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Autore: samek    16/08/2010    3 recensioni
Risponde alla challenge "Doctor Holmes" di holmes_ita, ideata su questo prompt:Sherlock Holmes è in realtà il Dottore, ma l’ha dimenticato. Ha usato l’orologio da taschino dei Signori del Tempo per trasformarsi in un essere umano, e questo oggetto ha creato per lui dei ricordi fittizi, regalandogli una nuova vita.
Watson trova l’orologio, lo apre – o lo fa aprire ad Holmes – e lui recupera i suoi ricordi. Poi riparte con il TARDIS, e Watson rimane il suo fedele compagno, nell’universo così come lo è stato nei suoi casi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Tu sei

Fandom: Doctor Who/Sherlock Holmes;

Pairing: Holmes/Watson;

Altri Personaggi: Mycroft Holmes, Dottore;

Rating: Pg13;

Genere: Angst, Introspettivo, Romantico.

Warning: Crossover, Pre-Slash;

Beta: Narcissa63;

Summary: Risponde alla challenge Doctor Holmes di holmes_ita, ideata su questo prompt:

Sherlock Holmes è in realtà il Dottore, ma l’ha dimenticato. Ha usato l’orologio da taschino dei Signori del Tempo per trasformarsi in un essere umano, e questo oggetto ha creato per lui dei ricordi fittizi, regalandogli una nuova vita.
Watson trova l’orologio, lo apre – o lo fa aprire ad Holmes – e lui recupera i suoi ricordi. Poi riparte con il TARDIS, e Watson rimane il suo fedele compagno, nell’universo così come lo è stato nei suoi casi.

Note: Ho fatto il possibile per mantenere tutti i personaggi IC, tuttavia non è facile fondere in un unico uomo i protagonisti di due diversi fandom, quindi abbiate pazienza se in qualche punto vi sembreranno lievemente OOC; d’altronde sono calati in una situazione straordinaria.

 




DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.

Doctor Who, ugualmente non mi appartiene, è di proprietà della BBC che ne detiene tutti i diritti.

 

 

The Man in the Clock.

 

Le figlie della memoria sembrano produrre

un doloroso fruscio nel buio.*

 

Al tempo a cui risale questa storia, abitavo con Sherlock Holmes ormai da alcuni anni e ho l’ardire di affermare che, già allora, lo conoscessi piuttosto bene. Quell’uomo brillante non aveva un carattere facile, ma ogni sua caratteristica faceva parte del fascino del suo genio.

Avevo ormai imparato che, in tempi normali – a meno che non fosse prostrato da un’indagine particolarmente impegnativa appena conclusasi – si alzava abbastanza presto, se non addirittura prestissimo, quando era impegnato in un caso. Fu per questo che una mattina, pochi giorni prima di Natale, non vedendolo ancora sveglio, bussai con una certa apprensione alla porta della sua camera; temevo non si sentisse bene. Solo dopo qualche minuto, non avendo ricevuto risposta, abbassai la maniglia e socchiusi l’uscio.

La stanza era immersa nell’oscurità, Holmes dormiva ancora profondamente ed il suo sonno pareva agitato. Mi accostai a lui e gli toccai la fronte, per controllare che non avesse febbre, ma quando gli accarezzai il viso si svegliò di soprassalto.

Aveva il respiro secco ed ingolfato di un uomo braccato, ed il suo sguardo sfocato ed allarmato era quello di un condannato inseguito da demoni senza nome. Il silenzio scese pesante nella camera, denso e buio come inchiostro, ed istintivamente gli posai una mano sulla spalla, nel tentativo di richiamarlo nel nostro mondo, strappandogli un sussulto.

Per un attimo mi guardò come se non mi riconoscesse, poi biascicò con voce rauca di sonno: «Watson, cosa ci fa lei qui?»

«Perdoni questa invasione della sua intimità, ero preoccupato per lei, vecchio mio. È quasi mezzogiorno e lei ancora dormiva» spiegai. «Si sente bene?» domandai poi, perché pareva ancora stravolto.

«Sì… sì, era solo un sogno. Un sogno bizzarro. Ne faccio spesso» rispose scuotendo il capo, come per allontanare gli ultimi strascichi onirici. «Mi alzo subito» mi rassicurò, ed io lasciai la stanza per permettergli di cambiarsi.

Tuttavia, rimase ansioso e pensieroso per tutta la durata del pranzo, sinché non mi schiarii la voce e provai ad interrogarlo. «Qualcosa non va? Lei è preoccupato».

«No, va tutto bene, amico mio. Però quel sogno…» si portò un mano al mento ed i suoi occhi scrutarono un punto imprecisato della parete alla sua destra, ma era chiaro che stesse osservando qualcosa di molto più distante, «mi ha lasciato addosso uno strano sentimento… nostalgico. Ho come l’impressione di aver dimenticato qualcosa».

Da che lo conoscevo, non avevo mai visto il mio amico così confuso, ed era una sensazione disorientante. Ebbi l’impressione che, mentre Sherlock Holmes vacillava, l’intero mondo stesse facendo lo stesso con lui – o forse era solo il mio, di mondo, a vacillare.

