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Autore: Padme Undomiel    11/07/2010    3 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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17.


Senza respiro



Calore sul viso, nella pelle, tra le coperte.

Calore umido, pesante, insopportabile.

E la ricerca insofferente e lenta di un po’ di frescura, mentre il calore invade la fronte, penetra ovunque, toglie il respiro.

Calore …

Quel calore. Quel calore di inizio giugno. Che costringeva a legarsi i capelli, a sbuffare, ad agitare una mano per un po’ di vento sul viso.

Si agita la mano davanti al viso, insofferente, e sbuffa rumorosamente. “Davvero, non ne posso più di questa maledetta scuola. Hanno intenzione di massacrarci anche a giugno?”

“Sempre e comunque, e non è una novità. Ma sai che c’è di nuovo?” Lui mette sempre le mani in tasca, quando vuol dire qualcosa di ovvio. Fa … male. Sì, fa male, fino a limiti impossibili. E’ doloroso vedere quel gesto, e lei lo guarda con rimpianto inspiegabile. Smettila, smettila, stupido. “Io, da domani, mi ritiro, e tanti saluti! Quando dovrebbero iniziare le vacanze, altrimenti?”

E sorride, mentre lei alza gli occhi al cielo e sente il bisogno di colpirlo.

“Ahi! La vuoi smettere di farmi male, razza di pazzoide?”

“Sei sempre il solito, Daisuke!” E poi ride, perché la sua espressione è tanto buffa. E’ così assurdamente infantile, e non si può non ridere. “Tu non hai mai nemmeno iniziato, figurati se puoi parlare di ritirarti! La scelta dovrebbe essere mia, più che altro: devo progettare cosa fare quest’estate.”

Estate. E’ probabile che la sua famiglia scelga di andare davvero dai suoi cugini, quest’anno. Non li vede più da tanto … Le sembra un secolo che non li vede più.

Come se fossero passati otto anni, mentre era rinchiusa in una casa solitaria e spaventosa …

“Guarda che anche io ho il diritto di scelta! Anche se io, a differenza di te, già lo so come passerò quest’estate: nel campetto di calcio, ad allenarmi per la prossima partita!”

Si illumina, quando parla di calcio. E i suoi occhi castani brillano di entusiasmo e grinta, come se Daisuke vivesse solo del suo sogno di fare il calciatore.

“Stupendo, passerai l’estate a sudare come un matto sotto questo opprimente caldo estivo! Come mai la parola «mare» non ti dice nulla?” Alza gli occhi al cielo, e si raccoglie i capelli con un elastico colorato.

I capelli sono viola?

Sono … così terribilmente dolorosi a vedersi. Fanno anche più male della presenza di Daisuke.

Anche se sono così belli, reali e vivi. Lei li adora. Lei li ama lunghi, morbidi. Naturali.

Ci sono ragazzi dappertutto, che ridono, scherzano, si spintonano allegramente, mangiano, confabulano. I corridoi di quella scuola sono vivi, pieni di allegria. Lei si sente parte integrante di quel mucchio, perché finalmente è ricreazione. Finalmente può svagarsi.

“Bada a come parli, ragazza da spiaggia! Quando sarò un grande calciatore ti farò mangiare la polvere, sai?” e Daisuke fa l’offeso e l’orgoglioso, come un bambino di tre anni.

E poi il suo viso si fa serio. Ed è strano, perché Daisuke non è mai serio.

E’ serio come quella volta, in quella stanza. Serio come le parole che le aveva rivolto …

Non è quel momento, non è quel momento.

“E adesso che c’è? Ti sei sgonfiato?”

E’ preoccupata, e angosciata. Lo guarda, e aspetta che parli.

“Macché”, borbotta, e si vede che è preoccupato anche lui. “E’ per Deguchi. Sai che i suoi genitori mi hanno di nuovo chiamato a casa, ieri sera? Mi sento una specie di testimone interrogato più volte dalla polizia …”

La polizia no. Non vuole sentire parlare di indagini!

“Piantala!” strilla lei, con uno scatto.

Daisuke sembra non darle retta. “Ieri mi hanno chiesto perché è tornato a casa con un occhio nero, il naso sanguinante, i vestiti sporchi di terra e i libri strappati. E che potevo dire io? «Mi scusi, signora, suo figlio si è messo nei guai con un bullo prepotente e la sua banda e ora non lo lasciano più in pace?»”

Sì, è un bullo prepotente. E una persona da poco, davvero da poco. Una persona alla quale si è sempre data troppa importanza …

C’è rabbia bruciante, adesso. Non riesce a controllarla, perché non sa controllarla. Non è mai stata brava a mentire, non potrebbe mai farlo per tanto tempo. Finirebbe per impazzire e perdere il controllo, e per comportarsi come una stupida.

E tutti gli studenti la guardano con aria sospettosa, la osservano mentre il suo volto si contrae per l’irritazione, e mentre desidera picchiare quell’individuo.

“Lo hanno ancora pestato? Ma chi diamine si crede di essere, quel … quel …”

Insensibile è la parola giusta, pensa.

Se avesse avuto sentimento non si sarebbe comportato in maniera tanto ignobile.

“Gorilla! Sì,  è un orrendo, stupido, infantile gorilla! Roba che andresti volentieri da lui e gli chiederesti come ha fatto a scappare dalla gabbia dello zoo! Perché nessuno ci ha pensato?”

Daisuke la guarda, vagamente preoccupato. “Sai, fai paura quando ti arrabbi.”

Lei ride, sadica. “Lo so, ma lui non ancora mi conosce. Altrimenti Deguchi Naganori non avrebbe proprio nulla da temere, e al mio confronto quel gorilla sarebbe solo una massa informe di gelatina!”

Daisuke sbuffa, aggiustandosi gli occhialetti tra i capelli disordinati. “Se solo fosse così!”, esclama. “Ma quando prendono di mira Deguchi, trema come un agnellino, e si fa pestare per bene. Eh, se mi ascoltasse di tanto in tanto, quel presuntuoso avrebbe la sua lezione e un orecchio in meno …”

“Per carità! Finirebbe per continuare queste inutili risse, e non si finirebbe più!”

Lei solleva una mano, e comincia a contare. “Questo mese il gorilla ha attaccato briga con … almeno dieci ragazzi deboli, e continuerà a farlo, se verrà bocciato anche quest’anno. Cosa molto probabile, comunque, vista la sua intelligenza. Non credi sia il caso di evitare altre risse?”

“Assolutamente no! Se fossi in Deguchi, un bel pugno non glielo toglierebbe nessuno!”

Daisuke ha la mano pesante. Quando litiga con i suoi amici, picchia, e picchia bene. Lei sa che non scherza, e certe volte lei è d’accordo.

Ma stavolta è stufa.

Anche se, inconsciamente, sa che dovrebbe lasciar perdere.

Eppure non capisce. Perché lasciar perdere, se quel bullo è così odioso?

“Ma perché se la prende con il tuo compagno di classe? Si può sapere che gli ha fatto?” Lei vuole sapere, perché non ne può più di quelle urla nei corridoi.

Perché urlano sempre, quando sono picchiati. E chi li picchia ride sempre.

