Illusion ~ Storia
di biscotti e di leccalecca alla ciliegia
{ ‘Cause if one
day you wake up and find that
you’re missing me
And your heart starts to wonder where on this
Earth I could be
Thinking maybe
you’ll come back here to the
place that we’d meet
And you’d see me waiting for you on the corner of the street }
Tic, tic, ti-ti-tic, tic.
Il
piede destro di Amane, elegantemente fasciato da una calza nera fin troppo
elegante per quei suoi diciannove anni, dondola ad un ritmo quasi coerente al
suono dei polpastrelli sulla tastiera. Non ci dà troppo peso; ma
è un po’ difficile ignorarlo del tutto, così evidente al
margine del suo campo visivo.
Si
concentra sul lavoro, sullo schermo del portatile solcato da file di lettere,
numeri e grafici, escludendo tutto il resto: la presenza della ragazza, il suo
continuo e sommesso sbuffare, la leggera tensione al polso che testimonia la
compagnia forzata di Yagami e l’aiuto –
più o meno sincero; si vedrà, c’è ancora tempo
– che sta dando a lui e al resto della squadra.
Ma
Misa Amane – lui l’ha capito subito
– non è una di quelle persone che non si fanno problemi a passare
inosservate.
«
Ehi, Ryuuzaki. »
Più
che vederla, percepisce che si sta sporgendo verso di lui dal divanetto scuro; il
suo leggero profumo dal sentore di fiori si fa più intenso
tutt’intorno. È tanto vicina alla sua poltrona di pelle da
respirargli sul collo.
Non
stacca gli occhi, né le mani, dal pc. «
Cosa, Amane? »
«
Si può sapere cosa fate tutto il tempo, tu e Light-kun?
»
«
Ricerche. Dati. Statistiche. Tutti i casi di morti di detenuti trattati dai
media. Ogni dettaglio è importante nella nostra ricerca di Kira, Amane. » Nel dirlo tende una mano e afferra un
dolce dal vassoio sul tavolino; la catena delle manette si tende mentre lui,
sordo al verso impaziente di Light, mangia con calma il pasticcino per poi
riprendere a muovere velocemente le dita sui tasti.
Amane
sbuffa per l’ennesima volta. Gli soffia addosso una risatina lugubre.
«
A me sembri solo un ragazzino con la fissa del computer, Ryuuzaki.
Se non vi vedessi sempre alle prese con quelle cose, potrei giurare che per
tutto il tempo voi due giocate ai videogame. »
Per
un attimo quasi si ferma, sorpreso e incuriosito dall’eventualità;
lui non ha mai giocato ai videogame. Chissà com’è?
C’era un bambino all’istituto che di certo saprebbe rispondergli… Almeno a giudicare da ciò che
ricorda di aver sentito su di lui.
Ma
si sta distraendo. Che buffo; soltanto quando parla con Amane gli succedono
cose del genere.
«
Ryuuzaki-san? »
L’aggiunta
del suffisso gli fa intuire che sta per arrivare la solita richiesta. Si
concentra di nuovo, insofferente, ma non può fare a meno di invitarla a
proseguire con un « Mmm? » di cortesia.
«
Non puoi proprio lasciare che Misa-Misa e il suo Light-kun stiano un po’ da soli? »
Per
la prima volta alza gli occhi su di lei, china tra lui e Yagami
– uno sguardo quasi supplichevole nelle iridi chiare e il labbro
inferiore teso all’ingiù come quello di una bambina in attesa di
una sospirata concessione.
Guarda
oltre, oltre quell’aria falsamente innocente, oltre i capelli biondi che
le sfiorano la guancia, e constata che Yagami non
potrebbe essere meno interessato al responso. Nonostante i tentativi della sua
ragazza di conquistare un attimo di meritata privacy, è evidente che
tutta la sua attenzione è assorbita dal computer che gli sta davanti.
Falso.
Con lei o con lui? Forse con
entrambi.
Quando
torna a fissare la giovane, vede che una parte della sua silenziosa supplica ha
lasciato il posto ad un velo d’impazienza.
«
No, Amane, non posso proprio. »
L’espressione
si trasforma del tutto, e lei si tira su ed incrocia le braccia, arrabbiata.
«
Sei veramente poco carino, Ryuuzaki! Non credevo che
potessero esistere ragazzi insensibili come te…
E io ne ho conosciuti molti, di
ragazzi. »
«
Non faccio alcuna fatica ad immaginarlo. » Si concede un’altra
pasta alla crema prima di dedicarsi ancora una volta al portatile.
