Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Hoel    09/06/2010    9 recensioni
"Koukou tout le monde …
Si può?
Mi chiamo Camus (come il grande Albert !) Molinier e sì lo so, mostruosa allitterazione della “m”, tanto da valermi sia a casa, che a scuola il nomignolo di “Momus” con mio sommo chagrin, anche perché sembra più un appellativo da gatto, che da essere umano, non vi pare?
Ho diciassette anni e mezzo, quasi diciotto, e quest’anno sto felicemente veleggiando verso il sospirato bac littérature, [...] Bien, credo che possiamo incominciare, no? Spero di non avervi annoiato con questa mini presentazione del sottoscritto, ma sapete, espediente narrativo, giusto per chiarire che sì, sarò io a raccontarvi questo doloroso dramma."
***
Per ogni studente francese che si rispetti, il bac o bacalauréat è sinonimo di libertà, verso la vie folle degli universitari. L'unico problema è arrivarci, ché la strada è lunga e perigliosa; specie, se ci si mette di mezzo la famiglia, con dei fratelli a dir poco ... inaspettati!
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aquarius Camus, Gemini Kanon, Gemini Saga, Leo Aiolia, Scorpion Milo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




Koukou tous le monde!

Rieccomi qua con un nuovo capitolo! He- he, il titolo è già un programma, chissà di che cosa si tratterà …

A proposito, due piccole chicche per la storia: la prima, che i voti in Francia vanno a percentuali e la sufficienza, se non mi ricordo male, dev’essere proprio la metà, 50%.  La seconda, riguarda il rugby, per chi non lo pratichi o che comunque non ha famigliarità, ricordo che in questo sport non si può passare la palla ai compagni davanti, bensì a quelli dietro! Inoltre, più del calcio, questo gioco è in genere molto amato dai francesi e ogni città, che possa considerarsi tale ha la sua squadra. Infatti, anche Mont-de-Marsan ha la sua! Perché vi tampino con questa notizia? Ma perché fra poco si disputerà un piccolo match, che domande!

Ringrazio i miei lettori e i miei recensori, tutte sane scariche d’endorfina e d’entusiasmo!

A Kiki May: grazie per il consiglio culinario! Beh, forse un’idea simile era passata per la testa a Kanon, ma alas come faceva a spennare in tempo record il gallo, senza destar sospetti? Poveraccio, credo che abbia sofferto nel vederlo così sprecato. Sai, il seppellimento del gallo è un pochino ispirato ad un episodio della mia infanzia, quando mia cugina ed io facemmo morire d’infarto una quaglia, dopo averla rincorsa per tutto il giardino. Sinceramente fu traumatico: un attimo prima la quaglia correva, quello dopo era caduta stecchita. Senza che il nonno ci vedesse, buttammo il cadavere nel campo di mais. Mah, misteri. Intanto, il dolce ricordo mi diede lo spunto per la scena, solo in circostanze più divertenti e più sanguinolente! Sono poi contenta, che ti piaccia come stia evolvendo la relazione tra i due! Sai, cerco di entrare primo, il più possibile nella psiche dei maschi  e secondo, di rimanere un poco fedele a quello dei personaggi! Inoltre, temo di non essere tanto per il melenso, non ci riesco e non so se gioirne o strapparmi i capelli! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Clayre:  *si nasconde dal dito accusatore dietro alla gemella malvagia* uccidi lei, uccidi lei! È tutta colpa sua! È lei, che mi sussurra queste stramberie la notte, incitandomi poi di giorno a scriverle! Uh, mi fai arrossire, che sei divenuta dipendente dalla mia “famiglia” e figurati se ti darò la cura! Muahauhahauah! (gemella malvagia mode on)! E sì, credo che a Saga per Natale, gli dovremmo proprio regalare un set nuovo di coltelli, anche se temo, che non li utilizzerà per scopi culinari, come Kanon. Galli, la vostra ora e suonata! Quanto a Jean –François, lui era già destinato a morire, ma non ci abbandonerà del tutto, in avanti si scopriranno alcuni retroscena sul suo passato … (nota, sono seria, non sto scherzando) Tranquilla, Saga non va in seminario e Bogenschütze farà la sua comparsa molto presto! E per quel che riguarda Camus, beh, come al solito, è la vittima di quasi ogni complotto in questa storia e quello ordito dai fratelli è il più terribile di tutti! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Diane924:  Amen. *un minuto di silenzio* Sì, davvero leggi Dracula! Vale più di cento libri d’oggigiorno sui vampiri! L’avrò letto più di tre volte, ma ancora mi dà i brividi, come se fosse la prima! È semplicemente geniale! E già, Camus, dal punto di vista osé, non è un mostro d’intuizione, eh? Quanto alle sue unghie, la colpa è nuovamente di Milo, il delinquente! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Shiryu_ Shunrei: ciao! Benvenuta! Sono contentissima, che la storia di abbia divertito! Vuol dire, che ho fatto un buon lavoro, no? he – he, la verità su Rhada è finalmente saltata fuori, ma i casini sono appena incominciati! Infatti, dubito che la nonna sarà contenta, per motivi oscuri, che vedremo nei capitoli a venire! Grazie ancora per la recensione e continua a seguirmi! Ciao!

A Sagitta72: ehilàààààà! Uhm, già anch’io, sai, avrei un bel repertorio di cosette da fare, se mi trovassi Saga di notte vicino al letto, ma ovviamente senza il coltello! Sulla scena del salvataggio di Camus ci ho molto ragionato sopra, cercando un modo dolce e allo stesso tempo realistico di rappresentarlo. Sigh, lo so, sono una maniaca con un senso del romantico pari ad un bradipo in overdose di sonniferi … Saga, aspettami in manicomio, che ci consoliamo assieme! Ti piace allora come ho reso il loro rapporto tra fratelli? Ne sono contenta e grazie per i complimenti per la mia cura dei dettagli: è una delle mie – tante- manie, in quanto cerco di rendere attraverso essi, quello che le parole non dicono; infatti, mentre una frase può rispecchiare molto ambiguamente un concetto *sguardo complice fra noi due* i gesti, invece, sono spiazzanti nella loro sincerità: ad esempio, uno brusco può contraddire un’affermazione in apparenza dolcissima di un personaggio e via dicendo. Adoro creare queste piccole spie, anche per anticipare piccoli avvenimenti futuri. (La gemella malvagia si patpatta il petto, dichiarando fiera: “Tutta opera mia! Io l’ho plagiata!”)Però, Bogenschütze ha avuto un solo piccolo cameo  nella storia e tutti già a fantasticare su di lui! Oddio, il peso delle aspettative! Gemella malvagia, help! (Ouiiiiiiiiii! Vengo!) Grazie ancora per la recensione! Ciao!

Ad Eno: ciao! Benvenuta! Bene, bene, mi fa piacere apprendere che ti garba la mia storia e soprattutto, che ti abbia dato spunto per rivedere il francese! Mi raccomando, eh? Studiare una lingua è una fatica, ma una passeggiata nel dimenticarla! Grazie ancora per la recensione e continua a seguirmi! Ciao!

 

 Bien, non ho altro, per il momento, da dichiarare, solo buona lettura e buon – si spera – divertimento!

 

H.

***************************************************************************************

 

Nei ricordi lontani della mia infanzia, c’era una canzone in italiano, che Marin mi cantava sempre, intanto che si divertiva a travestirmi da principessa - trecce, pizzi e chiffon inclusi, senza dimenticarsi della coroncina kitch. Sebbene non soffrissi ancora d’arteriosclerosi, avevo decisamente (e forse volontariamente) rimosso il titolo di codesta canzone; tuttavia, mi sovvenne, nel preciso istante nel quale misi piede in classe, un suo passaggio, che faceva più o meno così:

Ma una notizia un po’ originale

non ha bisogno d’alcun giornale

come una freccia dall’arco scocca

vola veloce di bocca in bocca. [1]

 

E di fatti, prima ancora, che avessi avuto modo di finire di narrare a Shaka il racconto dell’incredibile e inaspettato fidanzamento di Maman, l’intera classe del lunedì m’investì dapprincipio con sguardi sorpresi e mascelle pendenti, per poi sciogliersi in piacevoli commenti pieni di maliziosa compassione, tipo che se avevo Valavitis in casa, avrei visto notte e giorno i sorci verdi. Beh, per quel che ne sapevo io, ancora questa peculiare specie d’animale non l’avevo notata dal vivo, però vero era, che ebbi l’immenso onore di assistere allo spettacolo di un fratello sonnambulo con tendenze omicida verso galli rompipalle.

Un po’ come Batman in stile Jack lo Squartatore, ecco.

Inoltre, non capivo il motivo, per il quale Shaka si ostinava a farmi indossare la sciarpa perfino in classe, dopo essersi assicurato più volte, che la macchia del giorno prima fosse ben celata dal fondotinta, abilmente soffiato alle ragazze in una clamorosa e ardita incursione nel loro bagno, dove sapevamo, da fonti attendibili, che le pulzelle tenevano i trucchi in comune.