Ride gioioso …

All’improvviso si sente seguita. Si ferma, e ha paura. Il corridoio è così vuoto, ora. Non c’è più nessuno. E chi la sta guardando? Perché sente degli occhi addosso che la scrutano?

Dov’è Daisuke?

“Dove siete andati tutti? Non lasciatemi qui!” E strilla, perché tanto nessuno la sente.

Nessuno c’è.

Corre in avanti. Sa che deve andare, sa che cambierebbe tutto se restasse lì, impaurita.

E alla fine vede Daisuke, cammina davanti a lei, non si volta. Lo raggiunge, la gente è tornata, e ride come sempre. Come se non fosse mai sparita.

“Perché mi hai lasciata indietro?” Lo ferma per un braccio. Lui la fissa, ed è stranamente furente.

“Sei tu che sei andata via! Io non volevo lasciarti stare, mi ci hai costretto.”

Lei ha una gran voglia di piangere, ma non ne conosce il motivo. Sa solo che quello che lui dice è vero. E questo causa le sue lacrime, dietro a quegli occhiali.

“Scusami, Daisuke. Non voglio più andare via così.”

E poi il ragazzo torna a parlare, ed è come se niente fosse. Come se nessuno dei due avesse mai interrotto il discorso precedente. E va bene così, perché lei non vuole parlare di quell’argomento. “E chi lo sa? Ogni scusa è buona per attaccare briga. E Deguchi è la tipica preda facile, per quello lì. Ma se provi a chiedere il motivo alla nostra vittima, trema e distoglie lo sguardo. Come se dovesse essere ucciso se ci dice qualcosa in più, capisci?”

“No che non capisco. E’ un uomo si o no? So difendermi meglio io!”

E le voci nel corridoio si fanno improvvisamente concitate, e i ragazzi corrono tutti verso una direzione. Urlano, e c’è chi parla di chiamare il preside.

Daisuke la guarda, sembra di nuovo arrabbiato. Ma non deve assumere quest’espressione: non è quella l’espressione giusta. C’è qualcosa che non va.

Lei non riesce a sostenere il suo sguardo, non deve guardarlo. Ma guarda in avanti: c’è una folla, ci sono grida, risate di scherno.

E quella risata.

La riconosce, perché la sente ancora nelle orecchie. La riconosce perché l’ha odiata con tutte le sue forze.

“E’ il gorilla! Se la sta prendendo con un ragazzino, di nuovo!”

Ora il calore estivo lo sente nel petto, brucia. Che ci fa dentro di sé, chi lo ha provocato?

Eppure, è destino che lei vada lì. Lo sente come destino, perché lei non è destinata a stare a guardare.

E quando torna a guardare Daisuke, sa che il suo viso è rabbioso come quello del suo compagno. “Io vado a fermarlo. Al diavolo ogni regola di autocontrollo e ogni bisogno di farsi gli affari propri!”

“Ma che combini? Fermati!”

Ma lei già corre.

Corre, veloce, rabbiosa, determinata. Pazza, incosciente, stupida.

“Smettila! Basta così, mi hai sentito, imbecille? Non lo permetto più!”

Corre …

Un brivido improvviso, movimenti agitati.

Nessuna quiete, nessuna pace. Solo un lieve gemito dalle sue labbra, e poi il silenzio.

Silenzio ovattato, surreale. Silenzio da neve.

Sembra quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città …

Sembra quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città, come se alla sua comparsa tutta Tokyo, come una grande bambina, fosse rimasta ad osservare muta e sorpresa il suo candore.

C’è neve ai lati delle strade, e c’è gente con sciarpe variopinte e cappelli buffi.

C’è gente gioiosa, che canta ancora vecchie canzoni accanto ai negozi.

Lei corre. Conosce la sua direzione, ma quasi non la vede. Pensa al peso che ha nel petto, pensa alla sua tristezza.

Da quanto è radicata nel suo cuore? E quanto ci metterà ad andare via?

Non lo sa. E corre, e rischia di cadere, e urta spalle sconosciute, ma non si fa male. Corre.

Poi si ferma, e quel negozio di giocattoli è illuminato a festa. Ansima, senza fiato e senza forze, e il respiro si condensa nell’aria. Accanto a lei, un piccolo pupazzo di Babbo Natale canta Jingle Bells agitandosi sul posto, interminabile, triste, quasi inquietante.

Lei ha paura. Lui non c’è ancora. Ma le aveva promesso che ci sarebbe stato, e lei ci crede.

Ma quel peso sul petto persiste. E l’atmosfera natalizia non fa che angosciarla ancora di più.

E poi lo vede arrivare.

Corre anche lui, i cortissimi capelli castani sempre ordinati. E sembra preoccupato anche a quella distanza.

Lui è sempre preoccupato per lei. Lui c’è sempre quando lei ha bisogno di lui.

Solo una volta non c’era … Ora lei ha paura che sparisca, che la odi, come quella volta. I suoi occhi erano così pieni di indignazione e rabbia che … Ma non è questo il momento, no.

“Scusa il ritardo.” Dice, e lei sorride stentatamente. Non l’ha lasciata sola, non lui. “Come stai?”

Lei lo abbraccia forte, un groppo in gola. Non vuole piangere di nuovo: lo ha fatto per tutto il giorno. “Oh, Iori-kun! Sono così felice che tu sia potuto venire … Ho davvero bisogno di te!”

Vorrebbe essere abbracciata così molto più spesso: si sente rassicurata, si sente in famiglia. Sente che Iori è l’unica traccia di famiglia che le è rimasta.

Non come i suoi genitori …

Smarrita, prova dolore, oltre alla rabbia. Non può contenerlo, non più. E’ troppo fragile, scoppierà.

Singhiozza piano, e Iori la stringe a sé. “Sono qui con te, tranquilla. Dimmi cosa è successo.”

Può ancora parlare? Sente la gola gonfia di dolore, stenta a far uscire suoni. Ma vorrebbe urlare, e non smettere più, perché ora c’è qualcuno che la ascolta …

Respira, e respira, e per qualche secondo non parla. Il Babbo Natale canta e balla, malinconico.

Poi alza gli occhi, piena di dolorosa e distruttiva rabbia. Scoppia. “Ancora! Strillano ancora, mi feriscono ancora, e ancora, e ancora! Devono detestarmi con tutte le loro forze, perché non è normale non fidarsi affatto di me, e di ciò che provo! Perché le mie emozioni sono sbagliate? Perché quello che voglio deve essere per forza perverso? Perché nessuno si sforza nemmeno di vedere quello che vedo io? Mi hanno abbandonato tutti, tutti!”

Non riesce a trattenere i singhiozzi, violenti e dolorosi. Non vede più nulla. Sente solo dolore.

“Mi hanno strappato l’anima, Iori-kun … Oggi mi hanno strappato …”

 “Ssh. Ti prego, non fare così. Cerca di calmarti.”

Le accarezza i capelli, e lei tenta di calmare i singulti. Rimane immobile, ad occhi chiusi, ma sa che Iori è ancora lì. Non sparisce.

“Sei di nuovo uscita di casa senza permesso?”

Lei lo guarda.