«
Oh, andiamo! » Amane si lascia cadere di nuovo tra lui e Light, ma questa
volta si aggrappa alla sua poltrona, irrompendo ancora di più nel suo
spazio vitale con quel suo inconfondibile profumo di fiori. « Neanche
cinque minuti? Neanche tre? »
«
Neanche uno » conferma, senza più guardarla.
Tanta
incuranza evidentemente non fa che aumentare il fastidio di lei.
«
Antipatico! Antipatico, egoista e insopportabile! » Si sporge, punta le
mani sul bracciolo, lo fulmina con gli occhi anche se lui non li sta guardando
– o forse proprio per quello. « Sei veramente la persona più
senza cuore che abbia mai conosciuto.
E con il brutto carattere che ti ritrovi, di sicuro non hai mai avuto un amico… Non avrai mai neanche baciato una ragazza. »
…
tic.
Si
ferma e si volta a guardarla, di nuovo, senza fretta. Le sue guance gonfie di
sprezzo, arrossate, gli sembrano di colpo irrigidirsi per qualcosa che non
è più irritazione; e gli sembra di veder passare un’ombra
di disagio nei suoi occhi – in quegli occhi così diversi,
così irrimediabilmente diversi
dai suoi, quegli occhi che non sanno oppure sembrano non sapere…
E
mentre riflette a fondo sulle sue parole e osserva la sua crescente confusione,
per la prima volta dopo un tempo troppo lungo, la mente di lui insegue il
ricordo di una notte di troppi anni fa – quell’unico ricordo a cui
non ha mai voluto rinunciare.
*
L’adolescenza
è probabilmente il periodo più difficile dell’intera vita
umana. Ad un certo punto ci si accorge che si sta crescendo, che si sta
abbandonando il tempo in cui tutto è facile e basta un niente per cancellare
il dolore e per sorridere al volo di una farfalla in un prato e per sognare
qualcosa di grande e luminoso. Semplicemente, ci si accorge che nella vita non
si avrà sempre il coraggio di andare avanti: ci saranno dei momenti di
sconforto, di ribellione, di disperazione persino, di voglia di dire Io non sono questo, io sono un altro, io
posso rinunciare a me ed essere chi voglio.
È
così per tutti, è indiscutibile; e così fu anche per L.
Perché
essere un genio non ti rende immune alla stanchezza.
La
notte del suo quindicesimo compleanno pioveva, e lui era solo in una strada
umida e deserta.
Faceva
freddissimo. Tremava da capo a piedi, rannicchiato in un vicolo, tra i bidoni
della spazzatura. Nell’unica notte dell’anno in cui le strade
restavano frequentate fino a tardi, popolate di ragazzini vestiti di colori
vivaci o cupi, di maschere e scherzi, di risate e spaventi, di dolci, lui aveva
scelto appositamente l’angolo più buio e silenzioso che avesse
potuto trovare. Non che temesse che qualcuno andasse a cercarlo – sapeva
bene che avrebbero lasciato a lui la
scelta di tornare. Aveva paura, piuttosto, che il ritrovarsi tra la gente gli
avrebbe fatto venire voglia di ripercorrere i suoi passi, di rivestire i suoi
panni e dissolversi nuovamente nella sua vita vuota e lontana.
Non
voleva. Non voleva tornare indietro.
Gocce
incessanti piovevano su di lui dalla grondaia dell’edificio fatiscente
sotto la quale si era riparato. Si strinse le ginocchia con le mani, ma ormai
le mani stesse perdevano sensibilità. I piedi nudi stavano diventando
blu; ipotermia, gli venne in mente,
si chiamava così. Sarebbe morto di freddo nella notte di Halloween. Un
triste modo di concludere una vita ancora più triste, ma almeno avrebbe
potuto rivedere ancora una volta i suoi genitori.
E
poi, proprio quando stava chiudendo gli occhi per non vedere più il
proprio pallore assurdo contrastante con l’oscurità in cui era
immerso il vicolo, sentì d’un tratto che la pioggia cessava di
inzupparlo.
Strano;
ne sentiva ancora il rumore scrosciante, lo sgocciolio nelle pozzanghere poco
oltre i suoi piedi. Stava morendo davvero? Non riusciva neanche più a
distinguere il bagnato?
Aprì
gli occhi.
