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Autore: cabol    01/06/2010    1 recensioni
Un ladro del calibro di Blackwind e una potente gilda dei ladri inevitabilmente sarebbero giunti allo scontro. Così, la capitale della Repubblica di Elos viene sconvolta da una feroce guerra fra fazioni che potrebbe portare addirittura a sconvolgere l'assetto dello stato.
Contemporaneamente, un'assassina distrutta dal dolore cerca la vendetta contro chi le ha ucciso l'uomo che amava.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo Due

Pioggia.

Fitta.

Ossessionante come solo la pioggia può essere.

Ossessionante come il rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere.

Ossessionante come il ricordo di ciò che non è mai stato.

Pioggia.

Fredda.

Penetrante come solo la pioggia può essere.

Penetrante come il risveglio da un sogno mai sognato.

Penetrante come il pugnale di un sicario.

Pioggia.

Triste.

Avvolgente come un mantello di tenebra.

Avvolgente come un sudario di lacrime.

Avvolgente come la solitudine di chi ha perduto un amore mai vissuto.

Nella pioggerella fitta di una sera autunnale, una donna fuoriuscì dal dedalo di vicoli del porto. Incurante dell’acqua e degli sguardi dei pochi che si trovavano sulla banchina con quel tempo, camminò eretta e sicura fino al molo. Si fermò nei pressi di una bitta, lo sguardo perso sul mare plumbeo. Era bella, di una bellezza sensuale e crudele. Le sue forme flessuose erano esaltate dagli abiti fradici che le aderivano al corpo. I suoi capelli grondanti parevano un mantello di seta dorata. I suoi occhi tenebrosi parevano gioielli di luce oscura.

Aveva percorso con passo fermo le anguste e insidiose stradine, dove nessuna donna avrebbe osato avventurarsi da sola, ma nessuno aveva osato avvicinarsi a lei, neppure su quel molo deserto. Perché lei era più pericolosa della stragrande maggioranza delle minacce che i bassifondi di Elosbrand potessero nascondere. Era una delle più formidabili assassine della città e, quella sera, era decisamente di pessimo umore.

La gente la chiamava Oleandro Nero in omaggio alla sua bellezza e alla sua pericolosità, dal momento che solo pochi sapevano che il suo nome era Elenuial Fenandar. Non aveva mai avuto remore a troncare una vita, ed era diventata ciò che era per una scelta precisa. Perché un’orfana mezzelfa poteva solo essere una schiava o una prostituta. E lei non aveva voluto diventare né l’una né l’altra.

Dopo un’infanzia dura, trascorsa a servire in sordide taverne, l’adolescenza l’aveva vista fiorire ribelle e indomabile. Amante senz’amore di un assassino, ne aveva appreso le arti brutali, perfezionandosi fino a superarlo, lasciandolo ad affogare nel suo sangue. Aveva ucciso senza pietà né piacere, godendo solo del timore che incuteva a chiunque. Felice soltanto di non avere più paura. Fiera e illusa di bastare a se stessa. Concedendosi solo un riposo senza sogni. Vivendo senza speranza, fede o amicizia. Così era diventata l’Oleandro Nero, fiore bellissimo e mortale.

Due daghe affilate pendevano dai suoi fianchi sinuosi. Due armi che sapeva maneggiare con impressionante efficacia. Eppure, da mesi, quelle daghe non uscivano dai loro foderi, se non per essere pulite e curate. Da quando Elenuial Fenandar aveva fallito nell’assassinare un avversario che, anziché ucciderla, l’aveva lasciata andare, infiggendole nel cuore due occhi verdi che avevano raggiunto la sua anima. L’aveva odiato con tutta se stessa. Aveva desiderato ardentemente ucciderlo. Ma quando lo aveva avuto inerme in suo potere, aveva rinunciato a colpire. E non aveva più assassinato nessuno.

Guardava il mare, il cielo oppresso dalle nuvole color della tristezza. Guardava e vedeva due occhi che, sapeva, non sarebbe riuscita a dimenticare. Due occhi che non avrebbe più potuto rivedere.

Ebbe un moto di stizza, ripensando che le uniche ore di tregua dal maltempo erano servite a illuminare un funerale. Detestava gli Dei e i loro capricci.

Sedette sulla bitta accanto a lei, gli occhi persi nel buio del mare.

La sua mente vivace ripercorreva gli ultimi giorni e la rabbia montava sempre più nel suo cuore. Si malediceva per non aver capito prima.

