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Autore: Padme Undomiel    04/09/2010    3 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Purity 18
18.



Le mura stanno crollando





“Non risponde.”

Uno sbuffo frustrato si levò dalle sue labbra, quando pigiò con veemenza il pulsante di chiusura di chiamata sul suo cellulare, per poi intascarlo nuovamente.

Tutto completamente inutile, di nuovo.

Guardò la figura davanti a sé, appoggiata con disinvoltura allo schienale di una panchina, e scosse la testa, infastidito. “Sembra sparito dalla circolazione. Sono già quattro volte che lo chiamo, e quante volte credi mi abbia risposto?”

Deguchi Naganori non si scompose più di tanto, limitandosi ad accigliarsi maggiormente al di sotto delle sue folte sopracciglia nere e a tirare un’altra boccata dalla sua sigaretta accesa. “Prevedibilmente nessuna, visto il tuo desiderio di distruggere il cellulare.” Disse pragmatico. “Rassegnati, Daisuke: Takeru ha intenzione di farsi desiderare una volta di più. E’ inutile insistere.”

“Come posso lasciar perdere?”

Motomiya Daisuke detestava non essere preso sul serio. Erano giorni –settimane- che quella storia andava avanti, che Takeru diventava sempre più sfuggente ed elusivo nelle sue risposte, che quasi non si degnava più di farsi vedere. Ed era un sacco di tempo che si ostinava ad evitare i loro incontri, con scuse assurde che non avevano alcun senso, tali da rendere più che chiaro che il suo amico non aveva più voglia di incontrarli.

Ma, malgrado la sua frustrazione, la sua preoccupazione e la sua delusione, Naganori era ancora lì, impassibile, come se l’assenza del giovane dai capelli biondi fosse non solo scontata, ma anche sperata in qualche maniera.

Provò l’ardente desiderio di prenderlo a pugni, solo per cancellargli quell’espressione indifferente dal viso, dagli occhi.

Incrociò le braccia, guardandolo furente. “Anche se è un idiota, Takeru è mio amico”, esclamò, impaziente di mettere in chiaro le cose una volta per tutte. “Che mi ignori pure! Io lo chiamerò e lo tormenterò finché non oserà dirmelo in faccia, che vuole essere lasciato in pace!”

Ostinato, prese nuovamente in mano il cellulare, digitando quel numero ancora una volta. Ne aveva davvero abbastanza. Voleva un motivo per questo continuo giocare a nascondino: lui e i ragazzi lo avevano sempre trattato come uno di loro, da quando Daisuke l’aveva conosciuto, da quando Takeru aveva deciso di sua spontanea volontà di accompagnarli in ogni genere di assurda impresa. Perché non era più felice di passare del tempo con loro? Aveva improvvisamente deciso che nessuno di loro era alla sua altezza, che desiderava altro, oltre alle ragazze di ogni sera, alle risate, alle bevute, alle feste?

“Daisuke. La vuoi piantare o no? Stai diventando patetico.”

L’indifferenza del suo tono di voce aveva lasciato spazio ad uno terribilmente annoiato. Naganori si era avvicinato a lui, la sigaretta ancora tra i denti, e gli porgeva la mano con aria intransigente. “Takeru ci sta evitando, e questo è quanto. Dovresti smetterla di rincorrere persone che non vogliono affatto vederti: sembri un bambino capriccioso. E ora dammi quel cellulare, prima che diventi una questione di stato.”

Le parole dell’altro lo colpirono come un pugno nello stomaco.

Con quale diritto si permetteva di parlargli così?

Reagì d’impulso. Lo afferrò per il collo della camicia, strattonandolo bruscamente. “Non provare a darmi del bambino!”, ringhiò, e se si trattenne in qualche maniera dallo spegnergli la sigaretta sulla fronte fu per puro miracolo. La rabbia lo aveva completamente invaso; gli era difficile persino parlare . “Non dirmi … Io non rincorro nessuno! Chiaro? E Takeru … Se io non lo rincorressi, lui si allontanerebbe ancora di più! Non posso permetterlo, capisci?”

