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Autore: cabol    04/06/2010    1 recensioni
Un ladro del calibro di Blackwind e una potente gilda dei ladri inevitabilmente sarebbero giunti allo scontro. Così, la capitale della Repubblica di Elos viene sconvolta da una feroce guerra fra fazioni che potrebbe portare addirittura a sconvolgere l'assetto dello stato.
Contemporaneamente, un'assassina distrutta dal dolore cerca la vendetta contro chi le ha ucciso l'uomo che amava.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo Sei

Un cavaliere dall'aspetto stanco svoltò la curva dell'antica strada lastricata e si soffermò a guardare corrucciato l’imponente sagoma della fortezza di Fortebraccio, stagliata sul profilo delle colline che fiancheggiavano l’antico percorso carovaniero. In genere, a quella vista, i viaggiatori diretti a Elosbrand si sentivano immancabilmente sollevati. Essere giunti là significava essersi ormai lasciati i pericoli alle spalle.

Borghy Elkanjuv, invece, provava una sensazione di grande fastidio. Sospirò e si rimise in marcia verso la locanda fortificata. In effetti, si stava annoiando a morte. Da quattro giorni stava aspettando che arrivasse quel maledetto Horace e l'inattività lo stava logorando.

La locanda di Fortebraccio era stata una roccaforte di fama sinistra per molti anni, finché i suoi occupanti, seguaci della dea della vendetta, non furono dispersi da un gruppo di valorosi avventurieri che la trasformarono in un albergo fortificato sulla strada commerciale tra Elosbrand e l’Impero di Ardor. Un asilo sicuro per quanti si trovavano a percorrere quella pista pericolosa. Insomma, esattamente il tipo di posto che lo mandava in bestia.

Aveva provato a fantasticare di come rapinare la locanda e i viaggiatori, ma si era reso conto che la faccenda era pressoché impossibile. Inoltre, da allora, aveva avuto l'impressione di essere guardato male dall'oste e dai camerieri. Detestava gli avventurieri a riposo.

L'unico svago che gli era rimasto era elaborare un piano per catturare quella ragazza che l'aveva ridicolizzato ed esposto ai rimproveri del mago. Aveva immaginato mille modi, uno più inverosimile dell'altro ma l'unica soluzione praticabile continuava a sembrargli quella che prevedeva il reclutamento di una decina di scagnozzi in modo da sopraffare quella pericolosa guerriera. Il bello di quei sogni era, ovviamente, quel che sarebbe seguito alla sua cattura.

Sospirò ancora e diresse la sua cavalcatura verso la strada sterrata che conduceva ai cancelli di Fortebraccio. Si era concesso una cavalcata, per vincere la noia, ma si era trattenuto fuori della locanda per più di quanto avesse previsto, ma sempre molto meno di quanto avrebbe desiderato.

Quando giunse in cima alla salita, sospirò nel vedere il grande cancello che pareva avere spalancato le fauci per inghiottirlo. Con animo profondamente rassegnato, attraversò il ponte levatoio e superò il portone.

Le mura possenti racchiudevano l'antico maschio della fortezza, trasformato in albergo, le stalle, un edificio moderno, adibito a caserma delle guardie che sorvegliavano la locanda, e un piccolo tempio dedicato a Sergaries.

Si accorse subito che qualcosa era cambiato. Nell'ampio cortile sostavano più carri di quando se ne era andato quella mattina e l'affaccendarsi degli stallieri gli indicò che una piccola carovana era arrivata proprio durante la sua assenza.

Immediatamente corse a informarsi su chi fossero i nuovi arrivati e, soprattutto, da dove fossero giunti. Le notizie lo riempirono di speranza. Un senso di gelo lo pervase quando gli riferirono che alcuni viaggiatori si erano fermati solo il minimo indispensabile per riprendere subito il viaggio verso la città. Se anche il suo obiettivo fosse stato fra quelli, Borghy poteva cominciare a scegliersi un pollaio.

In preda al panico, fece a tre per volta i gradini che conducevano all'ingresso della locanda.

La grande sala del castello era illuminata da numerose luci magiche, disposte in modo da non lasciare in ombra nessun angolo, e i tavoli imbanditi erano circondati da gente serena, se non sempre allegra. L'accurato servizio di sorveglianza rendeva le risse eventi assai infrequenti. Inoltre, la cucina era ottima e le camere pulite e spaziose, tanto che non era infrequente che alcuni viaggiatori prolungassero oltre il previsto il loro soggiorno per godere un po' di più di quella pace.

Borghy esaminò attentamente i nuovi arrivati e mancò poco che esultasse quando si accorse che la sua attesa era terminata.