«Perché non mi parla di questi sogni? In fondo, oltre ad essere suo amico, sono un medico» tentai di persuaderlo.

Holmes mi concesse uno sguardo meditativo e sulle labbra sottili gli si dipinse un sorriso di scherno indirizzato, reputai,  a quelle fantasie oniriche. «In questi sogni, poiché ne ho fatti diversi, ma tutti dello stesso stampo, non sono come lei mi conosce. Sono una sorta di… avventuriero, mi chiamo il Dottore e viaggio attraverso il tempo e lo spazio».

Non riuscii a dissimulare il mio stupore. Sembravano dei sogni così frivoli, per essere quelli di Sherlock Holmes, che non potei fare a meno di sorridere. «Sembra divertente» commentai.

«Oh sì, lo è» confermò con un certo malcelato entusiasmo, che gli avevo visto esprimere solo davanti ad un caso particolarmente ostico.

«Cos’altro ricorda?» chiesi incuriosito.

«Oh, le cose più assurde. Eventi passati, eventi futuri, altri pianeti, mondi paralleli, mostri, uomini di metallo… ed io, cioè, il Dottore che ogni volta salva il mondo dalla catastrofe... o quantomeno ci prova» mi raccontò, sempre con quello sguardo assorto. «E c’era… un orologio» aggiunse quasi in un sussurro.

Si alzò e con passi lenti, circospetti come quelli di un sonnambulo, raggiunse la propria scrivania ed aprì il cassetto, con la chiave che teneva attaccata alla catena del panciotto. Prese qualcosa dal suo interno e si appoggiò con i fianchi allo scrittoio, contemplandolo in silenzio.

Mi avvicinai a lui per capire di cosa si trattasse e scoprii che stringeva tra le mani una cipolla. Era antica, d’argento, con il coperchio finemente inciso da disegni elaborati; distinsi degli elissi, forse dei pianeti, stelle e cerchi concentrici.

«È un orologio molto bello. Non l’ho mai vista adoperarlo, prima d’ora» parlai a bassa voce, perché temevo che, se avessi usato un tono più forte, l’avrei fatto nuovamente sussultare.

«È rotto» mi spiegò «non l’ho mai aperto».

«Allora come fa a saperlo?» domandai perplesso.

Mi aspettavo una delle sue spiegazioni semplici, come ad esempio “non ticchetta nemmeno dandogli la carica”, invece le sopracciglia di Holmes si aggrottarono e, senza distogliere lo sguardo dall’orologio, rispose: «Non ne ho idea. Suppongo di saperlo e basta».

«Apparteneva a suo padre?» chiesi allora.

«Non ne sono certo, mi pare di si».

«Solitamente i gioielli vanno al fratello maggiore» commentai.

«Mycroft disse che spettava a me».

«Per quale motivo?» insistetti.

«Non lo so. Watson, perché tutte queste domande?» replicò infastidito.

«Perché non sembra in lei, amico mio» risposti schietto. «Dovrebbe aprirlo» aggiunsi poi.

«Non credo sia il caso» ribatté, confinandolo nuovamente nel cassetto.

«Ha paura di un orologio, Holmes?» ipotizzai incredulo, ma tutto ciò che il mio collega fece fu serrare la mascella ed osservare quell’oggetto con occhio truce.

«Non me lo ricordo, Watson» mormorò.

«Che cosa?»

«Da dove viene. Lo possiedo da sempre, ma non ricordo perché, e non so cosa mi abbia spinto a conservarlo. So che è rotto, ma non ho idea di come io faccia a saperlo. Sono certo che sia importante, ma non so per quale motivo lo sia» bisbigliò con durezza, in un soffio che si fece via via più angosciato.

«Va tutto bene, mio caro» lo rassicurai, posandogli una mano sul braccio. «Forse un qualche evento traumatico è legato a questo monile; a volte capita che la mente umana rimuova dei ricordi per proteggere la nostra stessa psiche».

«Tutto ciò non mi è di conforto, sa dottore?» replicò con sarcasmo, stringendo le mani sul bordo della scrivania. La sua presa si serrò tanto da far sbiancare le nocche, poi si raddrizzò di colpo e con un gesto risoluto prese nuovamente l’orologio e lo mise in tasca. «Devo indagare. Viene con me?» propose.

«Certo. Dove?»

«Da mio fratello, ovviamente. È l’unico che può darmi delucidazioni in merito».

«Allora forse dovreste parlarne a quattr’occhi» replicai esitante.

«Sciocchezze. Sono perso, senza il mio Boswell» dichiarò, stringendomi brevemente la mano. Poi con passo svelto recuperò cappello e cappotto, invitandomi di nuovo a seguirlo.

Mentre ci incamminavamo in silenzio verso Pall Mall, ognuno immerso nei propri pensieri, non potei fare a meno di pormi delle domande. Quei sogni bizzarri erano in qualche modo legati all’orologio? Quelle storie fantasiose – i mostri, i pianeti, gli eventi storici passati e futuri – erano allegorie? Erano il modo in cui il subconscio di Holmes tentava di rievocare i ricordi perduti?