Con suo sommo sconcerto, le labbra sottili del giovane dai capelli neri si piegarono in un sorrisetto ironico. “Ah”, commentò, falsamente sorpreso. “Perché l’ultima volta, cercando in tutti i modi di rincorrerla, sei proprio riuscito a fare in modo che non si allontanasse da te, vero?”

“Brutto …”

Il dolore e la rabbia si mescolarono insieme, in un confuso insieme di ricordi, sensazioni, rimorsi, rimpianti. E la furia, scatenata da una ferita mai rimarginata che con così poco tatto l’amico aveva riaperto, mosse il suo braccio.

Ma il pugno che Daisuke aveva indirizzato a Naganori non colpì mai il suo viso.

Ansimando, ancora troppo sopraffatto per rendersi conto della situazione, guardò senza capire il palmo della mano di Naganori che aveva fermato il suo pugno, l’espressione gelida, il lampo d’ira negli occhi neri l’unico elemento ad animare la sua figura immobile.

“Cosa credevi di fare, Daisuke?” E anche la sua voce era piena di ira, ora. “E’ finito il tempo in cui un pugno era sufficiente per zittirmi, e credevo che lo sapessi, dato che tutto questo lo devo a te.”

A malincuore, la consapevolezza di aver sbagliato, di essersela presa con la persona sbagliata nel modo sbagliato, lo costrinse a mollare la presa sull’amico, ad allontanarsi di un passo. Rimase a testa bassa, con i pugni contratti e le spalle rigide.

“Ho già sbagliato una volta”, replicò, tentando di mascherare il dolore dietro una debole facciata di determinazione. “Non sbaglierò anche con Takeru. Non permetterò che vada via, non dopo …”

E quel nome non espresso ad alta voce fece più male di qualsiasi stilettata.

Perché, perché era ancora tutto così vivido nella sua memoria?

E perché continuava a succedere a lui, a tutte le persone a cui teneva di più?

Un sospiro stanco. “Sai cosa stai facendo? Cercando di non ripetere l’errore, rischi di ottenere proprio l’effetto contrario. So che Takeru non ha lo stesso carattere di Miyako …”

“Piantala di nominarla!” ruggì all’istante Daisuke. Non poteva ancora sopportarlo. Non voleva più pensarci, sopportare quei ricordi.

Tutto per lei. Tutto per un’egoista, sciocca ragazza.

Miyako …

“Fa lo stesso.” Alzò invece le spalle Naganori, tornando a fumare con disinvoltura sulla panchina. “Non nominarla non ti servirà a cancellare completamente il suo ricordo, e lo sai.”

E il suo tono intransigente mise fine ad ogni tentativo di protesta da parte di Daisuke, che ammutolì.

Sapeva che aveva ragione. Sapeva che non poteva cancellarla del tutto. Sapeva quello che lei aveva significato per tutti, per Naganori, per lui.

E nel silenzio pesante venutosi a creare, il giovane seppe per certo che la presenza di lei era ancora nell’aria, invisibile ma reale, pronta a farsi sentire su entrambi nei momenti meno indicati, nonostante gli strenui tentativi di entrambi di sfuggire il suo ricordo doloroso.

Il giovane guardò Naganori, e seppe che un silenzioso accordo tra i due imponeva loro di tornare a parlare di Takeru. Non faceva forse meno male?

Fu per questo che non si oppose, quando l’altro riprese.

“Dicevo, so perfettamente che Takeru ha tutt’altro carattere, ma se preferisce non sopportarci, stesse pure lontano per un po’. Ti rendi conto che mettergli pressione potrebbe solo aggravare la situazione? Lascialo stare, e vedrai che tornerà da noi.”

Daisuke lo guardò con occhi sgranati. Certe volte, la sua sicurezza lo spaventava, oltre a sembrargli senza senso. “E se dovesse decidere di non tornare da noi, eh? Come la mettiamo se si convince che sta meglio senza di noi?”, sbottò, affatto convinto.

“Costringerlo a divertirsi non cambierebbe la situazione.”