I turbamenti nella gilda. Le minacce sussurrate. Il fermento per una grossa taglia. I tentativi di avvicinarla per offrirle di commettere un omicidio. Si maledisse per non aver neppure ascoltato quelle offerte. Avrebbe capito. Forse avrebbe potuto cambiare qualcosa.

Ma c’era un’altra ragione per la quale si malediceva.

Per non aver ricercato con più costanza quelle labbra che aveva assaporato solo una volta e che le erano rimaste nei sogni negati e nelle speranze rifiutate.

Lei era l’Oleandro Nero, l’assassina.

Un’assassina che ora non sapeva più uccidere.

Lei era Elenuial Fenandar. Una donna innamorata.

Una donna che aveva assistito al funerale del suo amore.

***

La sala dell’elegante palazzo del Lord Cancelliere era illuminata a giorno dalle torce infisse alle pareti, dagli splendidi lampadari e da meravigliosi globi di luce magica, un lusso che ben pochi potevano permettersi. Un’orchestrina suonava musiche alla moda, quasi tutte le ultime canzoni del bardo Alpiacel. Tutti i personaggi importanti di Elosbrand erano convenuti alla festa che Lord Boris Elucin aveva indetto per celebrare l’eliminazione del pericoloso bandito che aveva terrorizzato per anni la città. In realtà, spiccava l’assenza del noto armatore Irlentree e di lord Windström, un damerino che difficilmente mancava a certi eventi. Nel primo caso, l’assenza era certamente da attribuire alla nota simpatia dell’armatore per il ladro Blackwind, cui Irlentree attribuiva la liberazione dell’adorata figlia dalle grinfie di un trafficante senza scrupoli. Lord Bailey Windström risultava in viaggio d’affari ad Aglargond già da almeno una settimana, sicché era probabile che neppure sapesse del festoso evento.

Arel si aggirava nell’ampia sala un po’ spaesata. Era vestita con un abito di eleganza per lei inusuale, procuratole, chissà come, da Sigmund. Le venne da sorridere. L’aveva assurdamente convinta ad andare a teatro. Uno spettacolo idiota, del medesimo Alpiacel le cui melense canzoni echeggiavano per la sala, che rappresentava le persone medie tutte giovani, belle, ricche e sane, ed esaltava i valori della ricchezza e del successo. Secondo l’etica suggerita dall’autore, chi non sa approfittare delle occasioni della vita è un negletto degli dei. Era uscita di umore nero che era peggiorato scoprendo che i tre principali teatri della città appartenevano allo stesso impresario e mettevano in scena solo robaccia come quella. Infine, l’aveva trascinata a quella festa. Possibile che ci provasse ancora? Evidentemente, il lentigginoso bardo non poteva fare a meno di corteggiare ogni bella ragazza che incontrasse.

Per quanto Arel non si sentisse esattamente “bella”. Aveva un bel viso, questo sì, e forme interessantemente distribuite lungo i suoi sei piedi d’altezza. Ma era decisamente troppo muscolosa e si sentiva terribilmente goffa in quegli abiti ingombranti. In armatura sarebbe stata decisamente più a suo agio e, forse, si sarebbe sentita molto più attraente. Inoltre, il bardo era impegnato a suonare e cantare, sicché lei si era trovata da sola in mezzo a tutta quell’aristocrazia che la ignorava con cortese snobismo. Gente che non conosceva e per la quale nutriva scarsa simpatia, com’era naturale per chi era abituata a costruire la sua fortuna basandosi sulla propria spada invece di pagare qualcuno per farlo.

Si allontanò dal salone e recuperò la sua mantella per uscire su un terrazzino, in cerca di un po’ d’aria fresca, sebbene il tempo si fosse rimesso al brutto e dal pomeriggio una pioggerella fitta e insistente funestasse la città. Il terrazzino era deserto e si apriva sul parco della villa, dalla parte posteriore, nei pressi di un elegante padiglione dove lord Elucin probabilmente trattava i suoi affari nei caldi giorni d’estate.

Si affacciò alla balaustra, lasciando che i suoi occhi si perdessero nell’umida oscurità della notte. Rimase così per un po’. Poi decise di rientrare, ritenendo che l’umidità fosse diventata decisamente eccessiva. Con somma costernazione, si accorse che qualcuno doveva aver chiuso la porta che conduceva al terrazzo. Maledisse tutte quelle pavoncelle che si aggiravano per la sala. Nulla di strano che una di loro avesse chiesto di chiudere la porta perché infastidita dall’aria fredda che arrivava da fuori. Perché una, se era freddolosa, doveva andare seminuda a una festa in pieno autunno?

