Un'altra afosa giornata d'Agosto. Si muore di caldo. Il sole picchia già alle dieci del mattino con potenza sulla città frenetica. Passanti e automobilisti che sudano e sudano, e pregano per quel soffio di vento che possa dar loro refrigerio, e ricercano uno spicchio d'ombra in cui nascondersi dal sol leone,e maledicono l'Estate tanto attesa, chiedendosi quando finirà quella torrida tortura. Tutto inutile. Le estati sarde sono lunghe si sa, maledire il tempo serve a ben poco, se non come valvola di sfogo.
Nessuno bada a me, fermo ad aspettare un tram che sembra non voler arrivare mai, forse anche lui troppo stanco e troppo accaldato per fare il suo dovere. Tutti sono troppo presi dalle loro vite, tutti pensano a loro stessi. A Cagliari in Agosto si diventa tutti un po' egoisti. La calura mista all'umidità rende tutto troppo caldo e appiccicoso perché la gente voglia avvicinarsi l'uno all'altro, rende tutti meno pazienti, tolleranti, più nervosi, e nessuno pronuncia una singola parola se non si trova nelle vicinanze di un condizionatore acceso alla massima potenza.
Mi guardo intorno e... Oh, un tram si avvicina... No, non è il mio. Ripenso con nostalgia e un poco di invidia alla mia auto, ferma all'interno del garage di un meccanico, a godere dell'ombrosa frescura di un angolino semibuio. In realtà, mi domando se sono io l'unico sfigato che il dieci Agosto ha la macchina dal meccanico, una macchina fresca di fabbrica che si rifiuta di partire. Forse si, d'altronde Murphy insegna. E io lo maledico, perché anche io sono meno paziente, meno tollerante, e notevolmente incazzato con quello stupido pezzo di lustra ferraglia che a tre giorni dalle sospirate vacanze mi ha lasciato a piedi. Almeno ho trovato un meccanico che non fosse ancora in ferie.
Il
numero cinque, un filobus che ha
visto certamente giorni migliori ma non meno torridi, si ferma
davanti a me. Le porte centrali si aprono, e una fiumana di persone
accaldate e sudate quanto me, scende e si disperde lungo il
marciapiede. Le osservo portandomi una mano al volto, a proteggerlo
dalla luce forte. C'è chi con uno zaino, i bermuda colorati
sembra
pronto per andare in spiaggia. Ci sono anziane signore cariche di
buste della spesa, che fanno tenerezza, e insieme pena. Probabilmente
hanno dei figli da qualche parte, e nessuno di loro pensa che
è un
atto incivile costringere la donna che li ha generati e cresciuti,
quella che ha donato loro tutta la sua vita e se avesse potuto anche
di più, a trascinare quelle pesanti buste con più
di trenta gradi
all'ombra, prendere un bus affollato dove nessuno mai le
cederà il
posto, e camminare fino a casa con i piedi doloranti, le braccia
sfinite. Una casa silenziosa in cui saranno tristi e sole. Il loro
nido vuoto, dove dei loro pulcini rimangono solo poche piccole piume.
Una di loro mi passa accanto, le
sorrido. Mi ricorda mia nonna, così piccola, grassottella e
con
un'andatura un poco zoppicante, segno che le sue gambe cominciano a
cedere al peso del tempo che passa. I capelli candidi sono legati in
uno chignon, creano uno strano contrasto con gli abiti rigorosamente
neri, forse vedovili. Il volto è segnato da tante rughe, la
pelle è
cadente ma io trovo che sia un bellissimo volto. Parla di una storia
che non conosco, di eventi che non mi verranno raccontati, di gioie
e tragedie che non mi riguarderanno mai. E penso che è bello
carezzare il volto rugoso di una nonna, perché è
sempre morbido. Le
nonne per un nipote profumano sempre di buono. La mia aveva un
profumo dolcissimo, sapeva di un vecchio profumo che il nonno amava,
e che lei mise fino al giorno della sua morte.
La vecchina mi sorride di rimando e in
quel momento mi sento orgoglioso di me stesso. So di non aver fatto
niente di niente, forse se l'avessi accompagnata a casa, se le avessi
portato quelle buste pesanti, se le avessi fatto compagnia per
qualche ora allora avrei potuto essere davvero orgoglioso... Ma anche
io sono egoista, e un sorriso è tutto quello che voglio
darle quella
mattina. Forse, in una mattina meno calda, avrei potuto... Ma sembra
bastarle, e si allontana felice, e con la testa alta, mi sembra.