E il suo sguardo è freddo, scostante. E’ quello sguardo. Quello di quando l’aveva allontanata …

Sussulta, si allontana di un passo. Un gelo improvviso dentro di sé. Ha paura. Non vuole sentirsi di nuovo così, non vuole che quegli occhi verdi la giudichino di nuovo.

“Che potevo fare? Non potevo chiedere a loro, non sai quanto erano furenti! Iori-kun, per favore, non potevo fare altrimenti! E tornerò a casa … Tornerò! Lo giuro!” Strilla, spaventata. Sembra che la odi, come quella volta. Non adesso. Non adesso!

Chiude gli occhi di scatto, li riapre.

E Iori non ha più quell’espressione. Ora è comprensivo, sembra esserlo sempre stato.

Lei non capisce. Lui le parla come ha fatto fino a quel momento, e le sembra che qualcosa non vada, in quella scena.

“Ascoltami. Credi davvero che ne valga la pena? Stai lottando strenuamente, e soffri. E tutti noi siamo preoccupati per te, anche i tuoi. Anche io. Sei davvero sicura di quello che fai?”

Lei deve aver dimenticato una battuta. Rimane silenziosa, cerca invano quelle parole.

Che sentimento doveva provare? Che sentimento ha dimenticato?

Si sente rispondere, ma è come spettatrice. Non agente. “Certo che sì! Se penso a quello che ottengo in cambio, tutto questo sparisce.” E si vede sorridere, ed è così luminoso e bello il suo sorriso che fa male. Male, male. “E se ho il suo amore con me, non ho bisogno di nient’altro. Niente sarà mai come lui, e io intendo andare avanti. Lui mi sostiene, lui …”

Si distrae. La carola di Babbo Natale sembra distorta, se la ascolta. E’ pauroso, è insopportabile.

“Lui mi ama come io amo lui. Per questo vado avanti. E sarò pronta a far tutto.”

Iori sospira. “Non so. Davvero non so che dirti. Spero solo che tu trovi la felicità … Ma non fare cose sciocche. E sta’ attenta, Rumiko-san.”

Eh?

Il gelo la paralizza. Fiocchi di neve passano davanti ai suoi occhi, e lei si sente sprofondare.

Perché l’ha chiamata così …?

Smarrita, lo fissa. E sgrana gli occhi, atterrita.

Lui è più grande, adesso. Deve avere ventidue anni. E’ più elegante, più uomo, più serio … Più determinato, deciso. La preoccupazione negli occhi verdi è più contenuta adesso, come se volesse tenerla a bada.

Non capisce. Indietreggia. Lo spettacolo la getta nel panico, vuole una via d’uscita.

Si volta verso il Babbo Natale, accorgendosi che tace.

E il cuore le si ferma in gola.

Accanto al pupazzo, lui è lì.

Appoggiato al muro, immobile, come congelato.

I capelli neri composti, gli occhi azzurri e intensi fissi nei suoi, le labbra lievemente contratte.

Lui. Lui. Lui.

Ichijouji Ken.

E la fissa, mentre le gambe di lei tremano. E vuole con tutta se stessa distogliere lo sguardo, ma è come incatenato a lui. Ora lui la osserva, la scruta dentro, e lei fa lo stesso.

Quell’intensità nello sguardo …

Lui avanza, a passi misurati, attenti, Così serio. Così bello. Così … pericoloso.

Lei non capisce. Ma le sue gambe non si muovono. Resta ad osservarlo mentre si avvicina.

Davanti a lei, si ferma.

E il suo viso si contrae. Ora è malinconico, triste, come affranto.

Ma una luce anima i suoi occhi così profondi. Una luce che attrae, che le toglie il respiro.

Lui allunga una mano, le cinge la nuca, si ferma.

E un brivido la scuote, e sa solo che non lo fermerà. Non può farlo. Non può nemmeno osare.

Può solo chiudere gli occhi, mentre le labbra di lui, come una carezza, sfiorano le sue.

Mentre un lieve bacio appena percettibile fa sussultare il suo cuore.

Ma le labbra di Ken hanno il sapore delle labbra di … lui.

E qualcosa dentro di sé urla. C’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa di stonato, terribile.

Lei si ritrae, tremando. Ma lui è ancora lì, e ancora la fissa.

E poi le sue labbra si schiudono per parlare.

“Sta’ attenta …”

Le sfiora una ciocca di capelli.

“… Miyako.”

E la ciocca di capelli è viola.

Strilla, serrando gli occhi. Strilla, con quanto fiato in gola le rimane.

Strilla.

Ansimava, gli occhi sbarrati, il fiato corto, il cuore impazzito.

L’urlo di poco prima ancora le risuonava nelle orecchie, la coperta era completamente avvolta attorno al suo corpo sudato. Non riusciva nemmeno a deglutire.

Era ancora buio. Un buio terribilmente opprimente, che custodiva in sé l’orrore e il terrore per il sogno dal quale si era appena liberata.

Era tutto finito. Era tutto finito.

Si portò le mani tremanti ai capelli che, lasciati sciolti per dormire, le ricadevano scomposti sul viso, e un dolore selvaggio le invase il cuore.

Perché Inoue Miyako sapeva che nemmeno la notte più scura avrebbe potuto colorare di nero i suoi capelli così inevitabilmente viola, suo tormento e sua condanna.

E nascose il viso tra le ginocchia, tremando convulsamente, desiderando poter svanire nel vento per non dover più soffrire in quel modo.

***

“Possiamo parlare un secondo, Rumiko-chan?”

Miyako si immobilizzò nell’atto di mettere a posto gli incassi dell’ultimo cliente.

Ne era sicura. Da quando si era presentata al lavoro, quel giorno, lei non aveva fatto altro che lanciarle occhiate di sottecchi, negando di avere qualche problema ogni volta che, spazientita e preoccupata, le aveva chiesto spiegazioni. Era anche ora che si decidesse a vuotare il sacco, perché quel senso di attesa non faceva altro che stancarla di più.

Ma quando si voltò, desiderosa di scoprire cosa stesse succedendo nella mente della donna, quasi le scappò un gemito di esasperazione.

La signora Sato aveva un’espressione fin troppo preoccupata e accorata.

Magnifico, pensò disperata. Ancora preoccupazione. Solo questa mi mancava.

Si guardò intorno, cercando una scusa plausibile per potersi sottrarre a quella nuova occasione di dover mentire. “Adesso? Dovrei lavorare, guardi quanta gente che c’è oggi! Magari più tardi, quando avremo meno clienti …”

La sua protesta si spense nel suono della porta che si apriva.

Miyako si voltò di scatto, incapace di calmare la sua improvvisa agitazione, tentando disperatamente di ritornare a respirare. Rapidamente osservò la fisionomia del nuovo cliente, mentre una mano correva all’istante ai capelli …

Ma era un ometto di bassa statura, con l’aria accigliata e lo sguardo nervoso.

Ma quando recuperò il respiro, un senso di vuoto nel suo cuore la sconvolse una volta di più. Non era sollievo: solo un sentimento invisibile e infido che le artigliava il petto.

Rimase a fissare la porta, chiedendosi freneticamente perché ogni volta quel sentimento peggiorasse, invece di migliorare.

“Nessuno ti dice di non lavorare. Ma ho davvero bisogno di parlarti adesso, ti dispiace?”