Si guardò intorno. Non c’era verso di rientrare. Provò a picchiare sulla porta ma nessuno l’udì o badò a lei. D’altronde, con la musica e il chiacchiericcio, avrebbe potuto sfondare la porta senza che nessuno se ne accorgesse. Accarezzò per un attimo l’idea, poi la scartò. Era al primo piano, sotto di lei il prato. Un salto da nulla per la giovane avventuriera. Scavalcò la balaustra e, un attimo dopo, atterrò sofficemente nel giardino. Non ebbe difficoltà a mantenere l’equilibrio, dunque riuscì a bagnarsi pochissimo, solo l’orlo della veste.

Ora basta. Riprendo le mie cose e me ne torno a casa.

«Dunque, tenete in pugno quasi tutta la città?». Una voce giovanile e decisamente irritata attrasse la sua attenzione.

«Potete tranquillamente dire tutta, capitano Tyron». Arel si rese conto che le voci provenivano dal padiglione. Quest’ultima era una voce più bassa, lievemente beffarda. Ovviamente, avrebbe dovuto allontanarsi con discrezione. Ovviamente non lo fece e rimase ad ascoltare.

«Non mi risulta di essere in vostro potere, milord».

«Perdonatemi capitano, mi sono espresso male. Io ho in pugno tutta la Elosbrand che conta».

«Come vi permettete!». Il giovane doveva essere montato su tutte le furie.

«Suvvia, non crederete che perda il mio tempo a occuparmi di un qualsiasi ufficiale della milizia? Voi obbedite a chi obbedisce a me». Il tono arrogante di quella voce fece prudere le mani alla ragazza. Che individuo odioso!

«Mi darete soddisfazione di queste parole! Anche se siete il lord Cancelliere …».

«Non siate ridicolo capitano. Divertitevi. Stasera non dovete pagare». Cancelliere? Quello era lord Boris Elucin? Quel capitano aveva del fegato!

«Se siete un uomo d’onore …».

«Io ho il potere, capitano. L’onore lo lascio volentieri alle persone dappoco come voi. Ora, perdonatemi ma il lord Tesoriere mi attende».

La ragazza fece appena in tempo a sparire dietro un cespuglio, quando la robusta e impettita figura del Cancelliere di Elosbrand fuoriuscì dal padiglione per dirigersi con ostentata sicurezza verso l’ingresso della villa. Un attimo dopo, il giovane ufficiale che Arel, quella stessa mattina, aveva notato al comando del picchetto di guardia alla bara del ladro, uscì con passo nervoso dal padiglione, dirigendosi verso il cancello per sparire nelle buie strade della città.

La ragazza rimase nell’ombra, perplessa. Da una parte avrebbe voluto parlare con l'ufficiale, dall'altra scoprire qualcosa di più su quell'arrogante lord Cancelliere. In realtà, aveva udito solo un frammento di una conversazione privata. Non era del tutto sicura che il giovane capitano avrebbe gradito saperlo. Quanto a lord Elucin, le pareva difficile ipotizzare di avvicinarlo ma, in fondo, lei era in casa sua, difficilmente le si sarebbe presentata un’altra occasione simile.

Si avviò a passo lento verso la porta del palazzo e rientrò nel salone della festa una buona decina di  minuti dopo il Cancelliere, per evitare che qualcuno notasse la coincidenza.

Per una buona mezzora, Arel si aggirò per la grande sala, cercando di avvicinarsi al padrone di casa senza dar troppo nell'occhio, sperando di carpire qualche altro frammento di conversazione. In realtà, si rese conto la ragazza, Elucin era molto difficile da accostare per via del cordone di zelanti guardie del corpo che lo circondavano continuamente. Ci fu solo un istante in cui la giovane riuscì ad arrivare a distanza di udito dal Cancelliere ma udì ben poco d'interessante. Piuttosto, avvertì un lieve prurito al naso, una sensazione che Arel provava solitamente in vicinanza di qualche manipolatore della  Magia. Era una delle tante espressioni di un curioso potere con cui conviveva da sempre, senza averlo mai espressamente cercato. Si guardò attorno, cercando di capire da dove proveniva quella sensazione ma non riuscì a identificare nessuno fra i numerosi cortigiani e guardaspalle che le stavano intorno. Dopo pochi istanti, il solito cordone di sicurezza si strinse, costringendola ad allontanarsi.