“Ma potrebbe ripensarci! Potremmo aiutarlo, dannazione!”

Daisuke si era infervorato, e non riusciva davvero a smettere di alzare la voce. Gli sembrava di essere il solo a preoccuparsi dello stato particolare di Takeru, e la situazione era frustrante fino a limiti impensabili. Era loro dovere aiutare gli amici in difficoltà oppure no?

Daisuke non sapeva nemmeno che cosa avesse Takeru di preciso, a cosa fosse dovuta quella strana depressione che gli leggeva spesso negli occhi. Ma era sicuro che avrebbe fatto di tutto per trovare la soluzione. Non si arrendeva così facilmente.

Ma gli altri membri del gruppo …

Naganori gli gettò un’occhiata in tralice. “Tu credi che a me piaccia la situazione.”

Precisamente quello che Daisuke pensava. Lo fissò con aria di sfida. “Certo! Altrimenti non te ne staresti lì, senza battere ciglio.”

“Idiota.” Commentò esasperato l’altro, per poi estrarre dal pacchetto che aveva in tasca una sigaretta. Gliela porse, evidentemente aspettandosi che lui la prendesse.

Nel suo linguaggio particolare, porgere una sigaretta ad un amico era come una proposta di tregua. E di solito Naganori non dava mai una seconda possibilità di riconciliazione.

Non aveva scelta.

Controvoglia, Daisuke mise da parte il risentimento. Si sedette accanto a lui, e afferrò ciò che gli porgeva senza dire una parola.

“La situazione mi dà fastidio, e mi sento molto indignato.” Continuò poi Naganori, prestandogli l’accendino. “Ma penso che sia ancora più stupido costringerlo a farsi aiutare. Dammi retta, e lascialo perdere.”

Daisuke aspirò profondamente dalla sigaretta accesa, accigliandosi. “Bene. Tu fa’ pure come ti pare, e aspettalo. Io non ho alcuna intenzione di darmi per vinto, e cercherò in tutti i modi di farlo ritornare in sé prima che sia troppo tardi, intesi?”

Il rischio era davvero troppo alto. Oltretutto, come avrebbe fatto ad aspettare con le mani in mano, se ogni giorno che passava l’assenza di Takeru si faceva sempre più sentire?

No. Daisuke non sapeva e non voleva aspettare. Doveva agire.

Perché nemmeno Takeru poteva permettersi di trattarlo così, dopo tutto quello che aveva fatto per lui negli anni.

“Come vuoi, zucca vuota. Io, però, eviterei di chiamarlo dieci volte nel giro di un’ora, che dici? Potrebbe denunciarti per persecuzione, e non credo che la situazione ti piacerebbe.”

E il giovane dai capelli perennemente disordinati arrossì come il mozzicone di sigaretta che Naganori aveva buttato tranquillamente a terra, capendo che, in fondo, aveva esagerato.

Ripose il cellulare nella tasca con stizza, e nel suo sbuffo si levò una grande nuvola di fumo.

“Spero che Takeru abbia avuto un motivo più che valido per non rispondere a nessuna delle mie chiamate …”, borbottò tra sé.


***


“Ti interessa davvero saperlo?”

Malgrado lo scorrere continuo dell’acqua dal rubinetto aperto, la nota di stupore nella voce di Izumi Koushiro fu più che udibile. Lo guardò per un istante, gli occhi neri sgranati e un interesse mal celato a fondo della sua espressione.

Takaishi Takeru annuì, prendendo un altro piatto bagnato dalle mani del giovane dai capelli rossi e asciugandolo con il panno che aveva tra le mani. “Certo. Pare che qui di lavoro ce ne sia a non finire … e, ad ogni modo, non è una decisione facile da prendere. Se non conoscevi Taichi-san o sua madre, come mai hai scelto questa vita?”

Doveva averlo davvero sorpreso. Riflettendoci su, la situazione era davvero particolare: lo stesso Takeru non riusciva a credere alla piega che stavano prendendo gli eventi.