A parte, quindi, il caloroso benvenuto di lunedì – quasi i miei compagni mi vedessero per la prima volta in tre anni di liceo – la mia vita scolastica non era cambiata più di tanto: i professori m’interrogavano; i camerades m’ignoravano, per poi pestarmi, come al solito, ad educazione fisica. Per fortuna, Shaka mi era spesso accanto, pronto a raccogliere con scopa e paletta i cocci del sottoscritto.

Gli unici due significativi mutamenti furono innanzitutto, la scheda finalmente piena della mensa e ci mettevo la mano sul fuoco che, in un modo o nell’altro, c’era sotto lo zampino di Kanon, il quale, prima di partire, si doveva essersi ben accertato, che consumassi almeno tre pasti al giorno. In secondo luogo, le continue e incessanti irruzioni di Aiolia in camera mia e di Shaka, con somma iniziale preoccupazione di quest’ultimo, ché non riusciva ancora a concepire l’idea, come una persona amante del silenzio cistercense, quale il sottoscritto, potesse sopravvivere anche solo a un giorno con quello scatenato in giro per casa, figurarsi ogni weekend. Gentilmente, gli ricordai che avevo in riserva altri tre caballeros, uno più fuori dell’altro.

 Non si stupì, stranamente, quando gli raccontai dell’episodio di Saga sonnambulo, anzi, mi rivelò, che, nel periodo in cui suo fratello Dhiren frequentava lo stesso anno dei gemelli, lui gli aveva rivelato di certe notti insonni, che toccavano sia a Kanon, che ai guardiani notturni, nel rincorrere per tutto il dormitorio il fuggitivo dormiente e che in un’occasione, l’avevano addirittura trovato nelle docce del bagno delle ragazze. Shaka sosteneva, però, che si trattava certamente di una leggenda metropolitana bella e buona; quanto a me, dopo aver assistito dal vivo alla visione di un Saga sonnambulo, armato di coltello e alla volta di galli da squartare, ecco, forse non avrei scartato tanto presto la possibilità, che quanto narrato fosse del tutto falso …

Così, fino a giovedì, i giorni trascorsero via nel loro usuale tram tram, senza grandi novità, finché non arrivarono  le fatidiche due ore d’inglese, durante le quali avrei rivisto Milo, dopo che quest’ultimo si era dileguato per quasi quattro giorni, peggio di un ninja. Il che mi pareva strano, in quanto suo fratello a momenti faceva fagotto e s’installava nella mia stanza: doveva essere un vizio di famiglia, quello d’insidiare le camere altrui …

Presi possesso del mio banco in ultima fila (dov’era scritto, che i secchioni debbano per forza essere relegati al primo?) e tirai fuori il libro e il quaderno, appuntandomi giù per iscritto, quale regalo avrei potuto fare l’indomani a Milo, visto che era il suo compleanno.

Un momento, prima che incominciate a bombardarmi di strane domande: no, non eravamo all’improvviso, per dono dello Spirito Santo, diventati pappa e ciccia, Qui e Quo! Solo che, tra i vertiginosi e sconclusionati monologhi interiori alla Molly Bloom [2] di Qua (a.k.a Aiolia), ero riuscito ad estrapolare l’informazione, che Quo compiva gli anni l’8 novembre -  che cadeva esattamente domani – di conseguenza, mi pareva carino, uhm no, meglio giusto, sì ecco, giusto presentargli un pensierino.

 Anche perché quando Maman – prima di partire per un viaggio in Italia di due settimane per conto del tour operator, con sommo dispiacere del povero M. Christophe - saputo che il  suo compleanno era di venerdì, gli aveva concesso di usare la casa per un’eventuale festa, Milo, stranamente, aveva rifiutato cortesemente, eppure con risolutezza allo stesso tempo.

“Hé, Ionesco, che scrivi? Le tue memorie?”, fu il saluto del sopracitato ragazzo, mentre appoggiava per terra la sua borsa a tracolla. Velocemente, chiusi il quaderno; non desideravo, che capisse che stavo pensando per iscritto quale regalo comprargli. “Respira normalmente: di qualsiasi cosa si tratti, non è mia intenzione leggerla!”, aggiunse, sedendosi accanto a me e compilando rapido gli esercizi d’inglese.

“Non hai terminato i compiti per le vacanze?”, gli domandai piano, rimproverandolo velatamente. “Avevi detto a Saga, che li avevi fatti tutti!”, ecco il vero motivo del mio tono scandalizzato.

“Embé? Gli ho mentito! Eddai Ionesco, via quella faccia da agente della buon costume in un club sadomaso di travestiti! Sono solo due esercizi, sai che roba!”, si giustificò Milo, appoggiando la matita, osservando soddisfatto il suo lavoro. Curioso, sbirciai le risposte: tutte corrette, però, le coquin!

 Boff, paresseux d’un scorpion! Pigrone!, sbuffai, ficcandomi il tappo della penna in bocca, masticandolo come antistress.

“Adesso, sei tu quello che soffre di flatulenze mattutine”, mi ricordò maligno il giovane, utilizzando le stesse parole, con le quali lo avevo definito una settimana fa.

E siccome non era mio desiderio discutere sulle mie funzioni digestive – specie a qualche ora dal prossimo pasto – decisi di cambiare in fretta discorso, domandandogli con neutra curiosità: “Senti … uhm … per domani … ehm … c-cheprogettihai?”, sbrodolai ignobilmente; il mio volto rosso acceso che si mimetizzava a meraviglia con i miei capelli, tanto da formare un tutt’uno.

Nonostante il sorriso carnivoro sfiorasse le labbra di Milo, com’era suo solito, quando si apprestava a ribattere, non mi sfuggì il leggero spasmo alla mano, che gli fece cadere la matita, che stava precedentemente roteando tra le lunghe dita. “Mi stai chiedendo un appuntamento, Ionesco?”

“Cosa?”, chiesi violaceo, enfatizzando le vocali, fino a slogarmi la mandibola. “Certo che no!”

“Ovvio!”, dichiarò lui, fissandomi furbescamente di sottecchi. “La Vierge Marie Camus non può permettersi di perdere la sua virtù prima dell’arrivo dello Spirito Santo!”

“Blasfemo!”, lo rimbrottai, mentre trascrivevo le note dalla lavagna; le gote così bollenti, che potevo cucinarvi sopra un uovo all’occhio di bue. “Eppoi, dubito che un démon lubrique come te, possa avere delle …”, m’interruppi bruscamente, quando percepii la mano di Milo sulla mia, mentre lui me la guidava sornione, correggendomi un vocabolo d’inglese.

Accommodation, va con due “m”! Flûte, sei un bel testardo, sai? Tre anni e ancora lo stesso errore!”, soffiò divertito, intrecciando le nostre dita e provocandomi a momenti una panne totale, per aver osato ricordarmi il mio unico tallone d’Achille in inglese: come le anatre di Lorenz, avevo avuto il cattivo imprinting della parola con una sola “m” e cavolo se era difficile liberarsene! Uffa anche a lui, non occorreva infierire! “E in quasi dodici anni di scuola, ancora non hai imparato a caricare correttamente la penna stilografica! Mai sentito parlare della biro?”, aggiunse, accarezzandomi leggermente la pelle perennemente sporca d’inchiostro. A mia discolpa, andava detto, che non era imbranataggine da parte mia, bensì un piccolo feticismo: ebbene sì, adoravo sentire l’inchiostro macchiarmi la cute.

“Vuoi sentire la lista di tutte le cose, che tu non hai imparato a scuola?”, replicai gelido, fuggendo stizzito il contatto tra le nostre mani appena in tempo, ché la campanella – sempre il leitmotiv dell’Esorcista, perché? – suonò, annunciando il prossimo arrivo della lettrice.

Confidando che ci avrebbe lasciati assieme come coppia, feci per riprendere il discorso interrotto, quand’ecco che l’ombra funesta di Ms. Power ci oscurò il sole, intimando a Milo di levare l’ancora, per andare a discutere con un altro compagno. Se la donna avesse proposto tale cambiamento una settimana fa, sarei corso a piedi a Lourdes a gridare al miracolo; invece, una sconosciuta malinconia mi assalì nel vedere Milo alzarsi e sedersi accanto a un camarade.

E un sordo ringhio attorcigliò il mio stomaco, nell’osservarlo ridere con il detto morto – che – camminava.

 

***

 

Il nodo al ventre non si sciolse neppure a pranzo, costringendomi a servirmi – abbondantemente - di solo purè, essendo, infatti, schifato dall’idea di prendere qualcos’altro. Tanto Kanon e Saga – il primo soprattutto - non c’erano a controllarmi; Milo se ne fregava; l’unico che poteva costituire un problema era Aiolia, ma lui non lo vedevo in circolazione …

Sfido, perché era già seduto al tavolo con Shaka, tormentandolo con Dio sapeva quali discorsi, che però il mio amico non sembrava sgradire, o forse era più bravo di me nella raffinata arte della dissimulazione.

“Namasté Momus!”, mi salutò gioviale come al solito e delle volte mi chiedevo, se il latte di suo madre fosse stato alterato con un tasso eccessivo d’endorfine. O d’ouzo.“Stavo giusto raccontando a Shaka, che oggi a educazione fisica, invece dello sport, abbiamo provato lo yoga e che il sadico professore, ci ha pure valutato per ogni posizione!”