Ci
volle un po’ perché distinguesse qualcosa nella sagoma china di
fronte al suo viso; all’inizio pensò che fosse di nuovo lui, come qualche anno prima, che fosse
venuto a prenderlo con la sua mano guantata e a
condurlo fuori da lì sorridendogli da sotto quei sottili baffi bianchi
di signore buono – poi si rese conto che stava guardando negli occhi una
bambina.
«
Ti sei perso, ragazzo? »
Rimase
a fissarla senza rispondere. Non aveva nulla a che vedere con i bambini che
vivevano con lui; le sue guance erano paffute, non c’erano occhiaie sul
suo visetto roseo, e i suoi occhi curiosi erano troppo accesi, vivi. Era in ginocchio, con lo sguardo
quasi all’altezza del suo, e lo riparava con un ombrello rosso. Addosso
aveva quello che doveva essere un costume di Halloween; da strega, forse, a
giudicare dallo strano cappello a punta e dallo smalto nero sulle piccole unghie
mangiucchiate.
La
bambina lo osservava attentamente, il capo appena inclinato da una parte, le
labbra socchiuse. « Non abiti qui, vero? Non ti ho mai visto prima.
Allora, ti sei perso? »
Si
ritrasse impercettibilmente. Non gli piaceva molto il contatto con le altre
persone. Con gli sconosciuti ancor meno.
«
Dovresti essere a casa » gli uscì detto, rendendosi conto che per
la ragazzina, evidentemente più giovane di lui, non era bene girovagare
fuori sotto la pioggia nella notte di Halloween. « I tuoi genitori
saranno preoccupati. »
Lei
rise; era un suono così cristallino, così strano che per un attimo lui non riuscì più a sentire
la pioggia.
«
Ma i miei genitori sanno che ero dalla mia amica Hikari!
C’è stata una bellissima festa, Hikari
ha invitato tutti i bambini della nostra classe, c’era anche Toshiro che è così
carino e che mi ha regalato un leccalecca alla ciliegia e poi… » S’interruppe e lo fissò,
reclinando di nuovo la testa. I capelli scuri le scivolarono giù dalla
tesa di quel cappello assurdo. « Perché mi guardi così,
ragazzo? Non sono mica un fantasma. »
Ovvio
che non lo era, ma non per questo gli sembrava più reale. Era… diversa,
semplicemente. Diversa da tutte le altre persone che gli era capitato di
incontrare finora. Eppure, a guardarla bene – i suoi occhi già
abituati alla penombra riuscivano ora a cogliere più dettagli –
aveva un’aria stranamente familiare.
«
Ragazzo? Se stai così zitto a fissarmi mi fai paura. »
La
sua voce aveva assunto una curiosa nota tremante. Sorprendente; di tutte le
cose che avrebbero potuto impaurirla, come il fatto di essere sola di notte con
uno sconosciuto più grande di lei o il rombo dei tuoni incessanti, erano
il suo silenzio e il suo sconcerto a spaventarla. Ricambiò lo sguardo
con interesse, e ad un tratto capì.
«
Tu sei la bambina degli Hello Panda. »
Lei
sembrò spiazzata per un istante, ma poi sorrise radiosa, e lui rivide
con più chiarezza nella mente la stessa espressione felice che aveva
visto sui cartelloni pubblicitari in città.
«
Sì! Sì, sono io. Allora
hai visto la pubblicità? Sono così contenta, la mia mamma dice
che diventerò famosa, che questo è solo l’inizio e che
tutto il Giappone conoscerà il mio nome! Mia sorella invece non la pensa
così, secondo lei mi chiederanno di mangiare tanti di quei biscotti Hello Panda che diventerò tutta ciccia e brufoli.
» Cambiò subito tono e si morse il labbro, ansiosa. « Tu pensi che diventerò tutta
ciccia e brufoli? »
Soppesò
la domanda con la dovuta serietà. Voleva essere sincero. In fin dei
conti era una bambina molto carina.
«
No, non lo penso. »
Per
la terza volta vide il bagliore del suo sorriso.
«
Che bello! » La bambina gli si fece più vicina sotto
l’ombrello, aggrappandosi alle sue mani chiuse sulle ginocchia, e di
colpo trasalì. « Ma… hai la pelle
ghiacciata, ragazzo! Sei tu quello
che dovrebbe correre subito a casa…
Dov’è che abiti? »
Tutto
il contesto – la fuga, il freddo, la stanchezza – gli tornò
alla mente all’improvviso. Si chiese come avesse potuto lei, con
l’allegria delle sue chiacchiere, riuscire a fargli dimenticare che erano
accovacciati in un vicolo sotto la pioggia e che lui stava praticamente morendo
assiderato. Rabbrividì, e la bambina si alzò e cercò di
trascinarlo con sé.