Horace di Sirtir era un uomo sulla cinquantina, decisamente tendente alla pinguedine, dal colorito rubizzo e il naso a patata. Portava un’appariscente bandana viola dalla quale sfuggivano ciuffi di capelli un po' bianchi e un po' color paglia. Un uomo che sarebbe apparso assolutamente innocuo se non fosse stato per i suoi occhi brillanti e vivaci e le mani affusolate e agilissime. La sua abilità, quando alle prese con una serratura, aveva il fascino dell’arte. I suoi movimenti, lenti e goffi, lasciavano il posto alla danza delle sue dita e dei suoi strumenti. Nessuna serratura era in grado di resistergli, nessuna trappola, pure se magica, riusciva a fermarlo. Queste le credenziali che precedevano quel buffo ometto, seduto a un tavolo nel salone della locanda di Fortebraccio, intento a divorare un enorme piatto di arrosto. Il fatto che l'arrosto in questione fosse di tacchino, fece correre un brivido lungo la schiena deforme di Elkanjuv.

«Messer Horace?».

Lo scassinatore non alzò neppure gli occhi dal piatto per rispondere con una buffa voce di falsetto.

«Mai quando pranzo».

Il gobbo fece appello a tutta la sua pazienza, in questo aiutato anche dal pensiero del tacchino che il suo interlocutore stava spolpando con imperturbabile avidità.

«Non volevo disturbarvi ...».

La vocina flemmatica dell’uomo emerse da una coscia del volatile.

«Il che non toglie che ci stiate riuscendo benissimo. Volete avere la buona grazia di ripresentarvi quando avrò finito?».

A quel punto la riserva di autocontrollo di Elkanjuv terminò bruscamente.

«Ascoltami bene, ciccione ...».

Gli occhi dell'ometto lampeggiarono. Le sue mani si mossero rapidamente e una luce sfolgorante comparve dal nulla, abbagliando il suo interlocutore per poi sparire improvvisa. Un attimo dopo, una corta spada si era posata sulla gola del gobbo. Un sorriso maligno era comparso sulle labbra del grassone.

«Non sai che non c'è nessuno che può essere sempre un angelo? Ho un buon carattere ma non sopporto chi fa il furbo con me. Ora sparisci o ti sgozzo come un tacchino!». Nonostante le parole minacciose, la voce in falsetto non si era minimamente alterata. Al contrario, Elkanjuv era impallidito e si affrettò a correre ai ripari.

«Scusatemi messere … è solo che ho importanti comunicazioni per voi. Attenderò che abbiate finito». Indietreggiò finché non urtò contro un altro tavolo, sollevando le proteste di un avventore.

È anche un mago!!! Questo non me l’avevano detto!!!

Borghy Elkanjuv era furioso con se stesso. Stava rischiando seriamente di compromettere la sua missione e le conseguenze di un simile evento lo spaventavano. Aveva molta paura dei maghi perché i loro poteri erano qualcosa che lui non riusciva assolutamente a capire. E ora ne aveva uno che lo obbligava a convincerne un altro a fare una cosa che, evidentemente, non intendeva fare. Insomma, Elkanjuv si trovava a scegliere tra la padella e la brace.

Si sedette al suo posto col viso corrucciato, attendendo che quell'altro avesse finito il suo pasto. Per distrarsi prese a immaginare un modo di liberarsi del mago nero.

Si era quasi appisolato quando sentì che qualcosa di pesante e ansimante si era seduto vicino a lui. Aprì gli occhi guardando con diffidenza il suo pingue interlocutore.

«Avete finito, dunque?».

«Per ora sì. Riferitemi questo messaggio che vi sta bruciando la lingua». La voce dello straniero era assolutamente calma, come se nulla fosse accaduto. Evidentemente, quel tipo non era uso a portare rancore a lungo. Il gobbo ne fu rinfrancato.

«Siete atteso da qualcuno molto importante».

«Ma davvero? E chi sarebbe?». C'era una sottile vena d'ironia in quel grassone che urtò subito il suscettibile Borghy.

«Questo è qualcosa che non sono autorizzato a dirvi. Vi interessano diecimila monete d’oro?».

«Dipende. A dire la verità, il mio viaggio da queste parti sarebbe una specie di vacanza».

«Credo che la persona che desidera incontrarvi saprà convincervi a cambiare i vostri programmi».

«Dovrà essere molto convincente. Non sono uno che cambia idea facilmente, sapete». Borghy sapeva già di detestare quell'individuo.

«Beh, con lui non vi potrete permettere certe maniere. E con me lo avete potuto fare perché gli ordini erano di portarvi l’invito. Altrimenti …».

«Altrimenti mi avreste fatto vedere di cosa siete capace. Ne sono certo. Allora, per quando sarebbe questo invito?».

L'ironia non era materia che Borghy padroneggiasse bene, sicché rimase un attimo interdetto, senza capire bene cosa intendesse dire Horace.

«Bene, è proibito anche sapere quando? Per me, non se ne fa di nulla».

