome. »

{ Lei, invece, si è dimenticata di lui }

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio (= stanza di manicomio) dell’autrice

 

 

Non so assolutamente, nella maniera più totale, da dove mi sia venuta l’idea per scrivere quello che ho scritto. o__ò

Ok, ragioniamoci.

Amo L. Amo pensare all’infanzia di L. Amo pensare che ad un certo punto della sua adolescenza gli sia venuta voglia di mollare tutto, per il peso dei ricordi e della sua condizione di genio non desiderata, perché in fondo è un essere umano anche lui. Mmm. A questo punto dovrebbe venire la parte in cui dico “Amo Misa. Amo pensare all’infanzia di Misa”… Ma non posso dirlo. Perché? Perché non è così! Misa non è neanche tra i miei personaggi preferiti, diciamocelo.

Sta di fatto che amo questo pairing sempre di più. <3

E così – in preda a non so quale sostanza abbia inavvertitamente assunto – ho ipotizzato che lei ed L si fossero conosciuti da bambini, che anche allora fossero terribilmente diversi, e che però in quel contesto avrebbero potuto essere amici e forse persino qualcosa di più. *-*

L’età, lo ammetto, è stato un handicap ù__ù Con cinque anni di differenza tra i due, non potevo inventarmi nulla di più romantico. Anche perché, se Misa fosse stata abbastanza grande, sarebbe stato innaturale poi che avesse dimenticato tutto; invece tra i nove e i dieci anni è un’età comprensibile per vivere degli affetti che sono sì sinceri, ma che poi possiamo dimenticarci facilmente – specie quando si è fondamentalmente superficiali come Misa. :P Purtroppo questo ha fatto sì che L dovesse avere quindici anni, ed è ovvio che nessun quindicenne – L per primo, credo xD – andrebbe ad innamorarsi di una bambina di dieci anni… Per questo ho mantenuto la shot sul piano soft/sentimentale più che su quello romantico.

Oh, beh, sto ancora delirando. Bah, non so, l’idea mi piaceva, a voi il giudizio.

Spero di aver mantenuto l’IC… .__.

 

~ I versi all’inizio della shot sono tratti dalla canzone The man who can’t be moved dei The Script.

~ Ho descritto la piccola Misa con i capelli scuri; questo perché anche prima degli avvenimenti di Death Note, all’epoca del ritrovamento del quaderno di Jealous, Misa viene mostrata nell’anime proprio con i capelli scuri. Il biondo è certamente una tinta. xD

~ Gli Hello Panda esistono davvero. Mi sono informata su una qualsiasi marca giapponese di dolciumi per il primissimo spot interpretato da Misa, e ho trovato questa. (Tra l’altro ho pensato che fossero perfetti *-* L non è già un adorabile panda di suo?!) Non è mia intenzione fare pubblicità, né appropriarmi di un copyright non mio. Come spero sia chiaro a tutti, qualsiasi cosa viene pubblicata su EFP non è a scopo di lucro.

~ La citazione Nulla è più facile che illudersi eccetera eccetera è di Demostene. Idem con patate; rendiamo a Demostene ciò che è di Demostene.

 

Tornerò a scrivere al più presto, esami permettendo; perciò per ora ne approfitto per salutare tutti i miei lettori, ringraziarli e assicurare loro che non sono sparita (purtroppo per voi ^^) <3

Hope you liked it.

   
 
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