Erano passati solo tre giorni da quell’episodio della fiaba. Tre giorni, e il giovane confuso aveva sentito crescere dentro di sé uno strano desiderio di essere sempre in attività, e uno strano senso di realizzazione. Aveva scoperto, incredulo, che più tempo passava lì, più un disarmante senso di completezza riempiva il vuoto e la tristezza che per mesi non gli avevano lasciato tregua.

Ed era tutto dovuto a quei bambini, alla loro gioia. E a Hikari, con la sua dolce semplicità, e alle sue strane, ma così giuste, proposte.

Tre giorni, e la fiamma e la gioia che aveva sentito quel pomeriggio non aveva accennato a spegnersi, rafforzandosi invece minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Scoprire cosa fosse successo, durante il racconto di quell’improvvisata fiaba, era quasi impensabile. Come poteva sapere cosa lo avesse spinto ad esporsi tanto, a trovare una soluzione tanto istintiva e forse impulsiva?

Ma sapeva cosa quell’episodio avesse instillato nel suo cuore stanco di false speranze.

Fiducia.

Brillava debolmente, continuamente repressa dalla sua disillusione, ma sentiva che c’era. E sapeva che non la provava da tantissimo tempo.

Fiducia per il sorriso che si era impresso sulle sue labbra per qualche ora, fiducia per essere riuscito, per una volta, a dare gioia ad altri che ne avevano bisogno, fiducia per aver saputo ideare, dopo tantissimo tempo e frustrazione, una storia che poteva piacere.

Come quando scriveva poesie per sua mamma, a otto anni, e vedeva l’orgoglio nei suoi occhi azzurri.

Da quanto tempo non trasmetteva più nulla, nelle sue semplici storie?

Eppure … Eppure un pubblico di bambini aveva apprezzato, e tanto, i suoi goffi tentativi di interessarli, di divertirli. Forse questo valeva anche più di qualsiasi complimento che aveva ricevuto a suo tempo, e non solo perché avveniva dopo prove innumerevoli e senza successo: i bambini sono un destinatario impegnativo, perché loro più di tutti hanno bisogno di un perfetto miscuglio di buoni insegnamenti, divertimento, semplicità e temi accessibili. E aveva creduto di non essere mai stato in grado di riuscirci.

Fino a quel momento.

E ora era lì, ancora più impaziente di conoscere l’ordine di quell’orfanotrofio. Ma anche il suo desiderio di apprendere era mutato, lo sentiva: se prima i ragazzi dell’orfanotrofio erano motivo di interesse solo in contrapposizione con il suo vuoto interiore, omologati tra loro quasi come fossero un solo individuo –da questa analisi aveva sempre escluso Hikari: fin dal primo incontro aveva compreso subito che era profondamente diversa da tutti loro, anche se in maniera che non gli riusciva di comprendere-, adesso sentiva, in qualche modo, di comprenderli maggiormente, e di ammirarli come mai aveva fatto con nessun altro.

Ora erano motivo di interesse non solo perché erano diversi da lui, ma anche per scoprire chi fossero in realtà.

Osservò Koushiro di sottecchi, notando che aveva di nuovo preso a lavare le stoviglie con perizia. Era straordinario che nessuno, nemmeno i ragazzi, si lamentasse dei lavori manuali: sembrava che il rispetto per gli altri che dimostravano nella cura dei bambini vigesse anche tra loro. Erano organizzati, e sapevano dividersi i compiti senza protestare.

Anche se questo fosse consistito nell’aiutare la ben funzionante lavastoviglie a smaltire i piatti sporchi del pranzo, comunque troppo numerosi per liberarsene facilmente.

“Sai, ancora oggi me lo chiedo, Takaishi-kun, ma posso solo darti delle supposizioni.” Rispose infine Koushiro, facendolo tornare alla realtà. Lo guardò di sfuggita, prima di tornare a strofinare la spugna su una padella. “Credo sia stato perché ero curioso.”

“Curioso?”

Takeru aggrottò le sopracciglia, preso alla sprovvista. Poteva soltanto la curiosità portare a tanta devozione, a tanti sacrifici?