Ah, ecco dunque il motivo del saluto in hindi! Ed anche per il quale Shaka lo stava ascoltando, quasi divertito, oserei dire.

“Davvero?”

“Sì e per poco non rimanevo secco, quando mi hanno costretto  ad eseguire la … la Shirsasana? Insomma, a testa in giù, col peso tutto su di un triangolo formato dalla testa e dalle braccia! Flûte, il professore doveva darmi minimo 80% solo per essermi sottoposto a quella follia!”, si sfogò il ragazzo, artigliando una patatina dal piatto di Shaka con una rattezza invidiabile alla lingua di un’iguana.

“Non ti è andata bene?”, chiesi piano, memore della vecchia legge dello studente: se un alunno si lamentava di un professore, era perché quest’ultimo gli aveva appioppato un voto non del tutto gradito.

Invece, Aiolia strinse le spalle, per nulla toccato. “Nah, in totale ho preso una media del 77,5%. Avrei avuto di più, ma mi son fregato proprio in quella diavolo d’una Shirsasana: 63% , guarda un po’ te. Par contre, il professore mi ha dato 100% nell’ultima posizione, la Shavasana!”

“Che sarebbe?”

“La posizione del cadavere!”, tradusse Shaka, nascondendo il viso dietro il bicchiere per impedirmi di vedere, che se la stava ridendo alla grossa, atteggiamento che cozzava con la sua proverbiale imperturbabilità.

 O menefreghismo, chissà.

“E ci credo!”, convenne Aiolia con vivacità “dopo aver sopportato l’intera serie Rishikesh, mi sentivo come un istrice investito da una jeep!”

“Appunto cadavere!”

“Esatto! Ma la parte più divertente”, proseguì, arruffandosi ulteriormente i capelli indiavolati dai vari esercizi in palestra nell’ora prima “è stata, quando abbiamo provato – Shaka non volermene – il Pratyahara!”

“Sarebbe una sorta di meditazione distesi, durante la quale tu distacchi la tua attenzione dall’esterno, verso l’interno!”, mi venne in soccorso l’indiano, congedandosi accigliato dall’ennesima patatina soffiatagli da Aiolia l’iguana.

“Capisco. Perché?”

“Mi sono addormentato di brutto …”, confessò ridendo il ragazzo, continuando a mo’ di scusa, dopo aver intravisto di sfuggita l’occhiata assassina di uno scandalizzato Shaka. “Non so come sia potuto accadere: il prof stava parlando del colore viola del mio ventre, quando … puff! Sognavo Eva Green in vasca da bagno!” e ci sciogliemmo tutti e tre in una grassa risata – Shaka un po’ meno -  immaginando un ronfante Aiolia sul materassino in palestra, lingua fuori e bavette inclusa.

“Beh, sempre meglio lo yoga, che il rugby …”, riprese tossicchiando il mio amico,  un poco  sconsolato di essere forse l’unico dell’intero istituto a pensarla in quel modo. “Inoltre è fondamentale per … La vuoi smettere di fregarmi le patatine?”, sbuffò, appoggiando il bicchiere bruscamente sul tavolo.

“Uhm?”, fece il mio fratellastro innocentino. “Guarda che lo sto facendo per il tuo bene, sai? Il prof di religione ci ha spiegato, che se un indiano mangia una patatina fritta, nella prossima vita si reincarnerà in uno stercoraro!  E Shaka, io ti voglio troppo bene, per permettere tale atrocità!” e gli sfoderò il suo sorriso più seducente, cui il mio amico replicò per nulla ammansito, controllando l’orologio:

“Sono quasi le tre: non hai lezione, fra poco?”, gli ricordò, sapendo che la professoressa di chimica mal tollerava i ritardatari. Eh, fortuna, che non avevo quella materia! E quell’insegnante: voci indiscrete la descrivevano come una belva sanguinaria, incattivita dalla menopausa e dalla cellulite.

“Eh no!”, annunciò il ragazzo, gongolando, le mani dietro alla nuca. “Alla fine la malattia è riuscita a colpire anche quella specie geneticamente modificata, altresì nota come professori! La mia di chimica è moribonda e ho il pomeriggio libero!”

“Che spero sfrutterai per prenderti avanti con le lezioni!”

“Hey, Momus, non parlare come Sasà, lui mi è bastato!”, fischiò Aiolia, per nulla intrigato dall’idea di passare un pomeriggio assolato – miracolo! - di novembre rintanato in biblioteca. “Invece, mi piacerebbe assistere a una vostra lezione di educazione fisica!”

Per poco la cucchiaiata di purè non mi andò di traverso: cosa? Aiolia voleva seriamente presenziare al mio pubblico e umiliante massacro? “Nah, non ti perdi niente … è … è solo una stupida partita a rugby!”, tentai di scoraggiarlo: meno testimoni avevo del mio martirio, più mi sentivo contento.

“Tanto meglio! Anch’io gioco a rugby, ricordi?”

No, me l’ero completamente scordato!

“Ehm, no davvero … non ti disturbare, non c’è niente d’interessante da vedere …”, provai a contrattare, anche se ormai dovevo arrendermi all’evidenza, che tutti i fratelli Valavitis possedevano un’invidiabile testa dura, peggio delle statue di Egina.

“Sì Aiolia, nulla da vedere, a parte Momus ridotto a crêpe suzette!”

“Invece”, cambiai bruscamente discorso, non sentendomela di descrivere al mio giovane fratellastro le mie imbarazzanti performance sportive “hai per caso una vaga idea, di dove possa essere Milo?” , chiesi con sincera apprensione (non era da lui saltare i pasti) e rimasi sorpreso, nel vedere all’improvviso il sorriso morire sulle labbra di Aiolia, che il ragazzo tentò di riprendere, non senza, però, un certo sforzo da parte sua, tra un colpetto di tosse e l’altro.

“Non ti preoccupare per lui”, rispose lentamente, troppo lentamente per quel vivace chiacchierone qual era “il giorno prima del suo compleanno, Milo diventa più insopportabile e bisbetico di una suocera vergine!”

“Ma è impossibile!”, commentò interdetto Shaka, mentre sistemava i vassoi, per riporli sul carrello.

“Già, come Milo!”, convenne Aiolia, annuendo, ficcandosi in bocca l’ultima patatina fritta. Poi, ritornò al suo solito umore pestifero e mi chiese euforico: “Allora, posso venire?”

***

 

Se c’era una cosa, che avevo imparato nel corso della mia giovane esistenza, era che non si poteva avere la botte piena e la moglie ubriaca, così come non si poteva avere una media di 9cough, cough% senza una media altrettanto notevole in educazione fisica.

Quindi, in base alla dura legge del do ut des, toccava sacrificarmi all’altare di un buon curriculum, giocando spossanti partite al massacr- ehm di rugby, durante le quali tutta la frustrazione dei miei compagni veniva sfogata in dolorosi placcaggi e seppellimenti del sottoscritto, che ormai aveva l’abbonamento annuale all’infermeria e un the gratis con l’infermiera, la fonte primaria di tutti i gossip dell’istituto: se si desiderava avere qualche informazione su qualsiasi cosa o persona legata ad esso, una buona chiacchieratina con Madame Bonnet valeva più di tutti i pettegolezzi dell’intero dormitorio femminile.

He, mi era proprio indigesto il rugby, specie quando si univano al nostro gioco anche le altre classi (oltre al campo, l’istituto possedeva una vasta palestra, la quale poteva raccogliere due classi con comodo, anche tre volendo). In quel frangente, i professori se la raccontavano serafici, mentre i rispettivi alunni si pestavano tranquillamente, peggio dei gosses dell’asilo.

Quel giorno non fu da meno: la professoressa di un’altra classe, ci propose un’amichevole, ottima occasione per i meno entusiasti della nostra di ritirarsi in piacevoli conversazioni, lasciando liberi di sfogarsi i più bravi, i più competitivi, i più kamikaze.

E come nessuno se la sentiva di fare l’arbitro e rinunciare alla sua chiacchieratina, Aiolia sbucò dal nulla come una margherita, offrendosi volontario e alle proteste di favoreggiamento – Milo quel giorno si era degnato di scendere in campo – il ragazzo sfoderò il sorriso carnivoro dei Valavitis, dichiarando: “Ah, non vi preoccupate: sarò intransigente … come Robespierre!”, e una certa ansia s’insinuò tra i giocatori, non sapendo se lui si riferiva al lato eroico del giacobino – altresì noto appunto come l’Intransigente - o alla sua fama di spietato tagliatore di teste.

Il ruggito del fischietto fendette l’aria autunnale e si scatenò un inferno tra urla concitate, lamenti, imprecazioni e incoraggiamenti da parte degli spettatori, inferno cui assistetti in panchina per tutto il “primo tempo”, ovvero finché un povero disgraziato si metteva a supplicare di essere sostituito, dopo un placcaggio di troppo. E poiché nessuno dava la sua disponibilità di propria spontanea iniziativa, il professore – sadicamente – mi disse: “Forza Molinier, esci fuori volontario!”, appello cui dovetti rispondere, scendendo in campo come un martire cristiano nell’arena.