Forse è vero che un sorriso riesce ad illuminare anche il
più buio
dei momenti.
Sospiro. Ho la maglia zuppa di sudore,
e del tram neppure l'ombra, mi volto nella vana speranza di vederlo
arrivare. E invece, vedo lei. Mi si ferma il cuore.
Quel profilo, quel naso, quelle labbra
fini, la linea del collo giù fino al seno. I capelli, una
massa
informe e voluminosa di riccioli scuri, una volta lunghi e folti, ora
corti e sbarazzini, non più una cortina dietro la quale
nascondersi.
Sono passati otto anni, ma di lei non mi sono mai scordato. Non
potrei mai dimenticare il mio primo grande amore.
Alessia,
è questo il suo nome. Aveva
sedici anni quando mi innamorai di lei, e di quella ragazzina minuta
e magrolina è rimasto poco e niente. La mia Alessia non era
così
flessuosa, quel seno prosperoso, messo in evidenza dalla scollatura
della sua canottiera, lo sognava e desiderava, e guardandosi allo
specchio della sua camera diceva sempre – Su ragazze mie,
crescete!- Le ragazze dovevano averla ascoltata.
Voleva essere sensuale come le donne
della televisione, non capiva che così com'era per me era
più bella
di qualsiasi velina o letterina.
Indossa dei corti pantaloncini, che ne
mostrano le gambe ora lunghe e abbronzate. Quando era ancora la mia
Alessia, era troppo timida per indossare qualcosa di simile. Si
sarebbe vergognava a morte. Nascondeva la sua sensualità in
boccio
sotto t-shirt larghe e jeans. Passava i pomeriggi al mare rintanata
sotto l'ombrellone, vergognandosi del proprio corpo acerbo,
così
incompleto in confronto a quello delle sue amiche, che ai suoi occhi
erano tutte belle, tutte così donne mentre lei in quello
specchio
vedeva ancora una bambina.
Io l'amavo per questo. Per il suo
essere apparentemente fragile, per quel visino un poco smunto ma
adorabile. Amavo avvolgerla tra le braccia. Sembrava che in quei
momenti fosse davvero mia, e che lo sarebbe stata per sempre. Mi
chiedeva sempre – Ma come fai a volere me? Guarda Elena! Lei
è
così bella!- E io non rispondevo, perché proprio
come ora, mi
perdevo nel contemplare quegli occhi scuri dal taglio allungato e
felino, dallo sguardo così forte e deciso che pareva potesse
spaccare il mondo intero se solo avesse voluto.
É diventata alta. Porta delle zeppe
che sembrano veri trampoli, dei trabiccoli scomodi, magari pure
pericolosi. Una volta si sarebbe rifiutata di portarli, e avremmo
riso insieme di quelle che ancheggiando come oche si torturavano per
qualche centimetro in più d'altezza. E che si rendevano
ridicole.
Lei non sembra ridicola però. Sembra
una modella, appena uscita da una di quelle riviste dalle pagine
patinate. Non ha conservato nulla della sua ingenuità. Ora
è
sensuale, è meravigliosa eppure... Eppure... Vorrei non
fosse così.
Vorrei rivedere ancora quella ragazzina, non mi piace questa Alessia,
non voglio la donna sensuale. Eppure la voglio, scopro che la
desidero ancora, è eccitante, e se solo potessi sfiorarla,
Dio solo
sa cosa non vorrei farle. Ma una parte di me, respinge quel corpo
invitante. Nel mio cuore sono conficcati frammenti di lei, di com'era
un tempo.
Siamo stati insieme due anni. Due anni
in cui lei è cresciuta, è diventata sempre
adulta, proiettata
completamente verso il suo futuro, verso il raggiungimento dei propri
obbiettivi. E sempre più distante. Mi accorsi troppo tardi
di non
essere incluso della sua vita futura. Stavo diventando storia
vecchia, ricordo passato. Ma io la volevo ancora, e non mi importava.
Avevo vent'anni e non mi importava se lei non mi voleva più.