Quando lo fissò, nel tentativo di scoprire se fosse tutto uno scherzo, fu solo maggiormente sorpreso di vedere uno strano lampo di vitalità animare i suoi occhi neri, e uno strano sorriso piegare le sue labbra.

“Già”, confermò, annuendo. “Vedi, ho un’ammirazione straordinaria per tutto ciò che c’è da scoprire, e questo comprende, più o meno, diverse categorie: le materie scientifiche e informatiche sono quelle che prediligo, e credo te ne sia anche accorto. Ho sempre un computer a portata di mano.”

A Takeru non ci volle molto per ricordare il piccolo gruppo di novelli informatici che spesso vedeva radunarsi accanto a Koushiro, durante le sue spiegazioni in giardino. Sorrise, incredulo. “L’ho notato, sì. Ma come può questo aver influenzato la tua scelta?”

“L’informatica non è il mio unico interesse. In teoria, mi piace apprendere, e più una cosa è particolare o innovativa, più ne sono attratto.” Fu la risposta tranquilla, mentre la padella bagnata veniva presa prontamente da un Takeru attento. “All’inizio, quando questo orfanotrofio fu fondato, c’erano davvero poche speranze che il progetto riuscisse a resistere per tanto tempo … e ti dirò, gli scettici erano molto più numerosi dei fiduciosi. Pare che, prima di essere fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare molto e fare molti sacrifici per trasformare la sua abitazione nella grande villa spaziosa che vedi.”

Takeru si fermò per un istante nell’atto di asciugare l’ennesima stoviglia. Pareva che quella donna, Yagami Yuuko, avesse sempre dovuto affrontare dure battaglie.

Eppure, in quella foto, il suo viso era così sereno, così dolce …

Doveva essere stata una donna straordinaria. Ricordava le informazioni che aveva ricevuto tre giorni fa da Hikari.

Ricordava il viso di lei, così dolce, così malinconico, così pieno di triste affetto e ammirazione, e i suoi occhi castani brillanti mentre ne parlava …

“Ne sentii parlare, ovviamente, poco dopo la sua definitiva inaugurazione, e ne fui da subito incuriosito. Era pur sempre un progetto ambizioso, e difficilmente realizzabile … Oltretutto, quale sarebbe stato lo stile di vita della famiglia Yagami, e dei bambini ospitati al suo interno?”

Vide Koushiro stringersi nelle spalle tranquillamente, mentre si prendeva una pausa dal racconto.

“E così, eccomi qui.” Concluse, con un mezzo sorriso. “Quando mi sono unito a loro era già passato del tempo: è stato più o meno due anni fa. A quel tempo la signora Yagami era ancora viva, e di noi più giovani c’erano solo Sora e Mimi. Oh, e alcuni bambini che ospitiamo adesso non c’erano.”

Takeru ripensò distrattamente ai visi dei bambini che aveva potuto osservare in quei giorni, chiedendosi quale di loro mancasse, e quale invece vivesse da più tempo nell’orfanotrofio. Fu una strana sensazione, come se avesse vissuto anni senza rendersi conto che qualcosa di tanto grande come l’orfanotrofio stava già mettendo radici.

“Quindi Kido-san è arrivato dopo di te”, dedusse, e Koushiro annuì.

“Jyou-san arrivò qualche mese dopo di me, non ricordo precisamente quanti. Probabilmente cinque, o sei.”

Calò un istante di silenzio, come se il giovane dai capelli rossi stesse cercando di rievocare nella sua mente immagini passate. Aveva una strana serenità sul volto.

Era così strano osservare qualcuno che avesse solo piacere di ricordare il passato …

“Non mi hai ancora detto cosa ti spinse ad unirti a loro”, insistette dopo qualche istante Takeru, chiedendosi se, dopotutto, poteva esserci una risposta razionale alla sua domanda. Sembrava che quella decisione avesse con sé milioni di sfaccettature, e che fosse difficile fornirne una spiegazione logica.

Ma quando Koushiro si riscosse dalle sue riflessioni, non rispose immediatamente come Takeru si era aspettato.