«
Senti, io non so chi sei, ma non ti posso lasciare qui a congelarti. Dai, vieni
con me. »
Le
membra intorpidite gli impedirono di sottrarsi alla sua mano calda e morbida.
Cercò di opporsi, invano, mentre lei iniziava a camminare lungo il
vicolo trascinandoselo dietro come un cucciolo.
«
Non credo sia una buona idea » le fece notare, il tono di voce fermo
malgrado il battere dei denti.
«
Perché no? »
«
Ai tuoi non piacerebbe sapere che hai portato in casa un estraneo. »
Lei
si voltò per un attimo a guardarlo, disorientata; poi sorrise ancora.
« Ma no, loro non sapranno niente. »
La
sorpresa si sovrappose al rifiuto. « Che cosa vuoi dire? »
«
Tu fai quello che ti dico io… »
La
ragazzina era entrata in casa come se niente fosse e lui aveva seguito le sue
precedenti indicazioni – chiedendosi per quale motivo lo stava facendo davvero, perché non si limitava a sparire come aveva già fatto
una prima volta quella notte – e si era appostato sotto la finestra che
gli aveva indicato.
Lei
era comparsa pochi minuti dopo, gli aveva fatto un cenno e aveva aperto le
ante.
«
Fortuna che non dormo al primo piano, eh? » aveva riso mentre lo aiutava
ad entrare dalla finestra.
Non
aveva trovato nulla da dire. Era ancora in lotta con se stesso, cercando di
capire cosa lo avesse spinto a seguirla fin lì piuttosto che andarsene
semplicemente in un qualche vicolo meno frequentato.
Ora
il ragazzo era seduto sul letto di lei, rannicchiato come per toccare il meno
possibile l’ambiente intorno a sé – persino quello era
diverso, totalmente diverso – e si guardava intorno con inevitabile
curiosità, mentre la bambina si toglieva la sciarpa che aveva ancora al
collo e iniziava a trafficare con una borsa gocciolante che aveva con
sé.
«
Oh, spero tanto non si sia bagnato. Ecco » ed estrasse qualcosa con un
sussurro trionfante.
Si
voltò a guardarla, e si vide tendere un leccalecca alla ciliegia.
«
È quello che mi ha regalato Toshiro, ma puoi
prenderlo tu, sono sicura che hai una fame da lupi. »
Come
a rendere inconfutabili tali parole, lo stomaco di lui rumoreggiò in
modo inequivocabile. La bambina rise, e quel suono gli strappò un
sorrisetto in risposta.
«
Dai, prendilo. »
Accettò
il dolce dalla sua mano, teso, e lo scartò con gesti attenti, quasi come
se si aspettasse di trovare una bomba al posto del leccalecca.
La
bambina si sedette sul tappeto, a gambe incrociate, e gli rivolse ancora una
volta il suo sguardo curioso.
«
Come ti chiami? »
«
Non posso dirtelo. »
La
guardò, al di sopra della pallina rossa che si accingeva ad assaggiare,
e la vide a metà dispiaciuta e a metà contrariata.
«
Perché no? » ripeté.
Il
ragazzo si mise in bocca il leccalecca, senza distogliere lo sguardo, ma
sentendosi un po’ in colpa. Dopotutto lei era stata molto gentile con
lui, e lui era costretto a ripagarla così.
«
I miei non vogliono che lo dica » disse alla fine, e un po’ era
vero.
Lei
non sembrò capire, ma se non altro parve accettare la risposta. « Oh… Beh, fa niente. E quanti anni hai? Dodici,
tredici? »
«
Quindici » mormorò, omettendo il fatto che li aveva appena
compiuti.
«
Davvero? A guardarti non sembri così grande! » Era sinceramente
meravigliata.
«
Lo so. » Teneva ancora il dolce tra la lingua e il palato; parlare
così era un po’ scomodo, ma gli piaceva sentire il sapore a poco a
poco, lasciare che gli pervadesse la bocca lentamente, come il calore della
stanza stava man mano rinfrancando il resto del suo corpo. « E tu?
»
Non
sapeva dire se gli importasse davvero la risposta, ma aveva ancora voglia di
parlare con lei. Buffo. Di solito preferiva starsene in silenzio.