Ero certo che anche il mio collega, da uomo brillante qual’era, avesse rivolto a se stesso i medesimi quesiti. Quando ci ritrovammo davanti alla porta di suo fratello, alzò la mano per bussare ed esitò solo un attimo. In quell’attimo, però, io lessi tutte le sue incertezze.

Se si fosse trattato di un qualunque altro gentiluomo, infatti, avrei trovato perfettamente plausibile che avesse rimosso un ricordo a causa di un evento traumatico, ma non Sherlock Holmes.

Lui affrontava sempre i problemi di petto, a testa alta, ragionandoci sopra sino a renderli mere consecuzioni di causa ed effetto, proprio come stava facendo ora. Avremmo potuto scoprire un principio di follia, oppure che in passato avesse assistito o commesso qualcosa d’ignobile, e – malgrado ciò – mi voleva comunque accanto a sé. Non per sostegno o conforto, ma perché riteneva che avessi il diritto di sapere. Questo era Sherlock Holmes.

Il batacchio risuonò due volte, ed io posai una mano nell’incavo del suo gomito e gli accostai la bocca all’orecchio.

«Qualunque cosa accada, io ci sarò» gli assicurai in un bisbiglio.

«Lo so» replicò lui, con tanta sicurezza che quasi mi commosse – fino al tal punto si fidava di me.

Mycroft Holmes abitava  in un appartamento sobriamente elegante, al primo piano di un edifico a metà di Pall Mall. Una cameriera di mezza età ci aprì con cipiglio contrariato, ma non appena riconobbe il mio compagno ci fece entrare e ci annunciò senza aggiungere alcun commento. Evidentemente aveva ben chiaro con chi avesse a che fare.

«Sherlock, cosa ti porta qui a quest’ora, senza nemmeno un preavviso?» ci accolse il padrone di casa, ancora seduto al tavolo da pranzo.

«Perdonerai l’improvvisata, fratello mio. Ho qualcosa d’importante da discutere con te, e non può attendere oltre» replicò il mio amico.

A quelle parole foriere di tempesta, la figura florida di Mycroft si accigliò, ma ci fece subito strada verso un salottino.

Una volta che ci fummo accomodati attorno al caminetto acceso, Sherlock prese dalla tasca della propria giacca l’orologio d’argento e lo porse al fratello. «Cosa sai dirmi di questo oggetto?» lo interrogò.

«È rotto» rispose con semplicità l’interpellato.

«Lo so. Ricordi per caso come l’ho avuto?» continuò allora.

«Lo possiedi da sempre» affermò il maggiore.

Il mio collega si passò con frustrazione una mano tra i capelli, scompigliandoli e ravviandoli un attimo dopo. «Così non mi aiuti, Mycroft» asserì seccato.

Questi si accomodò meglio in poltrona, socchiudendo lievemente gli occhi in uno sguardo acuto che mi ricordò precisamente il fratello minore. «Sherlock, cosa sai di un uomo che si fa chiamare il Dottore

Se il mio amico non sussultò, stavolta, fu solo grazie al perfetto autocontrollo che aveva di sé. Entrambi ci facemmo più attenti e lui rispose con circospezione: «È un personaggio di fantasia proveniente da un altro pianeta; un uomo brillante, con due cuori ed un certo altro numero di stranezze, che viaggia continuamente».

«Il Dottore non è una fantasia… sei tu» ribatté il più vecchio degli Holmes.

«Come?!» non riuscii a trattenermi dall’esclamare.

Lo sguardo di Sherlock s’indurì. «Non è divertente, Mycroft» apostrofò il proprio familiare.

«No, non lo è» convenne lui, raggelando entrambi.

«Io sono umano».

«Sì, ora lo sei».

«Che intendi dire?»

«Dentro quell’orologio c’è la tua coscienza, la tua parte aliena che hai volutamente rimosso».

«E’ ridicolo. Io sono tuo fratello».

«Tu credi di essere mio fratello. È la storia che il TARDIS – ricordi la cabina blu? – ha inventato per te».

«Tutto questo non ha senso» sussurrò così piano che, se non fossi stato concentrato a pieno su di lui, non l’avrei udito. «Spiegati» soggiunse a voce più alta, con quella vena autoritaria a cui era impossibile controbattere.

«Ebbene, sembra sia arrivato il tempo di scoprire le carte» sospirò Mycroft, stropicciandosi la fronte con aria stanca. D’improvviso mi parve dieci anni più vecchio. «Nostra madre – mia madre – per un certo periodo di tempo, in gioventù, fu la compagna di viaggio del Dottore – la tua compagna. Nessuno, ovviamente, si accorse mai della sua assenza, perché, grazie al TARDIS, ella rientrava sempre nell’esatto momento della propria scomparsa. Poi conobbe mio padre e s’innamorò di lui, per cui decise di sposarsi e mettere su famiglia, abbandonando il proprio amico. Nonostante ciò, lei ed il Dottore rimasero legati da grande affetto e lui veniva a trovarla, ogni tanto. Ricordo qualche sua visita, quand’ero bambino, seppur lo vidi solo di sfuggita. Fu così che, nel momento del bisogno, egli si rivolse nuovamente a mia madre.