Era frustrazione, ne era quasi sicura. E rabbia. Sì, doveva essere una lenta, implacabile, irruenta rabbia che, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, le stava avvelenando le giornate lavorative.

“Lo vedi? Sei di nuovo assente, Rumiko-chan!”

Sentendosi chiamare, Miyako sussultò, voltandosi con aria vacua. “Eh?”

E l’espressione di rimprovero della signora Sato la affrontò senza più esitazione. La stava scrutando, diretta, e preoccupata come non mai: probabilmente era da troppo tempo che desiderava dirle quello che pensava. Se si era trattenuta, era stato solo per discrezione.

“Quando arrivi a lavoro sei sempre distrutta, hai le occhiaie marcate, sei assente e persa nei tuoi pensieri. Quasi non ti accorgi che stai lavorando, ti comporti come un automa. Finché non c’è qualcosa che cattura la tua attenzione, e allora sembri agitata, fin troppo presente. Come se volessi scappare. Che cosa ti succede, si può sapere?”

Si sentì, tutt’a un tratto, così vulnerabile che desiderò con tutta se stessa potersi nascondere dietro ad un muro. Perché sapeva che era vero. Sapeva che aveva un aspetto terribile quel giorno, perché non aveva quasi chiuso occhio. Così come sapeva di essere sempre assente, sempre così immersa nelle sue sensazioni contrastanti da ignorare il resto.

Il resto che non fosse un certo qualcuno.

E il subbuglio che quel pensiero le causò, tale da stringerle la gola in una morsa, fu così intenso che temette sul serio di star perdendo la ragione. Non aveva senso che si sentisse in continuazione così agitata.

Perché, poi? Qual era il vero problema? Perché diamine non riusciva a capirlo?

Guardò con aria fin troppo fragile la donna davanti a sé, che da qualche anno era l’unica figura materna che avesse, e desiderò seriamente avere una risposta alla sua domanda. “Sato-san, mettiamola così: sono spaventata quanto lei, e quanto Satsu-chan.” Rispose, torcendosi le mani per impedirsi di esplodere e comportarsi come una stupida bambina spaventata dalla sua ombra. E, se si conosceva bene, avrebbe potuto davvero rivelarle troppo, cominciando a sfogarsi. “C’è qualcosa di tremendamente sbagliato nella mia testa, che sta cercando di farmi impazzire in tutti i modi. Non so a cosa sia dovuto …”

Bugiarda.

Mentre parlava aveva in mente il suo volto, negli occhi il suo sorriso educato e gentile.

Come sempre, da qualche settimana a quella parte. Ovunque andasse, qualunque cosa facesse. C’era sempre, la seguiva anche quando non c’era.

E lui non c’era, in quel momento.

E non era lì nemmeno il giorno prima.

Nemmeno quello prima ancora. E nemmeno quello prima ancora …

E provò ancora quella dannata stretta al cuore, più serrata, più implacabile.

Non sapeva a cosa fosse dovuta. Forse non voleva nemmeno saperlo. Ma si ostinò a fissare quella porta, pregando che si aprisse.

“Ma non si preoccupi: distruggermi la vita è la mia occupazione preferita, ma alla fine mi riprendo, bene o male. Me lo ha detto Iori-kun una volta, e forse ha ragione.” Rise, stupendosi del suo tono lievemente isterico. Doveva essere davvero matta. “Per favore, non mi guardi più come se dovessi cadere a terra morta, o qualcosa del genere … Andrà tutto alla grande, basta solo aspettare. Andrà tutto benissimo.”

Sembrava autoconvinzione: se ne rese conto appena si sentì ripeterlo come una cantilena interminabile. Sospirò, furente con se stessa. Come aveva potuto diventare così patetica? Non aveva più nemmeno la certezza che tutto si sarebbe sistemato, nella sua testa.

D’altronde, non poteva più pensarlo. Non dopo quella notte.

Non dopo quel …

“Rumiko-chan, posso concederti un periodo di pausa dal lavoro, se vuoi.”

L’affermazione calda e pacata la colpì come uno schiaffo. Miyako sussultò, e in un attimo ripensò al buio, al silenzio del suo appartamento così grande e spaventoso. Il gelo la invase.

Afferrò le mani della signora Sato, in preda al panico. “No! Per favore, Sato-san, non voglio una pausa! Voglio venire qui, lei sa quanto ne ho bisogno! La prego … starò bene, lo giuro, farò di tutto per star bene! Ma non mi mandi via …”

Perché tremava sempre come una foglia, perché aveva sempre i nervi a fuor di pelle? Forse aveva cominciato a temere le sue stesse reazioni. Era assurdo.

La donna sembrava improvvisamente attonita: forse non si aspettava una reazione del genere. Erano in due a pensarlo, allora. “Non ti sto mandando via: è solo un periodo di pausa per stare meglio, non sarà lungo.”

“Magari potrebbe essere solo un giorno, un giorno di riposo.”

La testa aveva preso a pulsarle terribilmente, con fitte acute alle tempie.

Non era pronta a riascoltare un discorso del genere. Non dopo quello che era successo con lui. Non dopo quelle parole, quel dolore, quel … desiderio di accettare così sbagliato …

Lasciò bruscamente le mani della signora Sato, lasciando cadere le braccia lungo i suoi fianchi. Abbassò lo sguardo e il capo, temendo che la donna potesse leggerle negli occhi ciò che sentiva così forte dentro di sé.

Lui, così accorato e preoccupato, non era lì da ben sei giorni.

“Io non voglio una pausa. Non mi serve nemmeno un giorno. Detesto le pause.” Sussurrò, sforzandosi in ogni maniera di crederci.

E rimase in silenzio, non osando guardare la sua interlocutrice, mentre si sentiva soffocare da quei sentimenti che non riconosceva.

O forse che non voleva riconoscere, perché facevano troppo male.

Una mano calda si posò sulla sua spalla. Miyako si aggrappò a quel rassicurante senso di essere amata da qualcuno, malgrado tutto quello che aveva fatto.

“Io voglio solo che tu stia bene”, le disse piano, un affetto profondo che trapelava da ogni sua parola. “Mi va bene se preferisci lavorare qui, se ti fa sentire meglio non sarà questa anziana seccatrice ad allontanarti. Ma … Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, fidati di me e chiedila senza problemi. Ti verrò incontro.”

Cara, affezionata signora Sato. Non sapeva se meritava tanto, ma sapeva che non avrebbe resistito nemmeno un istante in negozio se non ci fosse stata lei a sostenerla.

Anche in quel momento sapeva che Satsu aveva preso il suo carattere d’oro da sua madre.

La guardò, mentre un sorriso di gratitudine incommensurabile affiorava sulle sue labbra. Come avrebbe fatto senza di lei? “Le voglio davvero bene, Sato-san. E … se volessi ringraziarla sul serio di tutto quello che fa per me, dovrei dirle grazie per otto anni consecutivi!”

La donna rise, scuotendo la testa, e Miyako non poté non unirsi a quella risata più tranquilla: adorò quel senso di improvvisa leggerezza che si era instaurato tra loro. Era bello poter dimenticare il vuoto che sentiva crescere sempre di più dentro di lei, era bello poter trovare, per qualche istante, conforto, quando erano sei giorni che la sua ansia andava peggiorando.