«
Ne compio dieci il 25 dicembre » disse, con una punta di infantile
orgoglio.
«
Mmm. »
31
ottobre, 25 dicembre. Lui Halloween, lei Natale. Una coincidenza strana, ma
comunque si trattava di due festività completamente diverse. L’una
era scura, fredda, e parlava di spettri sotto le maschere; l’altra era
rossa, e verde, e dorata e calda, e sapeva di famiglia e di cose che lui non
conosceva o semplicemente non ricordava più.
Si
concentrò sul leccalecca, assaporando a fondo il gusto di ciliegia, gli
occhi sempre fissi sulla bambina che ora stava giocherellando con una frangia
del tappeto.
«
I tuoi genitori sono molto permissivi. »
Sollevò
la testa, dubbiosa. « Che cosa vuol dire? »
La
sua giovane età evidentemente non aveva ancora compreso nel suo
vocabolario quella parola. Un’ulteriore prova di quanto il suo mondo
fosse diverso dal suo.
«
Ti hanno lasciato tornare da sola da una festa di Halloween…
E hanno anche permesso che il tuo viso servisse ad una campagna pubblicitaria
su scala nazionale. »
Lei
si accigliò lievemente, confusa dal suo ragionamento o forse dalle sue
ultime parole. « E che cosa c’è di male? »
La
fissò a lungo. « Non so. » Finalmente si tolse di bocca il
dolce e parlò in modo più diretto. « Ci sono alcuni
genitori che non vorrebbero mai rischiare di far montare la testa ai propri figli… Vorrebbero che restassero bambini per sempre.
»
La
ragazzina scosse la testa. « La mia mamma e il mio papà non sono
così. Loro dicono che non è mai troppo presto per cominciare a crescere… Che è importante camminare da soli e
imparare, e sbagliare anche, perché questo ci renderà forti. Non
ho capito molto bene cosa significhi » ammise, con un sorrisetto di
scusa, « ma so che vogliono il meglio per me, e così anche se vado
alle feste da sola e faccio le pubblicità e cose del genere, so che loro
sono fieri di me. »
Il
ragazzo rimase in silenzio, guardandola nascondere uno sbadiglio dietro la
mano. S’infilò nuovamente in bocca il leccalecca e si alzò
dal letto.
«
Sei stanca, hai bisogno di dormire. »
Lei
schizzò in piedi di rimando, d’un tratto sveglissima. « Oh,
devi andare? Ma puoi restare ancora un po’, non sono così stanca… Oppure domani hai scuola? »
«
Scuola? » La fissò, incerto. « No » ammise alla fine,
pur senza rivelarle che non aveva mai seguito una ‘scuola’ normale in vita sua.
«
Allora resta ancora un po’! » Sorrideva; anche se si sforzava di
parlare piano per non farsi sentire dai suoi, la sua voce era un invito di
un’allegria trascinante, quasi impossibile da declinare. « Sono
curiosa, non ho mai parlato con un ragazzo silenzioso come te, pensavo fossero
tutti chiacchieroni come Toshiro, e vorrei sapere
tante cose…! »
Esattamente
ciò che lui voleva evitare. Si ritrasse verso la finestra, scuotendo piano
il capo.
«
No, no. È tardi. » Esitò. « Grazie…
per avermi aiutato… »
La
bambina non si rese conto di quanto fosse suonato strano per lui pronunciare
quella semplice parola di sei lettere – forse perché non gli
capitava praticamente mai di ringraziare qualcuno? Di solito era lui a prestare
il proprio aiuto, in un modo o nell’altro – ma capì che non
sarebbe rimasto, perché mise su un’espressione un po’
contrita e prese a tormentarsi una ciocca di capelli tra le mani, mordendosi il
labbro.
«
Oh… Capito. Devi tornare a casa. »
Le
dava già le spalle quando seguì l’impulso di risponderle
con la verità.
«
No… Non torno a casa. »
Cadde
il silenzio. Anche senza guardarla, sapeva di averla lasciata a bocca aperta.
«
Cosa? » la sentì esclamare dopo un po’, con voce un
po’ più alta di prima. « Non torni a…
Sei scappato? Non hai un posto dove stare? »
Vide
il suo riflesso sui vetri della finestra aperta. Dovette ricredersi; forse era
più intelligente di quanto potesse sembrare.
Prima
di risponderle, scavalcò il davanzale e si voltò di nuovo per
rivolgerle un ultimo sguardo di saluto.