Sentii un grugnito di disapprovazione tra i miei compagni: il nostro vantaggio era di appena due mete e non se la sentivano di perdere la faccia con una classe di seconda liceo, noi che eravamo la terminal, a causa mia, nonostante m’impegnassi seriamente.

L’inaspettato abbraccio di Milo alle spalle mi distrasse dalle occhiate non proprio amichevoli degli altri giocatori della nostra squadra. “Ionesco”, mi sussurrò all’orecchio, la mano dalle nocche sbucciate ben stretta sul mio arto, “ti voglio a discreta distanza da me, capito? Abbastanza vicino da prendere un passaggio, ma allo stesso tempo lontano quel giusto solo dall’idea di un tuo eventuale placcaggio. Perché alla prima occasione, che ti passo lo palla, tu ti metti a correre a tutt’allé, come se avessi alle calcagna un demonio infoiato, bramoso della tua verginità!”

Wow, poetico!

Annuii piano, consolato almeno in parte dalla prospettiva di non essere nell’occhio del ciclone, per il momento. Quindi, come suggeritomi pittorescamente da Milo, gli stetti buono buono dietro senza dare troppo nell’occhio, il che era la mia specialità, anche perché la praticavo quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. E mentre rimanevo pressoché in disparte dall’azione, con la scusa di seguirlo ebbi modo di osservare un’insolita aggressività nel gioco di Milo, lui che, almeno nel contesto sportivo, era sempre stato per il fair play. Quasi si stesse sfogando a causa di un qualche suo intimo cruccio …

Un brutto fallaccio contro un nostro compagno interruppe l’azione, buttando la palla fuori dall’area di gioco e nacque un’accesa discussione tra l’arbitro e i giocatori, su quale delle due squadre avrebbe dovuto battere la rimessa in gioco. Stufo di sentirsi dare – ingiustamente – del venduto, Aiolia descrisse senza mezzi termini ai contestatori, che uso raffinato, avrebbe fatto dell’ovale pallone sulla loro persona, se avessero protestato oltre. Dopo aver, quindi, calmato i bollenti spiriti, ci disponemmo in fila davanti alla squadra avversaria  e non mi piacque, che Milo si mise accanto a me e i miei sospetti vennero confermati, quando, lanciata la palla in mezzo ai due schieramenti, il ragazzo mi sollevò in alto come un bébé, per permettermi d’afferrarla, il che avvenne, solo che mi ritrovai in un nanosecondo pressato contro i miei avversari, intenti a spingermi indietro e a sfilarmi il pallone, che stringevo a dir poco possessivamente.

Cessai d’un tratto d’indietreggiare, scoprendo che Milo mi aveva bloccato con le braccia, per poi ricambiare la spinta degli avversari, facendomi invece avanzare. In soccorso, vennero Shura e i compagni, pigiando con forza alla pressione dell’altra squadra, come se fossimo due cervi in un combattimento. Quanto al sottoscritto, eletto ad ariete per sfondare la difesa avversaria, mi trovavo in precario equilibrio, anche perché non ero esattamente imponente dal punto di vista fisico; così, prima di finire a terra con dieci e più persone sul groppo, pian piano mi voltai, in modo da poter guardare in faccia Milo, i cui occhi turchesi brillarono terribili, non appena afferrò l’intenzione del mio gesto e di fatti, gli cedetti alla prima occasione la palla, che lui passò indietro a Shura, che la diede al compagno più lontano, onde sfruttare il corridoio liberato da quella massiccia mischia, che avevamo creato e che si sciolse rapidamente, lasciandoci liberi per rincorrere il nostro giocatore.

 Ma prima che potessero placcarlo, mollò il pallone a Shura, che abilmente non solo riuscì a guadagnare notevole terreno, ma anche di sbarazzarsi correndo del proprio placcatore, prima di passare dietro la palla a Milo, il quale, anticipò l’avversario liberandosi di essa, che finì nelle mani del sottoscritto.

Quasi avessi le ali ai piedi, complice la massa di bovini scatenati alle calcagna, incominciai a correre a tutto spiano, terrorizzato dall’idea di essere bloccato da quei bruti, com’era di routine. Allora, cercai con lo sguardo dei compagni dietro di me cui passare la palla, ma erano tutti davanti e non ebbi altra scelta, che avanzare mio malgrado. Tuttavia, l’appropinquarsi della meta m’investì di un’inebriante scarica d’adrenalina e la prospettiva di segnare per la prima volta in tre anni di liceo si delineò nettamente nella mia mente.

Sì, avrei fatto punto, il professore mi avrebbe elargito un bel voto e nessuno mi avrebbe più ridotto a crêpe suzette! Vaffanculo, devo fare meta! Addio, stupido 79,99%! Evviva 80! Prends ça!, pensai gasato, mentre mi tuffavo per terra, riuscendo finalmente nell’impresa!

Prima però, che potessi gioire assieme ai miei compagni dei punti appena conquistati, sentii l’allarmato ululato di Aiolia: “Momuuuuuuuuuuusssssss!” e poi il sole si oscurò, diventando tutto nero e orribilmente pesante.

 No, l’avevano fatto ancora!

“Via, via, ché lo spiaccicate! Via ho detto!”, ringhiava Milo, tirando i miei oppressori – nel vero senso fisico della parola – per la maglietta, rimettendoli in piedi poco elegantemente. “Hey, Ionesco, Ionesco!”, mi chiamava schiaffeggiandomi leggermente, dopo avermi rigirato in posizione supina.

“Gueh …”

“Come va?”, mi chiese, aiutandomi ad alzarmi, operazione non facile, visto che i muscoli delle mie gambe mi avevano disertato. “Visto, che significa pesare un kilo e uno sputo?”, mi rimproverò, riacchiappandomi appena in tempo, prima che ripiombassi col sedere sull’erba.

“Non incominciare anche tu …”, borbottai, aggrappandomi forte al suo braccio e seguendolo docilmente. “Hey, ma dove mi porti?”, chiesi ad un tratto, notando che non stavamo affatto camminando in direzione dello spogliatoio.

“In infermeria!”, rispose laconico Milo, stringendo la stretta, anticipando forse il mio successivo rifiuto e quando esso avvenne puntualmente, mi ordinò secco: “Stai zitto, Ionesco: è la cosa che sai fare meglio!”

“Boff, se lo dici tu …”, replicai imbronciato, mandandolo a mente a quel paese con grande trasporto, mentre Milo mi portava imperterrito in suddetto luogo come una mamma gatto, che prendeva il proprio cucciolo per la pelle del collo.

 

Arrivati in infermeria e salutata la Madame, Milo mi buttò poco cerimoniosamente sul letto, alzandomi con la stessa eleganza la maglietta, nonostante le mie vivaci proteste e solo alla vista del cotone e del disinfettante nelle sue mani, capii che i fini del ragazzo erano curativi e non lubrique.

“Ti sei lanciato male e, cadendo, ti sei procurato un bello sbrego al fianco”, mi spiegò incolore, gli occhi fissi sulla sua occupazione e la mano libera ben salda sul mio addome, onde tenermi fermo. Terminato di torturarmi con il disinfettante, mi applicò sopra un cerottone, coprendomi poi con la maglietta.

“Grazie”, feci riconoscente, mettendomi seduto sul lettino e rimanendo un poco deluso, quando il ragazzo non rispose, rimanendosene, invece, in silenzio, lo sguardo posato sull’indumento sporco di terra. Umettandomi le labbra, ripresi l’argomento interrotto dalla lettrice d’inglese, sperando che un luogo più appartato come l’infermeria lo incoraggiasse a parlare. “Allora … ehm … che fai domani?”

“Sei peggio del Piccolo Principe, non rinunci mai ad una domanda una volta postala, eh?”, replicò Milo sorridendo tra sé e sé.  “Vado a lezione”, aggiunse più docilmente, stringendo le spalle, sempre senza guardarmi in faccia.

“E al pomeriggio?”

“Niente.”

“Sicuro?”

“Sì, non festeggio mai il mio compleanno” e si morse il labbro inferiore, temendo di aver rivelato troppo.

Decisamente il suo umore era peggiorato rispetto alla mattina e le laconiche risposte m’indussero a zittirmi, rispettando il suo silenzio, stupito inoltre da quella sua eccentricità: non festeggiava mai il suo compleanno? Perché? Neppure un semi- asociale come il sottoscritto arrivava a tanto, insomma, uscivo con Shaka e gli offrivo una cioccolata calda con dolci. “Tu invece?”, domandò inaspettatamente il ragazzo, puntandomi contro i suoi occhi turchesi.

“Questo pomeriggio esco”, dissi vagamente, insomma non potevo certo spifferargli la mia intenzione di comprargli un regalo, o no? Anche se non faceva la festa, comunque gli avrebbe recato piacere un presente, giusto?

“Con chi?”, proseguì e giurai d’aver sentito un’inflessione d’aggressività nella sua voce, ma non ci badai più di tanto, essendo, alas, abituato ai suoi toni scontrosi nei miei confronti.

“Mais enfin, con nessuno! Devo solo … comprare un po’ di cancelleria, ecco!”, nicchiai, fissandomi colpevole le unghie ancora sporche di smalto rosso e nascondendo così il mio volto dalla sua occhiata inquisitrice.