Fu un attimo.

Improvvisamente un senso di oppressione le congelò il sorriso sulle labbra, e lei si irrigidì. Era una strana sensazione, come l’irrazionale sentore di …

Essere osservata.

Miyako si voltò di scatto, conficcandosi le dita nel palmo delle mani quando le strinse spasmodicamente.

C’era una nuova cliente che si avvicinava verso di lei, con corti capelli rossicci e un’aria timida. Reggeva almeno sei volumi tra le mani, ed era uno degli spettacoli più particolari e stravaganti che le fosse capitato di osservare quel giorno dietro alla cassa. Avrebbe attirato l’attenzione di chiunque.

Eppure, lo vide ugualmente.

Un attimo prima che sparisse dietro scaffali e scaffali pieni di libri, lo vide camminare spedito, il viso rivolto altrove, i corti capelli neri che avrebbe riconosciuto ovunque.

Annaspò, in cerca d’aria, ma il suo corpo non le diede il tempo di ragionare, come se rispondesse di impulsi totalmente opposti a quelli dettati dal suo cervello.

Ma non le importò più di tanto.

Si allontanò rapidamente dalla cassa, quasi correndo, gli occhi fissi su quello scaffale; a malapena sentì la signora Sato protestare sulla sua improvvisa fuga, ma non trovò la forza né un motivo plausibile per spiegarle questa follia.

Doveva essere lui. Non c’era altra spiegazione, pensò freneticamente, rischiando di urtare clienti, inciampare su un bambino di pochi anni e far cadere una pila precaria di libri.

E si ritrovò nel reparto di libri gialli prima di averlo realizzato, e più tardi di quello che le sue gambe avrebbero voluto. Si accorse di ansimare, ma non era per la corsa. Doveva essere per l’ansia.

Si guardò intorno, con una frenesia che le sarebbe parsa folle ed eccessiva, se avesse avuto tempo per pensare. Cercava, osservando ogni cliente con rapida insistenza, incalzata dal battito furioso e impaziente del suo cuore.

 E quando lo individuò, lì sul divanetto per la lettura, l’aria assorta e un libro che girava e rigirava tra le mani senza mai aprirlo né sfogliarlo, ebbe la spaventosa sensazione che le sue gambe avrebbero ceduto senza un senso apparente, incapaci di affrontare l’ondata di sensazioni che si susseguivano senza un ordine dentro di lei.

Si appoggiò allo scaffale più vicino, mentre si avvicinava cautamente, accertandosi sempre di non essere osservata dai suoi troppo attenti occhi azzurri: forse non avrebbe retto anche quell’ulteriore colpo. Non così all’improvviso, confusa e spossata da sentimenti che non capiva appieno.

Era tornato. Ichijouji Ken era tornato.

E ora era fermo lì, tanto immobile e pensieroso che si sarebbe quasi detto una statua. Tanto perso nel suo mondo interiore da non accorgersi della giovane avventata che ancora non era riuscita a distogliere lo sguardo da lui, e che era di fronte a lui a pochi passi di distanza.

E teneva gli occhi bassi, fissi sul libro con cui giocherellava. Tanto bassi che non riusciva a vederne il colore, così intenso da mozzarle il respiro in gola.

Miyako si sorprese a respirare di nuovo, profondamente, quasi come se non avesse più respirato da ore, forse giorni. E fu in questo momento di maggiore razionalità che si rese conto di un particolare che aveva praticamente ignorato in tutto quel tempo, presa dallo stupore e dall’incredulità.

Ken leggeva spesso, seduto su quel divanetto. Ma quel giorno, non lo aveva nemmeno sfogliato, quel grande volume che teneva tra le mani.

E quel movimento delle mani aveva un che di nervoso.

Come se avesse un qualche tipo di problema, che rendeva assente la sua espressione, che aveva fatto in modo che neanche la salutasse all’entrata, che si rifugiasse lì silenzioso come il calare della notte, senza dire altro.

Senza una parola, una sola parola di spiegazione.

Un senso bruciante di frustrazione sommerse i suoi pensieri. Così come la sua prudenza, difesa con tutta la determinazione di una ragazza sprovvista di questa caratteristica.

“Ciao.” Si sentì dire, e solo per un attimo la parola appena pronunciata le parve così innaturale che un terribile senso di aver sbagliato tutto le urlò nella testa che doveva andar via, che si era di nuovo esposta troppo e nella maniera più sbagliata. Perché lei non avrebbe dovuto farsi vedere: avrebbe dovuto tornare alla cassa, sollevata all’idea di non essere stata osservata, all’idea di non dover fingere con puro istinto di sopravvivenza di essere Miyazawa Rumiko, e di esserlo sempre stata.

Ma fu solo un attimo.

Ken parve rianimarsi all’improvviso, alzando di scatto la testa per focalizzare da dove fosse provenuta la voce inaspettata. E poi sgranò gli occhi, e scattò in piedi, come se fosse stato colto in fragrante durante una rapina. Tutto quello che riuscì a fare fu fissarla, quasi incredulo, sicuramente spaesato, come se non sapesse cosa fare. Tentò di parlare, aprendo la bocca per un istante, ma all’improvviso la sua espressione trasmetteva disagio. La richiuse senza emettere alcun suono.

E Miyako si ritrovò a fissare quelle labbra, improvvisamente impotente di fronte al subbuglio interiore che aveva cercato di nascondere anche a se stessa, provocato da quel sogno. Quel dannatissimo sogno.

Quel sogno privo di senso. Perché lei non avrebbe dovuto sognare una cosa del genere, tanta vicinanza, tanta arrendevolezza. O quelle labbra tanto perfette, dal sapore sconosciuto, mentre  …

Il cuore accelerò così tanto e così rapidamente i suoi battiti che Miyako si chiese semplicemente perché ancora non scoppiava. Poteva quasi avvertirne lo sforzo.

E ancora una volta agì d’istinto, incurante di tutto. Non poteva ragionare, non così. “Sei tornato, allora: era da un po’ che non ti si vedeva”, si ritrovò a dire, ancora braccata dagli occhi sempre più sgranati di lui. Non riusciva a distoglierne lo sguardo, qualunque cosa provasse a fare. “Pensavo che questo reparto avesse perso ogni attrattiva per te, ma a quanto pare mi sbagliavo!”

Si chiese, disperatamente, perché lui si limitava a fissarla senza dire altro. Il disagio e l’imbarazzo crebbero a tal punto che Miyako si ritrovò ad arrossire furiosamente, maledicendosi per la sua voglia irrefrenabile di parlare con chi doveva evitare con tutte le sue forze, senza eccezioni.

Infine, lui fece un incerto cenno con il capo. “Rumiko-san”, disse poi, a mo’ di saluto. Esitò, e per la prima volta Miyako lo vide distogliere lo sguardo, puntandolo invece sullo scaffale al quale lei era appoggiato. Le mani di lui strinsero con più forza la copertina del libro che reggeva ancora tra le dita.

Era strano: non lo aveva mai visto comportarsi così. E tra i suoi incoerenti pensieri confusi, lei sapeva che la sensazione di essersi persa qualcosa sul conto di lui era la più insostenibile. Si sentiva ancora più vulnerabile al pensiero di non avere nemmeno una minima idea su quali sarebbero state le sue prossime mosse.