«
Va tutto bene. » La sua voce fu molto più sicura di quanto lui
stesso si sentisse. « Non devi preoccuparti per me…
Vai a dormire. »
Lei
si avvicinò alla finestra, chinandosi al livello dei suoi occhi, come
poco prima, nel vicolo. « Sei sicuro? »
Annuì.
« Buonanotte, bambina degli Hello Panda.
»
Lei
sorrise, un po’ più tranquilla. « Buonanotte, ragazzo senza
nome. »
Un
colloquio con una bambina ottimista e altruista non aveva cambiato le cose. Per
quanto le sue parole avessero continuato ad echeggiargli nella mente per ore e
ore, per quanto avessero cercato di convincerlo che, sì, crescere e
affrontare le proprie responsabilità era la cosa giusta –
l’unica da fare, lui non si era ancora risolto a cambiare idea.
Non
era tornato indietro.
Per
tutta la settimana successiva a quell’incontro, il ragazzo era rimasto
nella stessa strada dove abitava la bambina. Aveva imparato a non farsi notare,
a rendersi invisibile, e sopravviveva come facevano – aveva sentito
– quei ‘senzatetto’ di cui tanto si parlava. Loro potevano
essere poveri, potevano non avere una casa né una famiglia né un
letto caldo o un leccalecca alla ciliegia, però non avevano neanche bisogno
di fuggire da se stessi. Erano liberi.
E
lui era diventato come loro, un anonimo invisibile che viveva di ciò che
trovava per caso, ma senza avere il coraggio di allontanarsi troppo da quella
casa all’angolo della strada.
Pur
sapendo quanto fosse inutile e persino infantile
passare il tempo a sbirciare dal vicolo nella speranza di rivedere la bambina,
non poteva farne a meno. Continuava a guardare da quella parte, di continuo, e
a sollevarsi sulle punte dei piedi nudi per vedere se per caso la sua figurina
passasse davanti a una qualche finestra di quella casa così diversa
dall’istituto – e quando questo accadeva, avvertiva una sensazione
strana, come di appagamento, per quel semplice istante in cui aveva intravisto
di nuovo il suo sorriso. In un certo senso, era quasi come spiare
un’amica.
Lui
non aveva mai avuto amici. Però quella bambina era qualcosa che ci
andava molto vicino.
E
divenne così incauto nell’osservarla che lei, un pomeriggio
tornando da scuola, finì per accorgersi di lui.
La
bambina ormai passava a trovarlo tutti i giorni. Non era molto contenta di
saperlo lì – più e più volte si era offerta di
ospitarlo a casa sua; avevano una casa grande, c’era spazio per tutti, e
lei sarebbe stata felice di aiutarlo se davvero non voleva saperne di tornare
dalla sua famiglia, perché di
sicuro aveva una famiglia, no? – ma con l’avanzare dei giorni
aveva imparato ad accettare il suo bisogno di stare là da solo, pur
nella pioggia e nel freddo di novembre.
Ogni
giorno gli portava un leccalecca. Qualche volta due, quando la mamma aumentava
la paghetta; le piaceva pensare di aiutarlo a sfamarsi, e anche se quei dolci
sarebbero serviti a ben poco per mantenerlo in forze, lui li apprezzava sempre
moltissimo.
La
pioggia sembrava incessante. Quando la bambina era con lui, al ragazzo non
importava molto di bagnarsi; era più giusto perché lei aveva
l’ombrello, e a lui andava bene dirle di tenerlo, lui poteva stare seduto
sotto la grondaia, l’importante era che lei non si buscasse un raffreddore.
La bambina rideva e diceva che era tanto gentile e di solito finiva che si
stringevano sotto quell’ombrello rosso insieme, e qualche volta lei
sedeva sulle sue ginocchia – e anche se lui continuava a non apprezzare
il contatto altrui, non gli importava più di tanto.
Non
parlavano molto, o meglio, lui non parlava affatto, mentre lei gli raccontava
le sue giornate e gli faceva domande che quasi mai ricevevano una risposta vera
e propria. Sembrava che anche alla bambina stesse bene così; ad ogni
modo, fu sempre contenta di passare qualche minuto con lui, prima e dopo la
scuola, e di salutarlo con la mano dalla sua stanza la sera prima di
addormentarsi.
Ma
poi, all’inizio di dicembre, lei arrivò e gli mostrò il
visetto solcato dalle lacrime.