“Vuoi che ti accompagni?”, fu la sua proposta choc: da quando tutta quella disponibilità?

“No!”, risposi fin troppo in fretta, attorcigliandomi a disagio le dita, e, pregando che il ragazzo non avesse mangiato la foglia, aggiunsi in uno sbrodolo di scuse: “Non disturbarti … ehm, vado e …”

“Come vuoi, ho capito!”, m’interruppe bruscamente Milo, alzandosi con veemenza dalla sedia. “Vai pure, non ti trattengo. Bada solo di ritornare prima del coprifuoco!” e se ne uscì sbattendo la porta, ché pareva volerla buttare giù.

Ma che gli prendeva?

***

 

Il giorno successivo, l’8 novembre, presi il pacchettino del regalo e, dopo due o tre profondi respiri, mi diressi nella camera di Milo, ripetendo mentalmente il mini discorso, che la sera precedente mi ero accuratamente preparato.

Bussai piano alla porta, in caso stesse ancora dormendo – dalle informazioni di Aiolia, avevo capito, che Milo il venerdì non aveva lezione fino alle 10 – e solo al terzo battito, sentii la sua voce accordarmi il permesso di entrare.

Trovai il ragazzo di spalle e seduto alla scrivania, intento a ripassare la lezione del giorno e quando si voltò, notai che aveva lo stesso volto pallido e tirato del fratello maggiore, dopo una nottata in bianco per colpa del gallo. Inoltre, sul suo comodino, accanto ad una copia ben vissuta di 1984 di Orwell, vidi un elaborato mazzo di fiori, il cui profumo riempiva delicatamente la stanza.

“Me li ha dati Shura: sua madre è fioraia, me li porta ogni anno”, rispose meccanicamente Milo, quando si accorse dove avevo posato lo sguardo.

“Sono molto belli”, commentai sinceramente, un poco sorpreso sia dalla grandezza del mazzo – a mio parere un po’ esagerato, comunque – e dal genere di regalo: enfin, anche a me i fiori piacevano, però, li associavo sempre al cimitero, portavano un po’ di tristezza. “Sono per il tuo compleanno, vero?”

“No”, fu la secca replica di Milo, alzandosi in piedi e avvicinandosi a me con un paio di chiavi in mano. “Stamane mon Papa mi ha chiamato, avvertendomi di un congresso per i prossimi tre giorni a Bordeaux e siccome il venerdì finiamo tutti a mezzogiorno e tua nonna non può venirci a prendere prima delle sei, lui ha messo a disposizione la vecchia casa, per lì recarci e aspettare la nonna.”

“Non andiamo assieme?”, chiesi a bruciapelo senza riflettere, intuendo il significato recondito dietro alla cessione della chiave: a che serviva darmi un doppione, se entravamo tutti e tre?

“No, ho da fare questo pomeriggio”, altra risposta breve e laconica. A quanto pareva, oggi Milo non era di umore festaiolo, nonostante fosse il suo compleanno e sinceramente era la prima volta, che assistevo a così poco entusiasmo per tal evento in una persona! Neppure Mamie, che soffriva nel vedersi ricordare annualmente di aver superato gli – anta. “E Aiolia viene con me”, aggiunse, anticipando la mia prossima domanda.

Un fastidioso groppo in gola m’impedì di formulare una qualsiasi forma di replica, limitandomi ad abbassare il capo e rigirare stupidamente la chiave tra le dita.  E fu da una parte una fortuna, ché mi fermò dal rinfacciargli la scortesia, di lasciarmi tutto il pomeriggio in casa, solo come un cane e io in primis mi stupii di questa mia reazione, io, che da sempre intrattenevo un’ottima relazione con la solitudine, peggio di marito e moglie.

“Camus?”, mi chiamò piano Milo, la testa leggermente inclinata, onde cogliere gli occhi, che gli celavo gelosamente.

Respirando a fondo, alzai di scatto il capo e, sorridendogli meglio che potei, gli dissi: “Ho capito, grazie di avermi avvertito! Allora, ci … ci vediamo a casa …”

Milo non sembrò molto convinto della mia performance d’attore, tuttavia non replicò, girandosi invece verso la scrivania e raccogliendo le sue cose nella borsa e mentre era impegnato nella sua occupazione, ne approfittai per appoggiare nell’angolino più nascosto del comodino il mio regalo, in una sorta di masochistica ordalia: se l’avesse trovato, allora un pochino a me ci teneva; al contrario, avrei avuto la certezza di essergli del tutto indifferente. Ragionamento un po’ strano, però, ora che eravamo fratellastri non riuscivo a digerire l’idea, che gli fossi invisibile; a scuola, potevo sopportarlo, ma a casa?

“Che eri venuto a fare qui, Ionesco?”, mi domandò Milo, sempre dandomi le spalle.

Trasalii violentemente e la scatolina mi scivolò dalle mani, cadendo non proprio silenziosa ai piedi del mobile. Mi apprestai a raccoglierla, ma il ragazzo si voltò – forse attirato dal rumore – prevenendomi dal portare a termine il mio gesto. “N – niente …”, risposi a disagio, scivolando verso la porta. “Ero solo venuto ad augurarti …”

“Cosa?”, la voce del greco era ridotta a un impercettibile sussurro.

“Buon …”, deglutii incerto, aggrappandomi alla maniglia della porta, come se fosse la mia ancora di salvezza. “Buon lavoro …” e uscii con la coda tra le gambe, filando dritto nella sicurezza della mia camera.

 

Irruppi rumoroso nella stanza e lode al self - control di Shaka, il quale non batté ciglio, benché in piena immersione nella sua meditazione mattutina – sarà, ma avevo come l’impressione, che stesse invece ripassando mentalmente le formule di fisica.

Mi buttai supino sul letto, coprendomi il volto con ambedue le mani, applicando con zelo gli esercizi sulla respirazione insegnatimi dal mio amico. Quando giudicai di essermi calmato a sufficienza per parlare con voce stabile, domandai a Shaka: “Oggi non mi sento bene: credo che non verrò a lezione.”

L’indiano non rispose subito e, rimettendosi lentamente in piedi, si sedette ai bordi del mio letto, il suo viso sopra il mio, a giudicare dalle ciocche dei suoi capelli, che mi solleticavano il dorso delle mani. “Che cosa ti ha combinato stavolta, Valavitis il Demonio?”, inquisì, facendomi allargare le dita, stupefatto dalla sua perspicacia.

“Mi lusinghi, mērē dōsta”, continuò sornione il ragazzo, quasi mi avesse letto nei pensieri - forse, a furia di connettersi e disconnettersi con la sua mente, aveva imparato anche a far l’hacker in quelle altrui, “tuttavia, non ci vuole un genio per comprendere il motivo del tuo cruccio! Enfin, sono sette anni, che ci conosciamo e il 99, 9% ,di tutte le volte che ti ho visto in qualche modo turbato, era attribuibile a quel Dānava in terra.”

“Uhm …”, feci raggomitolandomi sotto la copertina di emergenza, che tenevo sopra al piumino. “In ogni caso, oggi non me la sento di andare in classe … Se qualcuno te lo domanda – anche se ne dubito – puoi per favore dirgli, che sto poco bene?”

“D’accord Momus, lo farò!”, accettò Shaka, rimettendosi in piedi. “Anche perché così guadagno punti per la mia prossima reincarnazione!”, aggiunse scherzando.

“Ah ouais? Ancora non mi hai rivelato, in che cosa vorresti rinascere!”

“Hé, nell’uomo più vicino a Dio, che domande!”

“Mi pare un po’ relativa come reincarnazione …”, commentai, conoscendo il gran numero di religioni sparse in giro per il mondo. Ne aveva Shaka di strada da fare!

“Relativo come il tuo senso dell’umorismo!”, replicò serafico il ragazzo, infilandosi la borsa a tracolla. “Ora riposati e non ti arrovellare quella tua testolina. E per quanto riguarda il Dānava, ti dirò questo, Momus. Non ne conosco il motivo certo, ma ho come l’impressione, che lui abbia eretto attorno al suo cuore un alto cerchio di fuoco: avvicinati troppo e ti bruci!”, mi confessò, aprendo la porta. “Et maintenant dodo!”

“Dhan’yavāda, mērē dōsta!”, lo ringraziai da sotto la coperta, nelle poche parole di hindi, che avevo appreso con lui, ricevendo, prima che uscisse per recarsi in classe, uno dei suoi rari sorrisi.

 

Mi ero appisolato un pochino, quando le campane della chiesa della Madeleine suonarono mezzogiorno, risvegliandomi. Meccanicamente, mi alzai e preparai la valigia, lasciando un biglietto di buon finesettimana a Shaka, dirigendomi quatto quatto verso il cancello dell’istituto.

Camminai come in trance fino al semaforo, attraversando tranquillamente le strisce, quando sentii all’improvviso due cose: il suono di un clacson e qualcosa tirarmi con violenza all’indietro, sbilanciandomi di quel poco e solo allora, capii che per un soffio avevo rischiato di essere investito da una macchina.

E che il mio salvatore era un Milo livido di collera.