“Ti senti bene? Hai un’aria abbastanza sconvolta”, insistette, ostinata a comprendere quello che lui si divertiva a nasconderle. “Come se avessi visto un fantasma.”

“No, sto bene.” Ken scosse la testa, deciso. Poi la guardò ancora, e la sua espressione era uno strano miscuglio di imbarazzo e curiosità. “Solo … non mi aspettavo di vederti qui. Di solito sei alla cassa …”

L’affermazione pacata ma perplessa ebbe il potere di farla sentire ancora più esposta, e ancora più stupida.  Era vero: era quasi irriconoscibile, con quel desiderio spasmodico di non stare a guardare, di reagire in qualche maniera. Ma più lui lo metteva in risalto, con quello sguardo così disarmante, più qualcosa dentro di lei protestava.

Era totalmente colpa sua.

Incrociò le braccia, guardandolo con aria di sfida. “E tu, di solito, sei nel mio negozio ogni giorno, eppure è quasi una settimana che non ti presenti. Mi sono incuriosita e sono venuta a dare un’occhiata, tutto qui.”

Incuriosita.

Magari fosse stato solo quello. Miyako aveva avvertito una sensazione di … paura. Una paura glaciale, che le aveva invaso corpo e anima. In qualche modo aveva sentito che doveva sapere cosa fosse successo a quell’assiduo frequentatore di quella libreria, perché sapere che poteva star macchinando qualcosa con Ichijouji Osamu, che poteva averla scoperta, la gettava in un’angoscia mai sentita prima.

Doveva essere così.

Scosse la testa, tentando di smettere di pensare, e sentì il bisogno di osservarlo di nuovo. E si ritrovò quasi a studiarlo, nel tentativo incomprensibile di leggere le sue sensazioni sul

suo viso spiazzato.

Non le importava nulla, nulla, di avergli detto qualcosa di troppo rivelatore. Sentiva che al momento era un problema secondario.

Voleva solo una spiegazione plausibile per averla tormentata con la sua assenza, ancora di più rispetto all’angoscia giornaliera dovuta alla sua presenza.

Non aveva aspettato altro per tutta la settimana. Meritava una dannata spiegazione, dato che era diventata la sua ossessione, che fosse presente o assente, nel sogno o nella realtà.

Parla, per favore. Non posso reggere.

“E’ che …” Ken sembrava non sapere proprio come comportarsi, e Miyako non riuscì ad interpretare la sua espressione. Attese, trepidante. “Non ho potuto trovare nemmeno un momento a disposizione, questa settimana.”

E poi tacque, gettandole solo un’unica occhiata di sottecchi, prima di distogliere lo sguardo.

Miyako lo guardò, incredula, totalmente sconvolta. Allora era questa la spiegazione? Poco tempo libero giustificava una delle settimane più tormentate degli ultimi periodi? Poco tempo libero, che prima gestiva così bene, adesso lo portava ad allontanarsi dalla libreria?

La mascella stretta con forza per non urlare le faceva male.

“Sei un maniaco della lettura davvero strambo, Ichijouji Ken”, considerò infine, distogliendo prontamente lo sguardo quando quello di lui aveva improvvisamente provato a scavare a fondo dentro di lei. “Avrei giurato che senza libri ti mancasse quasi l’ossigeno, visto il tempo e l’attenzione che dedichi loro quando sei qui. Eppure, degli impegni sono davvero riusciti a portarti via di qui: sono davvero sorpresa, non me lo aspettavo.”

Ken ridacchiò all’improvviso, col suo tono di voce pacato e, per un istante, sereno, a discapito di quelle mani che ancora stringevano spasmodicamente quel gran volume.

Era qualcosa di strano, la sua risata. Non era rumorosa, o solare, o eccessivamente coinvolgente: era sempre educata, ma piena di semplice e contenuto divertimento tranquillo. Qualche volta lei lo faceva ridere, e la cosa la stupiva, perché non capiva proprio cosa lo divertisse tanto del suo comportamento, né se avrebbe dovuto sentirsi offesa da questa reazione.

Ma sapeva che, in qualche maniera, ascoltarla la tranquillizzava. Sembrava sciogliere qualche nodo, dentro di sé.

Un’altra delle sue reazioni che non voleva davvero spiegarsi.

“Non sono un maniaco di gialli, Rumiko-san”, obiettò, sulle labbra un breve sorriso. “Leggere è un passatempo che coltivo appena possibile, ma non sempre ho modo di farlo.”

“O forse ti sei finalmente trovato sommerso da una valanga di libri, e hai deciso l’astinenza dalla libreria per una settimana. Chi può dirlo?”

E quando aveva cominciato a sorridergli? Quando le sue labbra si erano incurvate in quel sorriso divertito, incuranti della paura, della stanchezza, della delusione e del dolore?

Sconvolta, sentì il cuore in gola, e il sorriso scemare, e arretrò impercettibilmente di un passo. Erano emozioni fuori controllo, emozioni che era suo dovere tenere a bada, e temere, come fossero le sue più grandi nemiche.

Doveva allontanarsi all’istante. Aveva la sensazione che un nulla avrebbe potuto smascherarla, vulnerabile e fragile come si sentiva in quel momento.

“Comunque, dovrei tornare a lavoro, non posso restare qui a parlare. Anche perché tu stavi … leggendo?” Le scuse a raffica che aveva cominciato a enumerare si erano interrotte sulla fine della frase, perché Ken aveva improvvisamente sussultato e il suo viso era arrossito lievemente. “Ho lasciato la cassa da un bel po’, e dato che ci sono molti clienti, non posso davvero restare. Scusa se scappo così, ma non posso trattenermi qui.”

 Confusa, e immensamente turbata, lo vide ancora distogliere lo sguardo da lei, e concentrarlo altrove.

Come se fosse un qualcosa che era preferibile non guardare, quasi se ne potesse rimanere scottati dopo un solo istante.

L’aveva guardata appena, quel giorno. Troppo assente per tormentarla con domande scomode, troppo evasivo per metterla a disagio con occhiate troppo attente.

Troppo disinteressato per reagire in qualche maniera alla sua decisione di andare via, e sicuramente desideroso di tornare ai suoi pensieri solitari.

Elusivo come le sue risposte. Come le sue occhiate di sfuggita. Come quell’accanita decisione di rimanere immobile a fissare quel dannato libro, dopo sei giorni di totale assenza.

Lottò contro la nausea crescente che quasi le impediva di parlare, ripetendosi ancora una volta che avrebbe dovuto riposare di più, quella notte. Era debilitata, ecco qual era la verità. “Mi trovi lì, se hai intenzione di comprare quel libro. Sbaglio o ti interessa particolarmente? Quando avrai finito di sfogliarlo … ti aspetto lì, allora.”

Parlava a raffica, e si ritrovò a cercare scioccamente il suo sguardo.

Ma quando lui esaudì la sua preghiera inespressa, un’esitante aria di scusa si era già fatta largo sul suo viso, ancora colorato di rosso. Trasse un respiro profondo, a malapena sufficiente a rendere le sue frasi udibili.