«No, no, messere! Sarebbe per domani sera, dopo cena». Veramente, l'appuntamento sarebbe stato per la sera del secondo giorno dopo l'arrivo di Horace ma Elkanjuv pensava che, se fosse riuscito ad anticipare di un giorno l'incontro, avrebbe acquisito meriti agli occhi di Sfi-Hak.

«Il che vorrebbe dire partire quasi subito. Dopo un simile viaggio? Voi siete impazzito!».

Non ci aveva pensato. Inoltre, come avrebbe fatto ad avvisare il mago dell'appuntamento anticipato? Forse era meglio lasciare le cose com'erano. Inoltre, il fatto di dovere riferire la notizia dell'arrivo di quel ciccione gli avrebbe dato una valida ragione per partire immediatamente da quella noia.

«Facciamo per dopodomani, allora, messere».

***

Arel aveva la sgradevole sensazione di essere seguita. La faccenda durava ormai da qualche giorno ma, nonostante la ragazza avesse tentato con vari stratagemmi di individuare, o almeno seminare, l'ignoto persecutore, la sensazione restava. Questo, unito al tempo uggioso degli ultimi giorni e all'inattività prolungata aveva influito assai negativamente sul suo umore.

Le strade della città, per quanto affollate, le parevano insolitamente cupe e ostili, i volti delle persone le parevano più anonimi del solito. Rimpiangeva le montagne e i grandi spazi aperti. Solo i ragazzini della casetta in periferia le rendevano un po' di allegria e la trattenevano dall’allontanarsi dalle mura cittadine. Si sentiva responsabile della loro sicurezza e del loro benessere. Eppure fu proprio un tardo pomeriggio mentre chiacchierava col piccolo Harry che, nel rievocare lo scontro col gobbo, scoprì come le sue sensazioni fossero fondate.

«Sei sicuro che quel tipo non si sia fatto più vivo?».

«Assolutamente, devi avergli messo addosso una fifa bestiale!».

«Stai attento che nessun tipo sospetto vi ronzi attorno. Eventualmente avvertimi». La giovane guerriera si era ormai affezionata sinceramente ai ragazzini. Assolutamente ricambiata, del resto.

«Ma certo che ti avverto! Sai, sei ancora meglio del vecchio Finn. Con te stiamo davvero bene».

Thomas irruppe nella conversazione con un sorriso raggiante sul visetto lentigginoso dal quale erano quasi scomparsi i segni delle percosse di Elkanjuv.

«Arel, perché non ci presenti la tua amica?».

«Quale?». La ragazza era alquanto sorpresa, dal momento che nessuna sua amica o alleata viveva più a Elosbrand.

«Quella che gira qui intorno ogni volta che arrivi! Ti protegge le spalle, vero?».

Immediatamente, Arel si mise in allarme. Dunque il misterioso pedinatore era una donna. La giovane si chiese chi mai poteva essere. Comunque sarebbe stato meglio non allarmare i bambini.

«In un certo senso … mi guarda le spalle, sì. C'è ancora, vero?».

«Poco fa era sotto l'arco del vinaio. È proprio una bella signora, con quei capelli d'oro».

Bionda. L'assassina o l'elfa che aveva visto al funerale di Blackwind? O qualcun’altra?

«Sai dirmi com'era vestita?».

«Portava un mantello nero col cappuccio alzato. Nell'ombra era quasi invisibile. È proprio brava, sai?».

E sì. Era proprio brava per esserle sfuggita per tanto tempo. Un brivido le percorse la schiena. Una così abile a pedinare la gente poteva davvero essere un'assassina micidiale. Proprio come l'Oleandro nero. Ma perché s'interessava di lei? Per ucciderla? No, perché ormai erano giorni che la stava seguendo e di occasioni per aggredirla ne doveva avere avute parecchie. Evidentemente c'era qualcos'altro. La ragazza decise che era tempo di fare la conoscenza con la misteriosa pedinatrice.

«Grazie, Thomas, sei delizioso e davvero in gamba».

Rimase ancora una mezzora a chiacchierare e scherzare con i ragazzini, poi uscì dalla casetta col sorriso sulle labbra e un piano ben delineato in mente.

Si allontanò tranquillamente per le strade e i vicoli, camminando con fare indolente, senza fretta, sperando che la sua inseguitrice non si accorgesse della trappola che intendeva tenderle. Gli ultimi bagliori di luce erano scomparsi quando Arel sbucò in una piazzetta nei pressi del porto. Ancora pochi metri e avrebbe potuto mettere in atto il suo piano. Una strana inquietudine la pervase. Improvvisamente, dall’oscurità di un portico emerse una figura alta e deforme seguita da un’altra ombra dalle spalle massicce. Da una strada e da un portone erano sbucati altri due individui minacciosi. Alcuni riflessi metallici indicarono che ognuno di quei tipi era armato. Arel capì immediatamente di essere in trappola.

Stavolta, il gobbo aveva portato i rinforzi.

  
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