“Idiot!!!”, ruggì, afferrandomi per le  braccia e scuotendomi come un milk shake, “Non guardi, quando attraversi la strada? Poteva investirti, lo capisci? Eh? Dove avevi la testa, imbécile?!? E guardami quando ti parlo, putain de bordel de merde d’une foutue vache en chaleur!”, imprecò, continuando a sbatacchiarmi con crescente forza, che per un istante temetti che la mia testa stesse per prendere il volo.

Ad un tratto, si fermò bruscamente e le sue mani si spostarono leggere come piume sul mio petto, scosse e tremanti in maniera a dir poco preoccupante, quale del resto il viso del ragazzo, che, nonostante la terribile sfuriata, era rimasto sul grigio cadaverico, quasi avessero tentato d’investire lui al mio posto.

“Milo …”

“Vai via … vai a casa …”, mormorò meccanicamente il greco, affondando le dita nel mio cappotto, il respiro, che usciva irregolare dalle labbra cineree.

“Scusami … io non …”, boccheggiai, sinceramente contrito che la mia sbadataggine lo avesse scosso a tal punto.

“VA T’EN!”, urlò fuori di sé Milo, spingendomi indietro, gli occhi spalancati e malsanamente cupi e torbidi, che continuarono a fissarmi insistenti, finché non svoltai l’angolo, infilandomi nel dedalo di viuzze del centro città e solo allora, mi permisi il lusso d’appoggiarmi a un muro, tirando un respiro così profondo e doloroso, che pareva stessi espellendo la mia anima.

***

 

 

La vecchia abitazione della famiglia Valavitis giaceva nell’innaturale ordine delle case disabitate. Non un solo oggetto appariva fuoriposto, niente suggeriva una qualsiasi forma d’attività lì dentro. Solo silenzio; solo un pesante e poco confortevole silenzio.

Aprii la saracinesca del salotto e un poco la finestra, onde liberarmi del fastidioso odore di chiuso, che impestava l’aria; dopodiché, mi sedetti sul divano coperto da un lenzuolo bianco, fissando imbambolato il muro, ignorando i gorgoglii del mio stomaco, conscio che avrei vomitato, se solo avessi mangiato qualcosa.

Mi sentivo oppresso da quella casa, schiacciato: vi era al suo interno una sottile aurea angosciosa, aumentata dal silenzio, che mi faceva venir voglia di urlare e strapparmi i capelli. Per prevenirmi da simile gesto illogico e nocivo alla mia capigliatura, strinsi le mani tra di loro, battendo nervosamente il piede per creare un po’ di confortante rumore.

Stufo, mi alzai e mi misi alla ricerca di qualcosa da leggere, onde ingannare l’attesa, chiedendomi quale sorta d’impegno stesse trattenendo i due fratelli. Mi diressi nello studio di M. Christophe e presi dalla sua libreria un libro a caso, che scoprii, dopo aver letto distrattamente una decina di pagine, essere Il Rosso e il Nero di Stendhal. Uffa, già letto! Vabbè, almeno, mi tenne la mente occupata fino al crepuscolo, che incominciava ad arrivare sempre prima, il che si presentò un problema non da poco, in quanto il generatore doveva essere spento ed io ignoravo, dove fosse allocato nel condominio.

Beh, un’esplorazione mi avrebbe certamente distratto, però …

 E se Milo e Aiolia fossero tornati all’improvviso e, non vedendomi, avessero deciso di andare via e lasciarmi qui da solo, dimenticandosi di me?

Fu quest’ipotesi a fermarmi; sapete, al mondo c’erano due tipi di solitudine: quella che si cerca e quella imposta dall’abbandono. Io appartenevo alla prima, quando volevo starmene solo, mi rintanavo come un orso in me stesso, indisturbato da chicchessia; ciononostante, mal sopportavo la seconda, specie, dopo essere stato sbattuto fuori di casa assieme a Maman da quell’uomo.

Certo, ero spesso ignorato da tutto e tutti, però la cosa non mi toccava, giacché non ero in confidenza con loro: come potevo soffrire la mancanza di gente, che non conoscevo? Ma, se una persona entrava nel mio cerchio, vivevo costantemente nell’ansia di perderla un giorno.

Vai via! Va t’en!, le parole di Milo mi martellavano il cranio senza pietà, così simili a quelle lanciate da quell’uomo a Maman e a me, eppure allo stesso tempo così diverse …

Non c’era cattiveria in esse, no, una piccola parte di me – forse la più sveglia – percepiva che non le aveva pronunciate per ferirmi. Ormai, avevo imparato a cogliere ogni sfumatura della sua voce, anche se non mi ero mai spiegato il motivo di questo mio studio. O meglio, sì, una ragione all’inizio c’era, quella di evitare di prendersele (verbalmente). Ma ora?

Va t’en!, il suo tono era pieno d’angoscia, sì e di … di … vergogna? Per cosa? Per me? Ma se non ero neppure un suo amic-

Mi bloccai di colpo, fulminato dalla parola. Amico.

Amico.

Compleanno.

Pomeriggio.

Via da quasi tre ore.

Compleanno.

The current page is loading, please wait.

Bastardo!, fu la prima parola della mia indignata soluzione appena raggiunta. Come si era permesso di mentirmi così spudoratamente? Di ingannarmi in maniera così meschina e subdola? Se non mi voleva attorno, perché non dirmelo chiaro e tondo, invece di ricorrere a quei vili sotterfugi?

E parli del diavolo e spuntano le corna, ma in quel caso spuntò Milo, il cui arrivo fu annunciato dal rumore della chiave nella serratura. Rapido, spalancai feroce la porta, schiaffeggiandolo con tutta la forza di cui ero capace, prima ancora che potesse fiatare, per poi farmi largo con una spallata, scendendo inferocito le scale, diretto alla stazione delle corriere: al diavolo, sarei ritornato da solo nella mia casa e alla malora tutti!

Il mio brillante piano, tuttavia, non contemplava di certo uno scorpione incavolato nero rincorrermi per le scale e per tutta la strada, che conduceva alla stazione, senza perdermi di vista neppure per un secondo e ciò significava una sola cosa: se mi acchiappava, mi avrebbe menato fino a farmi divenire femmina.

Sempre di corsa, tirai fuori dalla tasca dei pantaloni la tessera e zumpettai come una cavalletta su per la corriera, sedendomi o meglio nascondendomi nell’ultima fila di sedili, il fiato corto per l’inaspettata maratona, sperando di aver seminato Milo. Ma a quanto pareva, dovevo avere un addosso odore particolarmente caro al naso del ragazzo, ché non feci in tempo a regolarizzare il mio respiro, che intravidi la bionda zazzera comparire davanti al conducente, per pagarsi il biglietto. Rapido, tirai fuori il cappuccio della mia felpa dal cappotto, con l’intenzione di camuffarmi un poco, specie, quando notai lo sguardo inquisitore di Milo, che spaziava come uno scanner tra i sedili, cercandomi.

Fortunatamente, l’autista accese il motore e la corriera partì, costringendo Milo a sedersi e neppure troppo vicino al sottoscritto. Meglio! Così mi avrebbe lasciato in pace per tutto il tragitto e figurarsi se mi degnavo pure di dirgli qual era la mia fermata, tzé! Per quel che mi riguardava, dopo un tiro mancino del genere, poteva anche perdersi nelle Landes e non avrei versato una lacrima.

“Hai finito di fare l’idiota, Ionesco?”, sbucò Milo all’improvviso dal sedile davanti al mio, facendomi balzare dal mio, urletto incluso. Come diavolo era riuscito a strisciare da metà corriera fin qui, senza che me ne accorgessi?  E come aveva intuito, che io mi trovavo lì?

D’istinto, mi alzai per sfuggirgli via, ma il ragazzo mi afferrò rapido per il polso, intimandomi di rimanere seduto, tacito ordine cui mi ribellai, mordendogli la mano, approfittando dell’occasione, per chiudermi a chiave dentro la toilette della corriera.

“Esci da lì, Ionesco!”, sentii sibilare minaccioso il greco, evidentemente al limite della pazienza, tra un battito alla porta, uno più forte dell’altro.

“Fossi scemo!”, replicai dal gabinetto, tenendomi in equilibrio a fatica.

“Ma se lo sei già!”

“Mettila come  vuoi! Tanto io non esco di qui!”

“Dovrai pur uscire prima o poi, Ionesco, anche se la fermata è il capolinea”, sottolineò il ragazzo malizioso. Merde, come lo sapeva? Certo che aveva un futuro tra i servizi segreti! “E allora, vedrai che sarò giusto qui dietro ad aspettarti a chele aperte!”

“Aspetta e spera!”

“Non ti preoccupare per me, tesoro. Piuttosto, pensa al tuo bel sederino, che riempirò di sculacciate fino a dipingerlo di rosso scarlatto, non appena ti acchiappo!”, mi promise dolcemente, quasi volesse comprarmi dello zucchero filato.

 E mantenne la parola, finché non mi chiese ad un certo punto con tono sinceramente apprensivo, da dietro alla porta: “Senti … sei sicuro, che sia la corriera giusta? Non mi pare la strada per andare a casa …”

“Ma sì! Non è la …” e la voce mi morì in gola. Un momento … “Milo, hai per caso letto l’A o la C sullo schermo?”