La sensazione di prurito si manifestò ancora due volte quella sera, ma Arel non avrebbe saputo dire da chi provenisse. Notò un anziano servitore che guardava con aria curiosa l'orlo ancora umido della sua veste, una giovanissima gentildonna che per due volte rischiò di versarle addosso il vino del quale sembrava aver bevuto ben più del consentito e un piccoletto, vestito da paggio, che si aggirava per la sala assicurandosi che vino e vivande non mancassero mai. Nessuno dei tre le pareva plausibile nel ruolo di un mago o uno stregone, sicché, scoraggiata, Arel decise di riprendere la strada di casa.

***

La giovane guerriera si rigirava sul suo giaciglio, senza trovare né riposo né sogni. Un dormiveglia fastidioso. Dalle imposte continuava a entrare un’umidità esasperante. Aprì un occhio. Dietro l’orecchio sinistro percepiva chiaramente la corrente d’aria impregnata di pioggia. Richiuse l’occhio e si avvolse meglio nella coperta.

Aprì entrambi gli occhi e, al chiarore delle braci dello scaldino, si alzò e ficcò un pugnale sotto l’imposta ballerina, un po’ perché la fermasse facendo da cuneo, un po’ per accoltellarla. Guardò il letto disfatto. Provò il desiderio di rovesciarlo.

Perché mai non riusciva a dormire, quella sera?

Sedette sul letto, cercando di scacciare il nervosismo montante. A parte tutto, rischiava che i suoi poteri psionici[8] potessero manifestarsi combinando qualche disastro prima che lei potesse rendersene conto. Erano un dono ma anche una fonte di apprensione continua.

Riepilogò la giornata. Due ore nel grande mercato della Piazza Antica, senza comprare assolutamente nulla. Un’ora al tempio di Mirpas. Frequentava troppi paladini, ultimamente. Un’ora e mezza a ripulire e mantenere in perfetta efficienza armi e armatura. Un pranzo svogliato con quel chiacchierone di Sigmund che poi l’aveva convinta a seguirlo a teatro e, infine, alla festa. In sostanza, un giorno buttato.

Il funerale.

Maledisse la curiosità che l’aveva condotta ad assistere alle esequie di uno sconosciuto. Quella faccenda le si era impressa nella mente. Chissà poi perché. Sebbene così giovane, aveva familiarità con la morte, un funerale non era certo qualcosa da impressionarla. Eppure quella cerimonia non voleva saperne di uscire dalla sua testa. Quando le prendeva così, l’unica cosa era assecondare il suo pensiero. Si rilassò e ripensò agli eventi.

Un ladro era stato ammazzato dalle guardie. E allora? Succedeva spesso. Il tempio era gremito di gente. Questo era già più strano. Da dove derivava tanta popolarità? Evidentemente, mentre lei era stata lontana dalla città, erano accadute parecchie cose. Comunque non era una questione da perderci il sonno.

L’assassina.

Quella donna l'aveva colpita. Aveva gli occhi lucidi. Non certo per essersi fatta sfuggire una vittima. Questo sì che l’aveva incuriosita. Perché una creatura crudele e spietata era così commossa? Aveva deposto un fiore sulla bara. Possibile che ci fosse un sentimento in una donna così? Si fermò. Ma poi cosa vuol dire una donna così? Rifletté che, tutto sommato, ne sapeva troppo poco per valutare correttamente le scelte che ne avevano fatto un'assassina. Aveva imparato a non lasciarsi guidare dai pregiudizi. Ammesso poi che si potesse dar credito alle parole di Sigmund. Comunque, concluse che le sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sull'Oleandro Nero.

Così come avrebbe voluto scambiare quattro chiacchiere con quel capitano che aveva avuto il coraggio di trattare a quel modo il lord Cancelliere, se non altro per capire cosa ci fosse di vero in quel che aveva udito.

Ecco.

Quei discorsi l’avevano colpita. L’assoluto disprezzo che Elucin manifestava per quanti lo circondavano. La sua sicumera. La sua ascesa irresistibile. Quel suo vantarsi di tenere in pugno tanta gente. Come poteva avere accumulato un simile potere in così poco tempo? Arel era stata via due anni, come poteva uno sconosciuto essere arrivato alle soglie del Senato in due anni? La giovane si rese conto di detestare quel tipo. Certa gente che si era fatta da sé, già che c’era, poteva anche farsi un po’ meglio.

Fra l’altro, in quella faccenda doveva entrarci anche un mago o uno stregone. Qualcuno che agiva all’ombra di Elucin e che non ci teneva a farsi identificare. Arel si chiedeva che ruolo potesse avere un incantatore in quella faccenda.

Tante domande.

Tanti eventi slegati fra loro.

Tanti misteri.

Finalmente, il sonno.


[8] Poteri magici innati
  
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