Cominciò a ridacchiare.

Lo guardò scioccato. “Cosa ho detto?”, chiese, totalmente preso alla sprovvista.

L’altro scosse il capo, guardandolo con un interesse rinnovato e una sorta di divertito stupore. “Scusa, Takaishi-kun”, gli disse dopo un attimo di silenzio. “E’ che, in qualche modo, mi hai ricordato me la prima volta che sono venuto in questo orfanotrofio.”

Takeru, se possibile, era ancora più stupefatto. “Sul serio?”

Koushiro gli sorrise. “Proprio così. Mi sembra che tu voglia scoprire esattamente come funziona qui, addirittura scoprire il processo mentale che ha portato ognuno di noi a dedicare la nostra vita alla cura dei bambini abbandonati. Ricordo che tempestai la signora Yagami di ogni possibile domanda, nel tentativo di conoscere tutto ciò che c’era da sapere.”

“Ah.” Inspiegabilmente, un senso di delusione aveva colto Takeru. Cosa si aspettava? Un’altra anima incompleta e tormentata come lui? Era chiaro ormai da tempo che i suoi problemi fossero qualcosa che riguardava solo lui, e nessun altro.

Asciugò il piatto che aveva tra le mani con decisione, sentendo il bisogno di sottolineare la differenza tra loro. “Ma tu volevi apprendere per amore della conoscenza. Io non conosco esattamente nemmeno me stesso, e sento che solo venendo qui troverò la risposta.”

Si sentì osservato per qualche istante dagli occhi scuri di Koushiro, ma non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. In fondo, ancora non poteva dare risposte su se stesso: i dati che aveva raccolto erano ancora troppo pochi. Doveva ancora osservare, capire.

Infine, Koushiro tornò a raccontare, probabilmente consapevole del disagio dell’altro.

“Ti confesso che trovai risposta solo alle domande tecniche, nonché le prime che posi. Ebbi molte informazioni dettagliate, e più sapevo, più volevo sapere. Così, quando si arrivò a domande più personali, più di natura interiore … la signora Yagami semplicemente stette zitta, osservandomi con una strana aria divertita. Non sapevo perché lo facesse, ma non riuscii ad avere risposte, qualunque cosa facessi.

“Finché … Oh, credo tu conosca Taichi-san.”

Takeru aggrottò le sopracciglia, interessato più che mai al racconto.

Yagami Taichi. Lo aveva osservato abbastanza spesso quando non era con Hikari, e mai una volta aveva saputo spiegare cosa, esattamente, colpisse tanto di quel giovane. La grinta, aveva pensato una volta; ma non era abbastanza. L’allegria, forse; ma nemmeno quello calzava alla perfezione. Forse la spensieratezza, i modi infantili; ma poteva davvero definirlo infantile, quando il termine stesso sembrava togliergli pregi, invece che aggiungerne?

C’era qualcosa in più in lui. Non sapeva cosa fosse: sapeva solo che era un qualcosa che faceva in modo che tutto l’orfanotrofio gravitasse intorno a lui, con la stessa intensità di Hikari ma in maniera completamente diversa da sua sorella.

“Non bene come vorrei, a dirla tutta”, disse con un sorriso di scusa.

Perché di una scusa si trattava. Aveva notato l’ammirazione e l’affetto nel modo in cui Koushiro aveva pronunciato quel nome, e una volta di più aveva avuto conferma che quelle sulla grandezza d’animo di Taichi non erano soltanto supposizioni, ma verità. Ma, dopotutto, non era nemmeno lontanamente intimo al maggiore dei fratelli Yagami.

“Per quello c’è tempo. Ma quel giorno per me fu uno shock.” Ridacchiò ancora, immergendosi in chissà quale ricordo piacevole. Takeru non si perdeva nemmeno un battito di ciglia del suo interlocutore, impaziente com’era di saperne di più su Koushiro, su Taichi, sull’orfanotrofio che Hikari tanto amava. “Venne da me all’improvviso, mentre ancora pregavo sua madre di spiegarmi ogni cosa, e aggrottò le sopracciglia, in totale disapprovazione. Me ne accorsi soltanto quando mi batté una mano sulla spalla, costringendomi a guardarlo.