«Non so perché dovesse diventare umano, né conosco la meccanica di come riuscì a trasformarsi, so solo che era in pericolo ed aveva bisogno di nascondersi, quindi mia madre gli offrì rifugio.

«Lui aveva un aspetto abbastanza giovane da sembrare uno studente universitario, e fu così che mi ritrovai, a venticinque anni, con un fratello minore che credeva di conoscermi da tutta la vita. Ci trasferimmo a Londra, dove nessuno ci conosceva, in modo che tu potessi frequentare l’università e, qualche mese dopo, “nostra” madre si ammalò e morì, lasciando a me l’onere di custodire il tuo segreto. Non sapevo da cosa il Dottore si stesse nascondendo, né per quanto sarebbe stato in pericolo – ho persino pensato che egli fosse semplicemente stanco di viaggiare e volesse solo… fermarsi – perciò ho continuato a tacere, fino a che avere un fratello minore non è diventato naturale. E, com’è ovvio, in quanto umano tu hai continuato ad invecchiare, divenendo sempre meno simile all’avventuriero dell’universo che eri stato e sempre più simile ad un uomo comune». Alla fine del racconto, parve che un grande peso gli fosse stato tolto dalle spalle, ma per contro sembrò sfibrato, come se si fosse strappato un pezzo di cuore insieme alla spina che lo trafiggeva.

Un silenzio pesante, irrespirabile, impregnò l’aria. All’improvviso tutto l’ossigeno si era trasformato in lana ed ostruiva il fiato, la visuale, i suoni. Non riuscivo a processare quanto appena appreso, sembrava tutto un’orribile e grottesca farsa.

Sherlock era immobile nella sua poltrona, fissava il fuoco con volto immoto, come se non esistesse nient’altro. Poi si rannicchiò portandosi le ginocchia al petto e poggiò il mento su di esse, in una posa che mi era ben familiare, ma che in quel contesto mi parve solo infantile ed innocente.

Con lentezza Mycroft si alzò in piedi e lo raggiunse, si chinò su di lui e gli posò il più lieve dei baci sulla fronte, prima di allontanarsi e lasciare la stanza. Sapeva che il proprio fratello aveva bisogno di riflettere.

Passando accanto a me, mi posò una mano su una spalla con una confidenza che non mi aveva mai concesso, ed il mio cuore si accartocciò come un foglio di carta fra le fiamme, mentre mi affidava suo “fratello”; rischiavamo di perderlo entrambi e io non riuscivo a respirare.

Il click con cui si chiuse la porta, per quanto sommesso, mi si rovesciò addosso come un secchio d’acqua gelida, e rimasi lì – intirizzito ed inebetito – a fissare il mio amico ancora statico in quella postura serrata. Sembrava non essersi nemmeno accorto dell’uscita del proprio congiunto, ma ero certo che invece stesse registrando tutto, perfino la cadenza dei miei respiri.

Avrei voluto chiamarlo, ma non trovavo la voce. Rimase schiacciata in gola come se la lana nell’aria mi avesse ostruito i polmoni.

Il fuoco baluginò su qualcosa di lucente e, posato su di un tavolino, notai l’orologio che aveva dato inizio a tutto. Per un momento lo odiai con ferocia inaudita. Poi mi alzai – o, per meglio dire, scivolai giù dal divano, perché le gambe non sembravano intenzionate a reggermi – lo raccolsi e mi inginocchiai ai piedi della poltrona di Holmes.

Solo dopo diversi minuti lui si voltò a guardarmi ed allora gli porsi la cipolla d’argento.

«Non la voglio» sibilò con la repulsione più genuina.

«Le appartiene, ma la custodirò io, se preferisce» replicai in tono sommesso.

Le labbra del mio amico tremarono,  fu solo un attimo, tuttavia lo notai. «Appartiene a lui. Io sono Sherlock Holmes» continuò con sprezzo, come se io stessi insinuando o – che sciocchezza! –desiderassi il contrario.

Non lo toccai, anche se avrei voluto, poiché sapevo che in quel momento non l’avrebbe gradito, e rimasi in silenzio, perché davvero non c’era niente che potessi dire. Restai semplicemente lì, ignorando il dolore alla gamba sinistra, che gradiva ben poco quella scomoda posizione.

«Avrebbe senso» mormorò, dopo quelli che mi parvero secoli, ed un sorriso cinico gli si dipinse sul viso spigoloso. «Non mi sono mai comportato come una persona comune, non ricordo di aver fatto nessuna delle cose sciocche che fanno bambini da piccoli o i ragazzi, durante l’adolescenza. La gente ha sempre ritenuto che fossi strano, perfino pazzo. Credevo fossero solo degli idioti, ma in questo modo avrebbe senso, capisce? Non sono gli altri ad essere degli sciocchi, sono io ad avere un cervello superiore. Letteralmente superiore. Pensavo di aver preso da mia madre – oh, lei era brillante, davvero brillante, sa? Doveva essere per questo che il Dottore l’aveva scelta. Ma forse… semplicemente, non sono umano…»

«La smetta» cercai di fermarlo, perché stava straparlando, addirittura blaterando.