“Uhm … la C! Hey, non dirmi che …”, rispose sicuro il greco, che spinsi in avanti con forza non appena spalancai la porta del gabinetto.

“Bordel!”, esclamai ad alta voce, attirando l’attenzione degli altri passeggeri. Suonai frenetico il campanello per prenotare la fermata, calcolando mentalmente, che avevamo ancora qualche chance di prendere la corriera giusta.

“Non dirmi, che hai sbagliato bus!”, mi accusò finalmente Milo scandalizzato, mentre scendevamo in un’anonima fermata, nel mezzo del bel nulla delle Landes. Ignorandolo, controllai le linee che passavano per di lì e appurai sollevato, che la nostra passava tra un’ora; inoltre, la lettura m’impediva di guardarlo in faccia: mi vergognavo troppo, dopo quell’atroce gaffe.

“Merde!”, lo sentii imprecare. “Mi mancava solo questa: perso in culo al mondo, con un babbeo cieco, che non sa neppure distinguere una A da una C! E pure piove, p’tain d’un canard sodomisé!”, terminò elegantemente, portandosi sotto alla cabina della fermata.

“Colpa tua!”, mi difesi, per nulla disposto ad assumermi la responsabilità dell’abnorme sbaglio. “Se tu non mi avessi rincorso come un pazzo, io non avrei sbagliato la lettera! Mi hai distratto, animal stupide!”

“Tzé, blanc-bec! Se tu non mi avessi mollato una sberla senza spiegazioni, io non ti avrei seguito, tiens!”, replicò il ragazzo con lo stesso trasporto, crocifiggendomi con lo sguardo, che ricambiai.

“E se tu non mi avessi mentito sulla tua festa di compleanno, io non ti avrei schiaffeggiato, sale menteur!”, mi sfuggì dalla bocca, che tappai di riflesso, rendendomi conto solo ora di aver portato con successo a termine la terza cazzata del secolo.

“Io … cosa? Festa?”, ripeté piano Milo, gli occhi che mi fissavo increduli. “Ionesco, hai detto festa?”

“Ehm … bestia, ho detto, bestia …”, mi corressi con scarsa convinzione, scivolandogli nel frattempo lontano: insomma, quale cretino avrebbe creduto nell’esistenza di una bestia di compleanno?

“Festa?”, continuò dolcemente minaccioso il greco, appropinquandosi.

“Milo, basta ricorrere subito alla violenza: prima ne discutiamo e poi – forse – ci meniamo!”, gli puntai contro il palmo della mano, per persuaderlo a desistere dall’idea di picchiarmi in una fermata dell’autobus nelle sperdute Landes. Era troppo volgare.

“Ionesco, pensi davvero che nelle ultime ore, io sia stato ad una festa? Ti rendi conto della colossale cavolata, che stai sparando?”

Eh no Ciccio, fino a prova contraria non ero esattamente nato ieri! “Cavolata?”, ripetei sarcastico. “Cavolata sarebbe credere alla tua scusa! Oggi è il tuo compleanno, sparisci per tutto il pomeriggio con un mazzo di fiori in mano, che vuoi che pensi? Che fossi andato al cimitero?”, mi sfogai, alzandomi di scatto dalla panchina e fronteggiandolo bellicosamente.

Per un folle istante, pensai d’aver scorto una smorfia di dolore sul volto di Milo, che venne immediatamente sostituita da una maschera altrettanto combattiva. “Sì”, rispose semplicemente, sfidandomi a contraddirlo con i fiammeggianti occhi turchesi.

“Sì, cosa?”, infierii, sadicamente contento di aver ribaltato, per una volta, i ruoli, in altre parole io l’inquisitore e lui l’interrogato. “Che mi hai rifilato una cavolata? O che sei andato sul serio al cimitero?”

Un sorrisetto crudele deformò il volto di Milo, mentre incrociava le braccia con studiata lentezza. “Che risposta vorresti avere, Camus? Vuoi sentirti dire la verità o la tua verità?”

Shaka aveva ragione: c’era un malefico fuoco nel cuore di quel ragazzo e qualunque spiegazione mi avrebbe fornito, sapevo che alla fine sarei stato io quello a rimanerne ustionato, come sempre. Sospirai a fondo, calmandomi per gestire la faccenda razionalmente senza perdere la testa. “Non sono arrabbiato nei tuoi confronti a causa della festa di per sé”, esordii piano, tentando di spiegargli, che non ero un gosse capriccioso e viziato del nido, “tu hai la tua vita ed io non voglio immischiarmi in alcun modo. Tuttavia, poiché siamo fratellastri e condividiamo gli stessi genitori e lo stesso tetto, una certa sincerità da parte tua non mi dispiacerebbe, sai? Mi addolora sapere che mi hai mentito! Anche a scuola, prima che diventassimo parenti, eri un bastardo con me, vero, però almeno eri un bastardo sincero! Puoi continuare a esserlo? Mi puoi dire, per favore, se è vero che mi hai mentito per non invitarmi alla festa?”

Milo non disse nulla; abbassò lo sguardo, sospirando leggermente. “Sono andato al cimitero”, rispose infine con voce spenta, alzandosi di scatto. Il fuoco dei suoi occhi, al contrario, era più guizzante che mai. “E se non mi credi, cavoli tuoi. Bel discorso, sai? Hai sostenuto, che fino ad ora sono stato sincero con te, che cosa allora ti ha spinto a pensare, che avessi cambiato di costume all’improvviso, uh?” e dinanzi alla mancanza di una mia replica, continuò feroce. “Vuoi che io sia sincero con te, ma tu? Tu? Perché questo tuo immeritato rancore nei miei confronti? Di che cosa hai paura?”, mi provocò sornione.

“Io non ho paura di nulla, Valavitis!”, dichiarai gelido, appoggiando contro la parete di plastica della cabina. “E men che meno di un bastardo come te!”

“Vero, tu non mi temi …”, concesse ambiguo, intrappolandomi con la sua persona. “Ma paventi la possibilità, che io un giorno perda interesse nei tuoi confronti e che ti abbandoni, come ha fatto quella sale charogne  di tuo padre!”

“Non è vero!”, digrignai i denti, sforzandomi di non lasciarmi manovrare da lui, simile a un Guignol. Come faceva a conoscermi così  a fondo? Come?

“Oh sì, lo so bene, che tu sei un masochista represso, Camus; che ti piace farti maltrattare dal sottoscritto, visto che si tratta, anche se un po’ perversamente, di una qualche forma d’attenzione verso una persona da tutti ignorata, come se neanche esistesse! Questa, almeno, è la mia teoria …”

“Taci!”

“Taci? E perché? Non affermavi poco fa di voler conoscere la verità sul mio conto? Come puoi pretendere ciò, se neppure accetti quella che ti concerne, ipocrita!”

Non seppi come avvenne esattamente; l’unica cosa, di cui ero certo, era che un sinistro crac echeggiò nella mia testa, annebbiandomi la vista per un istante e quando l’ebbi recuperata, tutte le gamme dei colori si erano riassunte in un unico rosso accesso. Anni e anni di frecciate da parte di Milo avevano temprato le mura della mia difesa, ma quell’ultima cannonata, le aveva distrutte in mille frammenti. Non avevo più alcuna argomentazione con la quale ribattere, non dopo aver citato quell’uomo. Quindi, con l’istinto suicida di un animale messo all’angolo, ringhiai, la mia voce alterata dalla collera: “Vai all’inferno demonio!”, e gli saltai addosso, desiderandogli far sentire sulla propria pelle, il dolore, che percepivo al cuore.

Milo non si sottrasse a nessuno dei miei colpi, si limitò solo a difendersi da quelli destinati al viso; per il resto mi lasciò fare e quella sua reazione mi riempiva d’ulteriore sdegno, ché mi sentivo da lui deriso per quel mio puerile sfogo. Non si oppose neppure quando lo buttai per terra, mettendomi a cavalcioni sopra di lui e riempiendolo di schiaffi, pugni e morsi. Infine, lo afferrai per il bavero, levando in alto il pugno di grazia, che gli avrebbe lasciato un bell’occhio nero come ricordino. Tuttavia, un flebile rumore metallico attirò la mia attenzione, bloccandomi: mescolato tra i capelli biondo oro di Milo, intravidi la medaglietta con sopra inciso il simbolo dello scorpione, la stessa che gli avevo regalato per il suo compleanno. Com’era possibile? Allora, aveva trovato il mio pacchettino! E … e stava pure indossando il mio regalo!

“Che c’è ora, Ionesco? Non mi vuoi più colpire?”, mi provocò Milo, gli occhi turchesi puntati sui miei dorati. Come da un sogno, trasalii, rendendomi solo ora lucidamente conto, che mi trovavo sopra al ragazzo, il pugno fermo a qualche centimetro dal suo viso. Oddio, che follia mi aveva mai preso? “Avanti, Ionesco, vedi di concludere”, proseguì annoiato il greco, “non mi è mai piaciuto star sotto!”, aggiunse maliziosamente e dinanzi alla mia mancanza di collaborazione, mi lanciò un ultimatum: “Allora, o mi colpisci …”, fece lentamente, umettandosi le labbra “ … oppure tu stai zitto e mi ascolti una buona volta!”, scelse lui per me, invertendo le nostre posizioni con un rapido scatto di reni.