Vederla
piangere era una cosa così inedita – molto più
dell’aver instaurato quella sorta di vicinanza con lei, in effetti
– che il ragazzo si alzò in fretta dal suo angolo tra i bidoni e
le si avvicinò, per la prima volta in vita sua in preda alla preoccupazione.
«
Cos’è successo? »
La
bambina lasciò cadere l’ombrello e corse da lui, gettandosi tra le
sue braccia e restando così inerte a singhiozzare sul suo petto.
«
Ci trasferiamo. »
I
suoi avevano deciso di iscriverla ad un’importante scuola di recitazione.
I preparativi erano già a buon punto; non dovevano fare altro che
traslocare, e la nuova vita della bambina degli Hello
Panda sarebbe iniziata. Il suo sogno sarebbe diventato realtà.
«
Non capisco. » La osservava piangere senza freni, così piccola e
minuta al suo fianco, molto più di lui; non riusciva a capacitarsi, e
anche questo non gli era mai successo prima. « Pensavo fosse quello che
volevi. Studiare per diventare famosa. Cosa c’è che non va?
»
Lei
sollevò il viso e lo guardò tra le lacrime; i suoi occhi
arrossati sembravano più accesi che mai, nonostante tutto quel pianto.
«
Non ti vedrò mai più » mormorò.
Lui
rimase in silenzio, come succedeva spesso, ma stavolta avrebbe tanto voluto
trovare qualcosa da dire.
La
sera prima della partenza, la bambina venne a salutarlo nel vicolo.
«
Mi sarebbe piaciuto portarti un altro leccalecca. »
«
Non fa niente. »
«
Mi sarebbe piaciuto anche invitarti per Natale. Per il mio compleanno »
precisò, triste.
Lui
scosse la testa. « Va bene così » disse, come la notte di
Halloween, quando se n’era andato dalla sua stanza.
Lei
piangeva ancora. Per la prima volta in quelle poche settimane, il ragazzo
cercò il contatto di lei per primo, e tese una mano per asciugarle una
guancia con la punta di un dito. La bambina gli prese la mano tra le sue, e lui
non si sottrasse.
«
Ci rincontreremo, un giorno? »
«
Non so… Forse. »
«
Ti porterò tonnellate di biscotti Hello Panda.
»
«
Grazie. »
Una
breve pausa.
«
Posso chiederti di farmi una promessa? » chiese poi lei, in un soffio.
Lui
rimase in attesa, e la bambina interpretò il suo silenzio come un
assenso.
«
Promettimi che tornerai a casa. A casa tua. Dalla tua famiglia. » Gli si
avvicinò. « Da qualsiasi cosa tu sia scappato, so che sei
abbastanza forte per affrontarlo. »
Una
volta aveva letto da qualche parte: Nulla
è più facile che illudersi, perché ciò che ogni
uomo desidera, crede anche che sia vero.
Lui
si era illuso.
Si
era illuso di potersi sottrarre ad un peso troppo grande, di poter essere un
altro, semplicemente fuggendo.
E
si era anche illuso di saperne di più di una bambina di dieci anni, che
una notte gli aveva parlato del crescere e del fatto che è giusto farlo
da soli, imparare a farlo un passo alla volta.
Ancora
una volta non disse niente, ma la bambina non sembrava volere una risposta.
Sorrideva, ora, come se avesse capito che lui
aveva capito.
«
Non dimenticarti di me, ragazzo senza nome. »
Si
sollevò sulle punte dei piedi. Con la spontaneità e la
naturalezza che solo i bambini possono avere, posò le labbra contro le
sue; quindi si ritrasse e corse via, fuori dal vicolo, sotto la pioggia.
Il
ragazzo non seppe mai per quanto tempo rimase lì a fissare la sua
finestra chiusa.
Il
giorno dopo, tornò alla Wammy’s House, e
tornò ad essere L.
*
Tic, ti-ti-tic,
tic, tic.
È
solo la tastiera del computer di Light Yagami a
riempire il silenzio, ora, mentre il detective continua a fissare Amane senza
muoversi.
La
ragazza si innervosisce vistosamente; non le piacciono mai i suoi silenzi,
è evidente – forse perché pensa che stia elaborando
chissà quale test psicologico per incastrare lei e il suo fidanzato,
mentre lui dal canto suo sta pensando a tutt’altro. Come in questo
preciso momento.
«
Ryuuzaki? La smetti di guardarmi in quel modo? Mi
rendi nervosa. »
Distoglie
lo sguardo. « Perdonami, Amane. Stavo riflettendo. »
«
Ma che scoperta. »
La
sente tornare a sedersi pesantemente sul divano, esasperata. Non se ne cura.