«Sono io il racconto, non Lui. Sherlock Holmes è solo una finzione, il personaggio di una storia, come il Cavalier Dupin di Edgar Allan Poe che lei ama tanto, Watson…»

«La smetta… la smetta!» non potei fare a meno di alzare la voce e, finalmente, s’interruppe. Vedermi alterato doveva aver avuto un certo effetto. «Lei. È. Reale» scandii con decisione, «Lei è Sherlock Holmes, il mio coinquilino, il mio amico più caro, il mio collega, il mio compagno. Non so quanto speciale sia questo Dottore, ma so che lei non è da meno e che può scegliere. Può scegliere se diventare Lui o restare se stesso».

Holmes mi osservò con un’attenzione quasi morbosa, pendendo dalle mie labbra come non aveva mai fatto prima, poi riportò le gambe in una posa più consona ed allungò una mano chiudendola sulla mia, che ancora stringeva l’orologio. Ed allora successe qualcosa – non so spiegarlo in modo razionale, ma vidi delle immagini.

Un pianeta dal cielo arancione e l’erba rossa, che si stagliava su una catena montuosa di una bellezza commovente. Tanti uomini diversi, eppure ero certo che tutti fossero il Dottore, e l’ultimo sembrava un Holmes giovanissimo, appena ventenne. E poi una cabina blu, un cane fatto di ferro, una splendida ragazza bionda, un essere che sembrava solo un enorme faccia grinzosa, e tanto altro ancora, così tante immagini che facevo fatica a distinguerle, rapide come comete su una stellata plumbea. Mi bastò uno sguardo per sapere che il mio amico aveva visto le medesime scene.

«Quelli sono i Suoi ricordi» mormorò.

«Ma come…» iniziai, però venni subito interrotto.

«Oh, si tratta di un campo telepatico che…» esclamò con un entusiasmo che non mi era del tutto sconosciuto, ma che era così fuori luogo in quel frangente. Tuttavia si bloccò subito. «Lui parla così» bisbigliò un attimo dopo, come se avesse riconosciuto i modi di fare di un vecchio amico. «Tutte quelle persone… lo stanno aspettando. In altri tempi, in altri luoghi, sono ancora lì e sperano di rivederlo. L’universo ha bisogno del Dottore» realizzò con quieto orrore.

“Ma l’Inghilterra ha bisogno di lei – io ho bisogno di lei”. Avrei voluto dirlo, ma ovviamente non potevo, perché non sarebbe stato appropriato e perché Holmes doveva scegliere da solo la strada da intraprendere.

«Allora… come funziona? Apriamo l’orologio e, semplicemente, un altro uomo prenderà il suo posto, si aggirerà per la City con le sue fattezze e lei scomparirà, Holmes?» Era un pensiero che non potevo accettare, un boccone troppo amaro da inghiottire.

«Suppongo sia così» rispose il mio compagno, benché non fosse necessario, stringendo più forte la mia mano e, di riflesso, l’orologio.

«Vuole davvero farlo?» domandai ansioso, con frustrazione crescente.

«Non lo so, ragazzo mio. Dovrei?» mi chiese a sua volta. «La sua onestà è stata spesso l’ago della bilancia su cui ho posato la mia coscienza, Watson. Mi dica, sarebbe la soluzione migliore?»

Per quanto fossi lusingato da quelle parole, avrei dato qualunque cosa per trovare una scappatoia, una frase ad effetto che illuminasse entrambi sulla decisione più giusta da prendere, ma io non possedevo l’eloquenza e la logica del mio amico.

«La soluzione migliore per chi, Holmes? Credo sia questo il vero quesito che dobbiamo porci. La scelta più giusta per lei, per me, per suo fratello Mycroft, per Londra? No. La scelta migliore per il mondo, per l’universo intero? Probabilmente sì» ammisi a malincuore.

Allora strappò la cipolla d’argento dalla mia presa e si alzò repentinamente in piedi, cominciando a fare su e giù per la stanza, come lo avevo visto fare centinaia di volte, quando cercava il risultato più corretto per uno dei problemi che ci sottoponevano i nostri clienti. Ed io sperai, disperai, pregai che la trovasse, che esistesse.

Osservai la sua figura sottile e nervosa, i passi decisi e cadenzati, lo sguardo acuto che sondava ogni incisione dell’oggetto che teneva tra le dita, come se potesse interpretarle. Tutto questo mi era così dolorosamente familiare che il solo pensiero di non poter più assistere ad una scena simile mi schiacciava.

E poi, all’improvviso, Holmes si fermò al centro della stanza. Un sorriso lieve curvò le sue labbra, senza raggiungere gli occhi, ed io seppi cosa stava per fare ancora prima che aprisse bocca.

«Addio, John» soffiò, e poi aprì l’orologio.

Un esplosione di luce bruciò tra i suoi palmi,– mentre io gridavo il suo nome, riparandomi il volto con un braccio – si riversò sul suo viso e gli entrò nella bocca, nel naso, negli occhi, nelle orecchie. Un attimo dopo era tutto finito ed il mio amico – o l’uomo che era stato – era a terra, ansimante ed in ginocchio.