“Non posso trattenermi. Devo … Devo andar via subito, mi dispiace.”

Miyako batté le palpebre, come colpita da uno schiaffo.

Sentiva di non aver nemmeno recepito a dovere il messaggio. Un opprimente gelo le aveva invaso i sensi: lo sentiva, forte e prepotente, fuori e dentro di sé. Come una minaccia invisibile, che aveva preso all’istante le fattezze di Ken, immobile e a disagio.

Anche il respiro le si era congelato: era cristallizzato in gola, rendendo impossibile deglutire.

“Eh?” Chissà come, solo il suo cuore era attivo, palpitava convulsamente, come inseguito da un nemico invisibile. “Vai … adesso?”

Ken non rispose. Annuì soltanto, gli occhi ancora fissi su quel dannato libro.

Scosse la testa, cercando di annientare quel senso crescente di panico che stava cercando di soffocarla con le sue spire. “Io davvero non ti capisco. Non sei arrivato da poco? Non hai nemmeno osservato i libri arrivati due giorni fa! Non ha senso venire qui dentro solo per star seduti per cinque minuti e poi scappare come … come …”

La voce le si spense. “Io non capisco”, sussurrò, e le parve che le forze la stessero abbandonando completamente. Si appoggiò con la schiena a quello scaffale, ma le parve che traballasse anche quello.

Ken esitò, per poi avanzare di un passo verso di lei. Lei si irrigidì, e per reazione istintiva si portò una mano alla falsa chioma nera.

Tese il braccio verso di lei, e per un istante, uno sciocco istante, Miyako serrò gli occhi, incassando la testa tra le spalle.

Attese, non osando fare alcun rumore.

Ma non successe nulla.

Aprì gli occhi, sorpresa e perplessa, e sussultò, presa alla sprovvista.

Ken le stava porgendo il libro, immobile, serio, quasi imbarazzato per qualche motivo. E la forza del suo sguardo la colpì.

Perché era fermo, intenso, tremendamente bello. Sembrava che i suoi occhi fossero accesi di un sentimento incomprensibile, ma nel tumulto delle sensazioni suscitatele Miyako credette di scorgere la supplica nel suo volto.

Parlò, con voce instabile. “Forse verrò in un altro momento a prendere questo … libro. Adesso mi è davvero impossibile decidere. Ma … aspetterò.”

E la sua voce aveva stranamente indugiato su quel termine, con tutta la forza di un’emozione che sembrava una scusa. Una scusa accorata per quello che stava facendo.

Miyako, confusa, scombussolata, non riusciva più a comprendere. Prese quel libro, con mani tremanti, desiderando con tutte le sue forze di non sfiorare quelle di lui.

Come avrebbe reagito anche a quello?

A pensarci, come stava reagendo? Cosa c’era di così insopportabilmente soffocante dentro il suo petto?

Non dava più senso a nulla. Né al fatto che quel volume mai aperto ora era tra le sue mani, né all’impercettibile –forse anche immaginario- sussulto di Ken, che all’improvviso sembrava volersi riprendere il libro. Nemmeno alle sue continue occhiate ansiose.

Aveva gli occhi puntati su di lui, ma non era a lui che stava pensando. Pensava a se stessa. Pensava al suo gelo interiore.

Perché? Perché, perché, perché?

E poi Ken sospirò, allontanandosi. “Buona giornata, Rumiko-san.”

Si allontanò con la stessa velocità con la quale era venuto, senza voltarsi mai indietro.

Portandosi via la sua inutile barriera, la sua inutile maschera priva di credibilità.

E lasciando indietro tutto il resto.

La testa le scoppiava: non le riusciva più di stare in piedi. Credeva di non avere nemmeno la forza di pensare. Non aveva alcun residuo di resistenza a quello che provava.

Si lasciò cadere sul divanetto dove aveva scorto il ragazzo quando lo aveva seguito.

Cosa avevo in mente? Cosa volevo … cosa voglio da lui?

E all’improvviso, ogni spiegazione logica che aveva provato a dare fino a quel momento venne meno, accartocciandosi su se stessa, impotente, e mostrando la vera risposta.

La vera spiegazione.

E il dolore dovuto alla caduta di ogni barriera fu così intenso da trasformarsi in lacrime trattenute tra le ciglia, nel tentativo categorico di non lasciarsi andare ad un pianto liberatorio.

Si sentiva così piccola. Così sciocca. Così sola … Così colpevole.

La sua colpevolezza l’aveva condannata, isolandola per sempre dai suoi cari, costringendola a fingere per anni ed anni fino a straziarsi il cuore con sorrisi troppo ampi e tranquille risate troppo false.

La sua colpevolezza l’aveva portata a temere in ogni maniera l’insistente presenza di Ichijouji Ken, ad allontanarla con tutte le sue forze, fino a perdere la ragione, la determinazione, perfino il sonno.

Difendersi. Scacciare. Cercare la propria sicurezza. Ecco le conseguenze della sua colpevolezza. Un’orrenda responsabilità, decisa a strapparle via anche l’anima e i sentimenti.

Forse c’era riuscita. Lo aveva desiderato tanto, e forse era riuscita nel suo intento, facendo in modo che Ken non capisse mai di avere di fronte a sé la stessa ragazza che Osamu cercava con tutte le sue forze. Forse la sua incostanza, l’impossibilità di aprirsi con lui lo avevano, infine, allontanato. Forse non era nemmeno più interessato a parlarle, forse il rifiuto istintivo che aveva seguito la proposta del giovane di vedersi fuori dalla libreria lo aveva semplicemente stancato.

In fondo, che senso aveva? Lei non poteva aprirsi. Lui non poteva farci nulla.

Ma era questo a farle più male.

Lei c’era riuscita. E qualcosa di profondamente stupido, dentro di sé, strillava il suo dolore, perché in tutto quel tempo non aveva mai desiderato altro che capirlo, capirlo e farsi capire da lui.

Aveva desiderato le sue attenzioni disinteressate, la sua proposta esitante ma sincera, la totale mancanza di malizia nei suoi disarmanti occhi azzurri.

Aveva desiderato i suoi discorsi, e le sue risate, e la sua educata costanza e insistenza, e la sua preoccupazione appena accennata quando il pallore della sua pelle era sempre più evidente.

Aveva desiderato sentirsi sorridere spontaneamente, e poter scordare, di fronte a lui, la ragazza che nascondeva dietro parrucca e lenti da vista. Aveva desiderato la semplicità delle sue reazioni istintive quando lui la sorprendeva.

Ma c’era riuscita. E lo aveva allontanato, stancato. Era diventata inutile per lui.

E ora cosa avrebbe dovuto fare?

Raccogliere i cocci, andare avanti come se niente fosse? Ancora abbandonata, ancora dimenticata?

Ancora sola con se stessa, con Inoue Miyako e i suoi fallimenti?

Non le era rimasto altro. Forse Ken sarebbe tornato ancora, ma non sarebbe più stata la stessa cosa. Sarebbe tornato solo per essere un cliente come tanti, solo concentrato nella lettura di libri enormi e impegnativi …

Come quello che le aveva dato.