Il
ricordo, però, gli ha reso difficile concentrarsi.
Di
nuovo ignora le proteste di Light e stavolta tende le manette per riuscire ad
afferrare un pacchetto nella tasca posteriore dei jeans, cosa peraltro non
facile, data la posizione tutt’altro che rilassata delle sue gambe.
Quando vi riesce, apre il pacchetto con tutta calma e lo posiziona sul
bracciolo della poltrona, appena prima di udire l’esclamazione di
sorpresa di Amane.
Si
volta a guardarla sopra il biscotto che è già pronto ad
assaggiare.
Gli
occhi bruni di Misa vanno da lui agli Hello Panda con stupore, forse pensando al passato, senza
capire, mentre L osserva la sua bocca appena dischiusa e si chiede se quelle
labbra hanno ancora lo stesso sapore dei leccalecca alla ciliegia.
« Non
dimenticarti di me, ragazzo senza nome. »
{ Lei, invece, si è dimenticata di
lui }
Spazio (= stanza di manicomio) dell’autrice
Non so
assolutamente, nella maniera più totale, da dove mi sia venuta l’idea per scrivere quello che ho scritto.
o__ò
Ok,
ragioniamoci.
Amo L.
Amo pensare all’infanzia di L. Amo pensare che ad un certo punto della
sua adolescenza gli sia venuta voglia di mollare tutto, per il peso dei ricordi
e della sua condizione di genio non desiderata, perché in fondo è
un essere umano anche lui. Mmm. A questo punto
dovrebbe venire la parte in cui dico “Amo Misa.
Amo pensare all’infanzia di Misa”…
Ma non posso dirlo. Perché? Perché non è così! Misa non
è neanche tra i miei personaggi preferiti, diciamocelo.
Sta di
fatto che amo questo pairing sempre di più.
<3
E
così – in preda a non so quale sostanza abbia inavvertitamente
assunto – ho ipotizzato che lei ed L si fossero conosciuti da bambini,
che anche allora fossero terribilmente diversi, e che però in quel
contesto avrebbero potuto essere amici e forse persino qualcosa di più.
*-*
L’età,
lo ammetto, è stato un handicap ù__ù Con cinque anni di
differenza tra i due, non potevo inventarmi nulla di più romantico.
Anche perché, se Misa fosse stata abbastanza
grande, sarebbe stato innaturale poi che avesse dimenticato tutto; invece tra i
nove e i dieci anni è un’età comprensibile per vivere degli
affetti che sono sì sinceri, ma che poi possiamo dimenticarci facilmente
– specie quando si è fondamentalmente superficiali come Misa. :P Purtroppo questo ha fatto sì che L dovesse
avere quindici anni, ed è ovvio che nessun quindicenne – L per primo,
credo xD – andrebbe ad innamorarsi di una
bambina di dieci anni… Per questo ho mantenuto
la shot sul piano soft/sentimentale più che su
quello romantico.
Oh,
beh, sto ancora delirando. Bah, non so, l’idea mi piaceva, a voi il
giudizio.
Spero di
aver mantenuto l’IC… .__.
~ I
versi all’inizio della shot sono tratti dalla
canzone The man who
can’t be moved dei
The Script.
~ Ho
descritto la piccola Misa con i capelli scuri; questo
perché anche prima degli avvenimenti di Death Note, all’epoca del ritrovamento del quaderno di Jealous, Misa viene mostrata
nell’anime proprio con i capelli scuri. Il biondo è certamente una
tinta. xD
~ Gli Hello Panda esistono davvero. Mi sono informata su una
qualsiasi marca giapponese di dolciumi per il primissimo spot interpretato da Misa, e ho trovato questa. (Tra l’altro ho pensato
che fossero perfetti *-* L non è già un adorabile panda di suo?!)
Non è mia intenzione fare pubblicità, né appropriarmi di
un copyright non mio. Come spero sia chiaro a tutti, qualsiasi cosa viene
pubblicata su EFP non è a scopo di lucro.
~ La
citazione Nulla è più
facile che illudersi eccetera eccetera è
di Demostene. Idem con patate; rendiamo a Demostene ciò che è di
Demostene.
Tornerò
a scrivere al più presto, esami permettendo; perciò per ora ne approfitto
per salutare tutti i miei lettori, ringraziarli e assicurare loro che non sono
sparita (purtroppo per voi ^^) <3
Hope you
liked it.