Non ricordo con coerenza cosa feci in seguito – forse lo chiamai balbettando – ma so che mi precipitai su di lui, inciampando nei miei stessi piedi, fino a raggiungerlo sul pavimento. Tutto ciò che riuscivo a pensare era “Come ha potuto? Come ha potuto? Come ha potuto?” in un mantra angosciato e spaesato che si ripeteva nella mia testa, e forse lo dissi anche ad alta voce, perché quando lo afferrai per le spalle, egli si aggrappò ai miei polsi e biascicò in risposta: «Mi dispiace».

Allora compresi che era davvero accaduto. Non era più lui.

Ma non ebbi nemmeno un attimo per riflettere o comprendere, perché mi si accasciò addosso, tanto stravolto che pensai stesse per svenire.

«Si sente bene?» domandai sorreggendolo.

«Sì… no, fa dannatamente male» ammise, ma il suo viso cereo stava riprendendo gradatamente colore ed anche il suo respiro stava tornando ad una parvenza di normalità.

Fu allora che Mycroft Holmes, richiamato dall’esplosione di luce o forse dalle mie urla, entrò nella stanza.

Si fermò sulla cornice della porta e lo vidi sbiancare, mentre osservava suo “fratello”. Tuttavia non tradì il suo aplomb e, dopo un respiro profondo, disse solo: «Bentornato, Dottore».

«Mycroft» rantolò lui, a mo’ di saluto, rimettendosi faticosamente in piedi. «Ti trovo in forma, anche se ti ricordavo più giovane».

Io, invece, rimasi lì dov’ero, troppo stordito per reagire. Tutta la mia verve di soldato non era sufficiente ad affrontare una simile situazione. Osservavo quello sconosciuto muoversi con il corpo del mio amico, parlare con la sua voce, guardare il mondo attraverso i suoi occhi, e cercavo di farmene una ragione, di accettare che non fosse più lui. Ma, nonostante ciò, quando vidi le ginocchia del Dottore cedere, lo sorressi nuovamente, per un puro riflesso condizionato.

«Lei ha bisogno di sedersi» gli ingiunsi schiarendomi la voce, e quell’uomo mi dedicò un sorriso gentile, così inusuale sulla bocca di Sherlock Holmes.

«Ritrasformarsi da umano a Signore del Tempo è doloroso – sa cambia tutta la composizione chimica, in ogni cellula – ma tra poco starò bene» mi rassicurò, rimettendosi dritto. «Mycroft dovrebbe avere qualcosa per me» soggiunse.

Quest’ultimo annuì e si diresse verso un quadro, appeso alla parete lì accanto. Lo scostò, rivelando una cassaforte, e prese dal suo interno un astuccio di velluto blu che porse al Dottore.

Egli lo aprì e fece scivolare sul proprio palmo due oggetti bizzarri. Il primo era una chiave, seppure di una foggia che non avevo mai visto prima. Il secondo sembrava una bacchetta metallica, ma non avevo idea dell’uso che potesse farne. Fece scivolare quest’ultima nella tasca interna della giacca ed, al contempo, ne estrasse qualcos’altro: la lente d’ingrandimento di Sherlock Holmes.

La gola mi si strinse in un nodo al solo vederla.

«Un aggeggio interessante. Permette di capire come funzionino le cose, anche se non può aggiustarle come il cacciavite sonico. Credo che la conserverò» ponderò ad alta voce, ammiccando nella mia direzione.

«Cosa farai ora?» gli domandò Mycroft.

«Oh, un po’ di questo, un po’ di quello. Ancora non lo so» rispose lui.

«Starai bene?» chiese allora il maggiore – l’unico – degli Holmes.

Il Dottore lo scrutò con sguardo meditativo, soppesandolo lentamente, poi le sue labbra si arcuarono ancora. All’apparenza era molto più propenso al sorriso di quanto lo fosse mai stato il mio amico.

«Ti eri affezionato davvero a Sherlock» disse, e non era una domanda, bensì un’affermazione.

«Non si vive per anni accanto ad una persona senza amarla. Specie se è una persona brillante come te, Dottore, in qualunque versione tu sia» replicò lui, con un certo orgoglio.

«Starò bene» gli assicurò l’altro, con un’occhiata intensa, posandogli le mani sulle spalle. «E tu, vecchio mio?»

«Oh, io ho i miei binari, Dottore. La mia vita è confortevole e priva di rischi».

«Non so come fai a sopportarla» ribatté l’uomo dello spazio, corrucciando la bocca in una piccola smorfia.

«Non lo capiva nemmeno Sherlock» convenne Mycroft con un brillio malizioso negli occhi, troppo simile a quello del fratello minore perché potessi sopportarlo.

«Molto bene! È tempo di andare, ho alcuni affari da sbrigare a Baker Street. Dottor Watson, viene con me?» esclamò con entusiasmo.

Naturalmente non avevo altro posto in cui andare. L’appartamento al 221B era pur sempre casa mia e – me ne resi conto solo in quel momento – presto avrei dovuto trovare un nuovo coinquilino.

Ci congedammo da Mycroft, poi, non appena scendemmo in strada, il Dottore inspirò a fondo l’aria fredda e la rilasciò in un lento sospiro.

«È bello respirare di nuovo con i miei polmoni» chiarì, interpretando la mia espressione perplessa.