Lo guardò, sfocato attraverso le lacrime. Non aveva nemmeno usato la sua solita cortesia, riponendolo al suo posto di sua iniziativa. Lo aveva dato a lei, come se questo potesse lasciarle una minima traccia di ciò che aveva aspettato per giorni e che era sparito di nuovo in un battito di ciglia.

Lo aveva osservato per tanto tempo, preferendo la sua vista a quella di lei.

Un libro come tanti. Eppure non aveva nemmeno voluto comprarlo, e glielo aveva restituito così com’era, con quella copertina rigida, quel titolo a caratteri bianchi, con quel … foglio di carta che sporgeva leggermente dalle pagine chiuse.

Miyako si immobilizzò.

Si asciugò le lacrime dagli occhi, osservò meglio.

Sporgeva, lievemente obliquo, perfettamente reale. Sporgeva, e sembrava annunciare spavaldamente che non era quello il suo posto, perché non era un libro di biblioteca: non poteva essere stato usato da nessuno.

Ma era stato maneggiato per così tanto tempo …

Mani tremanti per l’agitazione e la fretta sottrassero bruscamente il foglio dalle pagine immacolate del volume. Mani piene di determinazione spiegarono il biglietto, mentre gli occhi castani brucianti per le lacrime trattenute scorrevano rapidamente il suo contenuto.

Se avessi desiderato conoscere la tua risposta, avrei sicuramente chiesto di persona cosa ne pensassi.

Non voglio saperla. So che i tuoi impegni in negozio ti tengono molto occupata, e che difficilmente puoi trovare una sosta. So che lavorare ti piace.

Non voglio costringerti ad accettare. Solo proporre.

C’è un piccolo parco tranquillo proprio dietro la libreria, a pochi metri da qui. Molte volte è l’ideale per rilassarsi se si accumula stress, almeno per me. Domani pomeriggio sarò lì dalle 18.

Se riuscirai a liberarti, se avrai voglia di accettare la mia proposta, mi ritroverai davanti alla fontana centrale.

Sentiti libera di non venire, se lo desideri: non avrò nemmeno bisogno di sentirlo dire da te, e non voglio davvero che tu ti scusi. Capirei.

Ti aspetterò in ogni caso, qualunque cosa tu decida.

Ken

Quante volte rilesse quelle parole, sempre più incredula, sempre più sconvolta, non lo seppe mai.

Ma seppe di essere stata una stupida a non capire, a non comprendere i suoi atteggiamenti.

Corse, la lettera tra le mani, senza più respiro. Lo cercò, affannandosi anche più di quanto avesse fatto tempo prima.

E c’era solo la sua assenza in libreria.

Corse fuori, spalancando la porta e fermandosi, ansimando, sul marciapiede.

Ma, tra milioni di persone, uomini, donne, bambini, non riuscì ad individuarlo.

Era già andato via, silenzioso e rapido, sfuggendo una risposta e lasciando indietro domande e dubbi, in quel sole caldo, in quel vento leggero.




Eccomi qui con un nuovo aggiornamento :) l'ultimo che pubblico nel periodo estivo. Sarò al mare per quasi tutto il restante periodo estivo, così non so quando e se avrò tempo per aggiornare ... ne ho approfittato ora, che è più sicuro :) colgo l'occasione per augurare un buon proseguimento di vacanza a tutti ... e ovviamente per ringraziarvi. E' grazie a voi e al vostro sostegno che questa storia va avanti ^^
E ora si accettano scommesse ... Miyako accetterà o no di presentarsi all'appuntamento? :P
Per Shine, che ha pensato erroneamente che la recensione avrebbe potuto non piacermi come le altre ... non è davvero così! L'ho trovata molto interessante, soprattutto perché hai saputo cogliere alcuni lati di Takeru che sono un po' complicati. E' davvero la capacità di giocare che aveva scordato di avere ... ed è per questo che non riusciva più a scrivere. Sono contenta che tu l'abbia capito :) mentre leggevi hai pensato a Michael Jackson? Beh ... onorata ** non c'è complimento migliore che potresti farmi! Mi ispiro soprattutto a lui quando parlo dei bambini ;) E per quanto riguarda la Taiora, posso solo dirti: aspetta e vedrai, come sempre! Sempre meglio lasciare la suspence! Sperando di risentirti presto, ti mando un bacione e un grazie!
li_l, i tuoi commenti non mi hanno offesa, anzi. Sono contenta che tu abbia deciso di dirmi la tua, e per carità, se un autore non sapesse ricevere critiche ... :) Ti dirò, avevo già pensato a problemi di questo genere, ma ho scelto questo tipo di struttura intenzionalmente. All'inizio, le due diverse vicende devono essere necessariamente separate, e quindi non c'è tutto questo bisogno di consequenzialità. Quando le due vicende si intrecceranno -e succederà in seguito-, ci sarà molta più corrispondenza di tempo nelle vicende. Oltretutto, di solito organizzo gli avvenimenti in modo da far passare circa lo stesso tempo da una parte e dall'altra, proprio per non creare troppo caos. :) Per quanto riguarda il consiglio di spezzare i capitoli in diversi punti di vista: di solito preferisco analizzare un solo personaggio a capitolo per andare a fondo nella sua introspezione, ma posso dirti che non mancheranno capitoli a punti di vista multipli. Se pensi al capitolo 15, già l'ho messo in atto! In seguito saranno più frequenti. Infine, il problema Hikari ... Mi rendo conto quale sia il rischio che corre, e ho capito qual è il tuo punto di vista. Ma io cerco di attenermi il più possibile all'anime, e lì non rappresenta forse un personaggio fondamentalmente statico? Non dico che non abbia il suo spessore, i suoi problemi e i suoi complessi, ma di solito tende ad essere un po' il punto fermo del gruppo. Sappi, comunque, che non ho intenzione di stereotiparla: sotto l'ottica di Takeru lei è, al momento, un po' "divinizzata", ma ti assicuro che non è così. Non resterà immutata, e avrà un bel po' di problemi a cui pensare ... oltre ai dubbi e alla confusione. Solo una cosa non mi è chiara: come mai paragoni Takeru a Renzo? Non ci assomigliano granché, dopotutto ...
Dopo tutta questa spiegazione, spero che non te la prenderai se, per ora, il progetto resterà immutato in quanto a struttura. Se avrai ancora piacere di seguirmi, sarò la prima ad essere contenta :) grazie molto per i consigli comunque!
Mystery Anakin, bentornata tra noi :) Sì, purtroppo la storia di Miyako non è delle più felici ... e probabilmente le cose sarebbero cambiate, se i suoi fratelli si fossero interessati della sua "questione" -non ti svelo nulla comunque, è inutile che speri :P-. Purtroppo è andata com'è andata, e non possono che subirne le conseguenze. Ma il problema è stato solo minimizzare quello che lei provava, perché in realtà le hanno sempre voluto bene... Io mi appunto i sospetti sul padre di Keiji senza rivelarti nulla! ^^ Comunque, sono contenta che la storia inventata da Takeru ti sia piaciuta! Anche se è stata totalmente improvvisata, un po' come fossi io Takeru ... è uscita da sola, giuro o.o per questo sono doppiamente felice ti piaccia! Fammi sapere se questo ti piace allo stesso modo, un bacione ;)
Che dire, gente ... a risentirci! :)

Padme Undomiel
   
 
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