Lo ricordo come se fosse ieri. Facevamo
l'amore, quella fu l'ultima volta. Aprii gli occhi, scosso dalla
passione, dall'emozione di poter sfiorare ogni centimetro di lei, di
essere con lei, su di lei, in lei. Lei fissava il soffitto,
inespressiva, priva di alcun sentimento se non la triste
consapevolezza di stare portando avanti qualcosa che non aveva
più
ragione d'esistere. Quella fu la fine. Io lo sapevo, lei lo sapeva,
ma io non volevo ascoltare cosa lei voleva dire, e non volevo vedere
ciò che lei mi voleva mostrare.
Era Agosto anche allora, un acquazzone
estivo rendeva l'aria ancora più umida, più
pesante, l'odore di
pioggia era forte e nauseante. Ho sempre odiato quell'odore di umido
e sporcizia mescolato insieme. Davanti al portone di casa sua,
bagnato fradicio, la imploravo di non lasciarmi. Forse avevo fatto
qualcosa di sbagliato, forse avrei potuto rimediare, forse avrebbe
potuto amarmi di nuovo, se solo mi avesse dato un'ultima
possibilità.
Forse, forse, forse... Forse ero solo
un patetico illuso. No, lo ero. Lei mi lasciò li, sotto la
pioggia,
non aprì mai quella porta. Lo sapeva, che se l'avesse fatto,
non
avrebbe avuto il coraggio di cacciarmi via. Era diventata risoluta,
quasi spietata. Aveva deciso che nella sua vita, non c'era
più posto
per me. E osservandola ora, mi chiedo se un frammento di me sia
rimasto in lei. Almeno uno, mi basterebbe un'innocua, minuscola e
insignificante scheggia. In un'Alessia che ora non ha nulla di
diverso dalle altre, che si è uniformata alla massa, a
ciò che la
moda impone. Ad un'Alessia che ha fatto del suo corpo, meraviglioso,
sensuale, travolgente corpo dalla pelle scura il suo biglietto da
visita. Sento una strana sensazione, come un peso sul petto.
Poi, sorride. Penso mi abbia visto,
sorrido anche io, ma lei non guarda me. Un altro le si avvicina, le
corre incontro e la solleva tra le braccia. Incurante del sudore che
imperla la pelle di entrambi, incurante di tutti, passanti,
automobilisti, curiosi affacciati alle finestre dei palazzi.
Sorride a lui, non a me. Il peso sul
petto si fa più pesante. Lei è andata avanti,
come voleva fare.
Sono solo io ad essere rimasto indietro. Lei mi ha dimenticato. Non
mi riconosce neppure, non mi vede neppure, è meglio dire.
Invisibile, questo sono diventato.
La rabbia monta. Perché io non ho
lasciato niente in lei, perché non c'è traccia
del mio passaggio
sul suo volto? Devo essere stato insignificante, mi dico.
Quando lui la posa a terra, lei gli
prende una mano con la sua. Al suo polso fine ciondolano
rumorosamente tanti braccialetti colorati. La mia Alessia non amava i
colori appariscenti, la sua invece si. Amiamo due persone diverse
racchiuse in una.
-Andiamo?- Le sento dire. Lui annuisce,
ma prima di allontanarsi, lei si volta. Per la prima volta mi guarda.
Mi sento penetrare dai suoi occhi scuri. Mi sorride, solleva una
mano, i suoi braccialetti tintinnano mentre mi saluta. - Ciao,
Giulio!-
Il peso sul mio petto si dissolve. Vola
via, sparisce nel nulla. Sorrido, le rispondo, e lei mi volta le
spalle. Sulla spalla noto un piccolo tatuaggio, una D, l'iniziale del
nome di suo padre.
Si allontanano insieme, mano nella
mano, ma ho il tempo di sentire lui chiederle. - Ma chi era, quello?-
E lei rispondere, con un sorriso grande
sul volto. - Una persona importante.-
Allora forse, non sono stato così
insignificante. Forse, c'è un piccolo frammento di me ancora
conficcato nel suo cuore, e lei non vorrà mai liberarsi
della
sensazione dolce amara e del piacevole dolore di quando si ripensa a
ciò che è stato e che non sarà mai
più.
Intanto il mio tram è passato, e io
l'ho perso. Non importa, aspetterò il prossimo.
Perché così è la
vita, a volte si perde qualcosa per guadagnare qualcosa di
più.