Bravo, Camus, ti eri lasciato fregare per la milionesima volta!

“Adesso mi lasci parlare?”, mi sussurrò Milo tra la cortina d’oro dei suoi capelli, che mi si mescolavano ai miei.

“Ta gueule!”, gli inveii contro, dimenandomi come un’anguilla. “Hai parlato fin troppo!”

“Per favore ascoltami!”

“Sono stufo di ascoltare le tue scuse! E i tuoi insulti!”, aggiunsi, dopo una breve pausa di riflessione.

“Seriamente … è importante …”

“Ma quando mai!”

“Ma vuoi star zitto?”

“Figurati, se lo faccio per il tuo bel musetto!”

“Mi trovi bello?”

“Va te foutre!”

“Turlututu, Camus!”

“Turlututu mon c …”

“Linguaggio!  E invece di sparare fesserie, cosa che non ti fa onore, ascoltami: non ti ho mentito, quando di ho detto che sono andato al cimitero, perché …”

“Non – lo – voglio – sapere!”, lo interruppi per l’ennesima volta, sbuffando scocciato nel vedermi imprigionati i polsi.

“Argh! Au diable!”, imprecò ringhiando Milo e prima che potessi replicare, sentii qualcosa di umido e di caldo tapparmi la bocca, riscaldandomela sia all’esterno che … gueh, all’interno.

Bastardo! Cochon! Pervers scorpion lubrique! Che accidenti ti prende ora?, protestai mentalmente - avendo la lingua al momento impegnata in altre attività - quando mi resi conto, che quella buona lana, pur ti costringermi al silenzio, aveva sfacciatamente violato il mio pudore, fregandosi senza tanti complimenti il mio primo bacio, bon sang! Tuttavia, più Milo approfondiva le sue loquaci argomentazioni, più io passavo in tutta velocità dalla fase iniziale Che schifo! alla mediana Mmmhh sì,te lo concedo, continua pure … alla finale Se ti fermi, t’accoppo! E il gorgoglio soddisfatto della mia gola dovette lusingare il ragazzo, che trasmise maggior fervore al nostro dibattito, aggiungendo ogni tanto qualche interessante dimostrazione extra tra le pieghe del mio cappotto, sotto la felpa.

“Allora, bambino impossibile, ti sei calmato?”, soffiò Milo, gli occhi due pozze turchesi di pura lascivia. E tenerezza.

“Mouais …”, bofonchiai, il respiro leggermente irregolare e le gote porpora e bollenti. “Ma tapparmi semplicemente la bocca con la mano, no, eh?”, lo rimbeccai con poca convinzione, le mie iridi puntate fameliche sulle sue labbra.  Tornate un po’ qui …

Non, pas bien! Mi stava trasformando in un pervers lubrique, come lui, merde!

“Ho le mani sporche, Momus, non te le potevo mettere sulla bocca: i germi non sono un’opinione!”, mi sorrise sornione Milo, arricciando la sua, mentre pronunciava divertito il mio nomignolo ufficiale.

Sì, sì come no, germi! Ma  a passarmi quelli tuoi lubriques non ci hai pensato più di tanto, eh?

Lo sguardo di Milo ritornò d’un tratto terribilmente serio, nel frattempo, che mi aiutava a rimettermi in piedi, scrollandomi via dalla schiena il terriccio con potenti zampate. “Bien, ora che ti sei tranquillizzato, per favore, ascoltami. Questa mattina, quando ti dissi, che avevo qualcos’altro da fare, intendevo …” e s’interruppe, questa volta non  a causa del sottoscritto, bensì da due fari puntatici contro, appartenenti ad una macchina, che non riuscii a distinguere bene a causa del buio e che si accostò a noi.

Il suo finestrino destro si abbassò, sotto la pioggia scrosciante, illuminando i suoi passeggeri all’interno. “Koukou! Vi sono mancato?”, ci salutò Aiolia con la stessa dolcezza del boia al condannato sul patibolo. Evidentemente, la nostra fuga romantica doveva averlo fatto preoccupare e anche tanto, a giudicare da come stringeva le mani, trattenendosi dal saltar fuori e strangolarci entrambi.

“Momus!”, chiamò bellicosa Mamie, sporgendosi accanto al ragazzo. “Et Milo, toi aussi!”

“Mamie?”

“Oui, dall’inferno!”, ringhiò mia nonna, trafiggendoci con lo sguardo, tanto da farci inconsciamente arretrare. “Delinquenti! Ci avete fatto morire! Che vi era saltato in quelle teste bacate di sparire così? Specie te” e m’indicò implacabile, come il Cristo Giudice, “che so,  quanto tu sia imbranato con le corriere!”

“Mi avete travolto sulle scale; sono cascato giù e ora per colpa vostra ho un livido sul didietro più vasto dell’Atlantico!”, rincarò la dose Aiolia umiliato e offeso. “Vi abbiamo cercato per ogni fermata, bordel!”

“Per fortuna, che mi ricordavo di un tuo simile errore in passato, sennò da che parte incominciavo a cercarti? Eh? Da che parte? Me lo puoi dire, furbone?”, riprese la nonna con veemenza, continuando ad agitarci -  a me in particolare – il pugno sotto il naso.

Era ovviamente la domanda retorica del predicozzo ai nipoti discoli; una delle tante, che mai avrebbe avuto una risposta, se i detti criminali in erba desideravano sul serio ottenere l’amnistia dall’augusto grand- parent.

Quindi, Milo ed io ascoltammo falsamente contriti il sermone, cospargendoci il capo di cenere, tra un Oui, Mamie; Sûrement, Mamie; T’as raison, Mamie; On ne le fera plus, Mamie … e via scusandoci.

“Très bien!”, terminò nonna Séraphine, la quale, nonostante avesse tendenze sanculotte, come tutte le nonne non riusciva mai a tenere più di tanto il broncio al suo nipote; enfin, ai suoi nipoti. La vidi, però, ad un tratto sporgersi di più dal finestrino, gli occhi puntati verso …

“Come mai hai la bottega aperta, Momus?”, inquisì lentamente, scoccando un dardo velenoso a Milo, che rispose con nonchalance al posto del sottoscritto, il quale era già partito per il Mondo delle Idee.

“Colpa mia, nonna!”, replicò il ragazzo sornione, ficcandomi dentro la macchina, prima che Mamie potesse anche notare, che entrambi avevamo le labbra più gonfie di un gommone Zodiac. “Temo di avergli attaccato l’incontinenza! Brutta storia!” , commentò, per poi ridersela alla grossa, sedendosi dietro accanto a me.

“Ouais, brutta storia …”, ripetei sconsolato, alzandomi vergognoso la zip, sotto lo sguardo divertito di Milo.

“Brutta storia …”, convenne Aiolia, il volto paonazzo dallo sforzo di non sganasciare dalle risate: figurati, se non aveva capito, a cosa suo fratello mi aveva sottoposto! Sperai solo, che avesse la discrezione di tenersi la cosa per sé e di non divulgarla a chicchessia, i gemelli inclusi.

“Brutta storia …”, concluse la catena una pensierosa Mamie, accendendo il motore e, dopo aver messo la freccia, immettendosi nel traffico per riportarci finalmente a casa.

Parole sante.

 

To be continued …

***************************************************************************************

Et voilà, il 5° capitolo!  Il suo titolo è un gioco di parole con l'augurio francese "Joyeux Anniversaire!", che corrisponde al nostro Tanti Auguri! o Buon Compleanno! Lo so, meno comico degli altri, ma nella vita, momenti felici e tristi si alternano come su di un’altalena! Comunque, nei prossimi, prometto di mettere meno spleen e più brio!

E per quanto riguarda il primo (evvai) bacio, chiedo venia, se non sono stata tanto romantica! Purtroppo, il mio lato pagliaccio ha prevalso sulla tenerezza dell’atto! (Ha – ha, pagliaccia!, indica ridendo la gemella malvagia; Hoel le lancia la bottiglia – vuota – di the alla pesca).

Spero di guarire da questa malattia …

(se, sogna, sogna! Ridi, pagliaccio …)

Vogliate scusarmi? (Hoel si assenta dal computer, rinchiude a chiave la gemella nel gabinetto e ritorna)

Dunque, questo era il capitolo, spero che vi sia piaciuto e che le parti più malinconiche non vi abbiamo, beh, rattristato troppo!

Alla prossima, ciao!

(Hoel, fammi uscire, brutta bastarda!, la suddetta risponde gentilmente con il gesto dell’ombrello)

 

Un po’ di noticine:

[1] Strofa della celebre canzone Bocca di Rosa, di Fabrizio De Andrè.

[2] Molly Bloom è un personaggio dell’Ulisse di James Joyce. La donna è la moglie di Leopold Bloom, l’Ulisse del titolo, ma, contrariamente alla fedele Penelope, lei è più sul menage à trois, ecco. Famosissimo è il suo monologo interiore finale, uno sproloquio di pensieri, posti così come saltano in testa, senza ordine, senza logica, senza punteggiatura! In lingua originale, poi, una vera bomba!

 

  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Hoel