Ci incamminammo in silenzio e per tutto il tempo non feci altro che osservarlo, mentre quell’uomo si guardava attorno con la gioia di un cieco che ha miracolosamente recuperato la vista. Ogni tanto si fermava ad assaporare il sole o il vento sulla pelle, girava su se stesso per osservare a pieno la città che lo attorniava, a tratti rallentava e talvolta correva, abbandonandosi di quando in quando a scrosci di risa. Nel momento in cui ci aprì la porta, abbracciò la signora Hudson lasciandola di stucco e si precipitò su per le scale, sino a raggiungere la porta dell’appartamento che era stato anche suo.

«Ma guarda qua!» chiocciò divertito, «Da umano non sono diventato più ordinato». Si aggirò per il salotto con familiarità, soppesando gli oggetti di Holmes. «La noia ha tirato fuori i miei lati peggiori» borbottò, raccogliendo l’astuccio di marocchino che conteneva le disdicevoli sostanze di cui faceva uso il mio amico e gettandolo nel cestino della carta straccia.

«Di questo vizio, invece, sarà più difficile liberarmi» considerò, prendendo dalla rastrelliera delle pipe quella di radica, che era stata la sua preferita, ed infilandola in tasca.

Più di una volta fui tentato di fermarlo, trovavo irrispettoso che stesse manipolando tutte quelle cose come se fossero sue; il mio collega non avrebbe apprezzato che qualcuno spostasse i suoi effetti. Mi trattenni a stento quando le sue dita raggiunsero il violino.

«Uno Stradivari. Era un grand’uomo, quello! Un po’ folle, ma chi non lo è?» l’abitudine di parlare ad alta voce, senza curarsi che gli astanti lo stessero ascoltando o seguissero i suoi ragionamenti, evidentemente non era esclusiva del mio coinquilino.

«Lei è davvero un’altra persona?» quando formulai quella domanda, si arrestò di colpo, con ancora lo strumento musicale in mano.

«Prenda lo stetoscopio, dottor Watson» comandò con seria placidità.

«Per quale motivo?» chiesi circospetto.

«Perché ha bisogno di una prova» chiarì, ed allora presi la valigetta con la mia attrezzatura ed inforcai sulle orecchie lo strumento indicatomi.

Il Dottore si avvicinò a me, permettendomi di posare il microfono sul suo petto. Ascoltai il battito regolare del suo cuore senza comprendere cosa volesse dimostrare, poi lui spostò la mia mano sul lato destro del suo petto, ed allora sussultai. Un secondo battito, potente quanto il primo, scandì il suo ritmo nei miei timpani, ed io avvertii il sangue defluirmi dal volto.

«È un personaggio di fantasia proveniente da un altro pianeta; un uomo brillante, con due cuori ed un certo altro numero di stranezze, che viaggia continuamente» solo allora ricordai le parole che Holmes aveva pronunciato, quando il fratello maggiore gli aveva chiesto cosa sapesse del Dottore.

«Due cuori» mormorai «Com’è possibile?»

«Vengo dal pianeta Gallifrey e sono l’ultimo rappresentante di una razza chiamata Signori del Tempo» spiegò.

«Lei sembra umano» obiettai «Perlomeno esteriormente».

«No, siete voi umani che somigliate ai Signori del Tempo» ribatté quasi offeso. «Noi siamo venuti prima. Molto prima».

«E lei è l’ultimo?»

«Già. Sono rimasto solo io» confermò senza alcuna inflessione di sorta, poi ripose il violino, che ancora stringeva, nella sua custodia e se lo pose sotto il braccio. «Bene. Andiamo?» domandò, con rinnovato entusiasmo.

«Dove?» replicai, sempre più confuso, travolto dagli eventi, dalla frustrazione, dal dolore, dall’assenza di Holmes e dall’esuberanza di quello sconosciuto.

Lui si fece di nuovo serio e mi si accostò ancora di più, molto lentamente, come se fossi un animale ferito che avrebbe potuto azzannarlo da un momento all’altro – e, con un certo shock, mi accorsi che forse era davvero così.

«Mi permetta di ringraziarla per essersi preso cura di me in tutti questi anni, Dottor Watson» sussurrò scrutandomi con uno sguardo intenso che ben conoscevo.

Qualche minuto dopo ci ritrovammo ancora per le strade di Londra; non potei fare a meno di notare che il Dottore le conosceva a menadito e le imboccava senza alcuna incertezza. Presto raggiungemmo l’East End e lui mi guidò nei fatiscenti sotterranei di un casa abbandonata.

«Oh, eccolo qui!» esclamò, avvicinandosi ad una grossa cabina blu che portava la scritta “Polizia”. «Dottor Watson le presento il TARDIS, Time And Relative Dimension In Space» aggiunse, poi schioccò le dita e, come per magia, le porte della cabina si aprirono. «Su, avanti, entri. Non abbia timore» m’incitò precedendomi.

Lo seguii dubbioso, domandandomi perché mai dovessi entrare in un posto dove saremmo stati così stretti, ma ogni mia riflessione venne tacitata dalla vista che mi trovai davanti. All’interno quello strano aggeggio era infinitamente più grande che all’esterno! Non potei esimermi dal fare qualche passo indietro e girare attorno alla cabina, per controllare che non ci fosse qualche trucco, prima di rientrarvi dentro.

«Lei è un mago!» esclamai allibito.

«Oh, ma si guardi… lei è bellissimo» replicò con un sorriso, gettandomi nel più totale imbarazzo.

«Come scusi?» borbottai.

«Lei è davvero bellissimo. Ha l’espressione di un bambino che, svegliandosi la mattina di Natale, scopra che fuori ha nevicato. Così genuina, quasi ingenua. Non mi stupisce che, anche da umano, io amassi tanto stupirla» chiarì contemplandomi quasi fossi un’opera d’arte. «In tanti sono entrati qui, sa? E le confesso che adoro le loro faccine stupefatte quando si accorgono delle vere dimensioni del TARDIS – tant’è vero che, solitamente, chi non reagisce come mi aspetto mi sta antipatico – ma lei… lei è straordinario, dottor Watson» sospirò.

«Allora, le piace?!» aggiunse poi, aprendo le braccia e facendo una piroetta su se stesso. Corse verso il centro della stanza, dove era situata una piattaforma tonda, costellata di pulsanti, sormontata da una colonna trasparente e sussurrò «Mia bellissima nave, ti sono mancato?»* con affetto evidente, accarezzando quest’ultima.

«Sta parlando con un oggetto?» domandai.

«Il TARDIS non è un oggetto inanimato, dottore. Ha una propria coscienza, un proprio cuore» chiarì, tornando verso di me.

Quelle iridi, benché grigio acciaio come quelle del mio amico, brillavano di una sommessa malizia che di rado avevo scorto nel suo sguardo apatico, e celavano qualcosa di più oscuro – senza tempo.

Ebbi l’impressione di essere stato catapultato in un altro mondo, come se fossi appena finito tra le pagine di “Viaggio al centro della Terra”. Barcollai sotto il peso di tutte quelle rivelazioni e di quella situazione assurda, e stavolta fu il Dottore a sorreggermi.

«E Holmes? Che ne sarà di lui?» mormorai.

«E’ ancora qui» mi rassicurò, poggiandosi una mano sul petto «solo un po’ più in fondo».

«Londra ha bisogno di Sherlock Holmes,» affermai «ma lei se ne andrà».

«Tornerò. Con il TARDIS posso andare e venire a mio piacimento. Potrei star via per anni e per lei sarebbe passato meno di un giorno» mi spiegò «Sherlock Holmes non deve per forza scomparire».

«Sherlock Holmes non può essere il Dottore, ma il Dottore può essere Sherlock Holmes» compresi allora, e la scelta che aveva fatto il mio coinquilino, mi parve finalmente un po’ più sensata.

Egli annuì. «Perché non viene con me?» propose poi.

«Cosa?»

«Lasci che la ripaghi della sua fedeltà, dottor Watson. La porterò ovunque, le mostrerò l’universo, le regalerò la storia. Dove desidera andare? Nel futuro? Nel passato? Ai confini del Sistema Solare? Le farò conoscere le stelle che ora non hanno ancora scoperto, le mostrerò che non siete i soli abitanti dello spazio, le farò conoscere gli uomini che hanno scritto la storia» mi illustrò entusiasta.

«Io… io non so cosa dire» smozzicai sotto quella valanga di parole.

«Dica semplicemente » sorrise lui «Potrei viaggiare da solo, ma non sarebbe altrettanto divertente. Per me vuol dire molto avere un compagno su cui fare affidamento» continuò, rivolgendomi quasi le stesse parole che una volta mi aveva detto il mio collega. 

Fu allora che ricordai che eravamo entrambi soli e che non avevo nessuno ad attendermi a casa, nemmeno Holmes.

«D’accordo. Verrò con lei. Ma torneremo?»

«Quando vuole, tutte le volte che lo desidera» mi assicurò, «Adoro Londra, anche se la regina Vittoria non mi ha molto in simpatia. Mi ha nominato cavaliere, una volta, sa? Prima di esiliarmi».

«Non capisco assolutamente per quale motivo avrebbe dovuto farlo» gli concessi un piccolo sorriso, il primo da quando era uscito dall’orologio. «Sa, ho sempre desiderato conoscere Mozart».

«Oh, era un tipo bislacco» replicò il Dottore e tutto il suo viso s’illuminò di gioia, «Che stiamo aspettando? Allons-y!» esclamò subito dopo, raggiungendo i pulsanti ed abbassando diverse leve.

La passione per il francese doveva essere un’altra cosa che Holmes aveva ereditato da lui.

 

FINE.

 

*La frase d’introduzione è tratta da “The Fire of Drift-wood” di Henry Longfellow.

In originale il Dottore si rivolge al TARDIS  – che, nonostante la traduzione italiana, è una lei – chiamandola “beautiful ship”, cioè “bellissima nave”, oppure “sexy thing”, ovvero “cosa sexy”. Ho utilizzato il nomignolo più adatto al contesto, anche perché “cosa sexy” è veramente orribile in italiano.

 

 

 

 

 

   
 
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