“Dovresti rilassarti, amico. Non lo sai che la vita non è solo un concetto teorico? Persone come me sarebbero tipo amebe, se fosse così!, mi disse, ghignando. E quando vide il mio stupore commentò ancora, scrollando le spalle: Certe volte, seguire l’istinto è più facile. Comprendi molte cose che la razionalità vuole mettere da parte. Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò che ti viene più istintivo?

Takeru si arrestò di botto.

Erano parole del passato. Solo parole che un giovane uomo aveva pronunciato per Koushiro anni prima.

Ma erano ancora vive, presenti, attuali. Ma non più per Koushiro.

Per lui.

Il cuore aveva preso a battergli in maniera strana, quasi come zoppicante. Perché la vergogna per se stesso aveva ripreso a farsi sentire, riconoscendo i suoi atteggiamenti e le loro conseguenze su di lui.

Non era forse vero che, in mancanza di felicità, aveva preso a studiarne quella altrui in maniera razionale?

Domande su domande, del tutto inutili, perché la felicità e la passione per qualcosa non possono essere contenute in rigidi schemi, in parole vuote.

Occorre sentirle sul serio.

Se solo avesse saputo come non ricorrere a felicità effimere, razionali e studiate teoricamente …

Guardò Koushiro, il suo sorriso sicuro, i suoi occhi incoraggianti, e seppe che aveva capito i suoi tormenti, e che aveva pensato che quelle parole avrebbero potuto aiutarlo.

Così come lo aveva pensato Hikari, tre giorni prima, nel riferirgli lo stile di vita di Yagami Yuuko.

Sapevano tutti. E volevano aiutarlo.

“Fidarsi dell’istinto ti è servito, Izumi-san?” gli chiese esitante. Ma in fondo, conosceva già la risposta.

Era davanti ai suoi occhi, nella sicurezza dell’altro.

E Koushiro annuì, e il suo sorriso si fece più ampio. “Ragione e istinto devono necessariamente coesistere. Non si può vivere senza uno di questi aspetti: persino un maniaco dell’informatica deve saperlo.”

In che modo si fosse fidato dell’istinto, e cosa questo gli avesse fatto capire, Koushiro non lo specificò, e Takeru non lo chiese. Era qualcosa di personale, qualcosa di solo suo, e il giovane dai capelli biondi non intendeva violare i suoi spazi, né pretendere di sapere qualcosa che non lo avrebbe affatto aiutato.

Il suo istinto, così come il suo carattere, era diverso da quello di Koushiro, sebbene ancora non lo conoscesse appieno.

Ma una sensazione di gratitudine lo colse all’improvviso.

Ricambiò il suo sorriso, felicemente stupito dell’inaspettato aiuto dell’altro. “Lo terrò ben presente. Grazie.”

Lo vide scuotere il capo, mentre finalmente chiudeva il rubinetto lasciato aperto. “Ringrazio io te, Takaishi-kun. Non c’era bisogno di aiutarmi a lavare i piatti.”

“Direi che è il minimo, visto quello che voi fate per me”, rispose lui sinceramente, finalmente posando lo straccio bagnato che aveva usato fino a quel momento. Sospirò, scoprendosi stanco dopo quel lavoro: non se n’era quasi accorto, preso com’era dalle sue riflessioni. In fondo, era contento che fosse finito.

“Attenzione … non mettetevi sulla porta, potrei combinare un danno irreparabile!”

Quell’urlo apprensivo, insieme con quel rumore di stoviglie sfregate l’una con l’altra, distolsero i due giovani dalla loro conversazione. Takeru si voltò di scatto, e per un istante ringraziò il cielo di non essere accanto all’entrata della cucina.

Dalla porta, con un’espressione preoccupata, gli occhiali storti sul naso e una pila pericolante di piatti sporchi tra le mani, Kido Jyou aveva appena fatto il suo ingresso, e ogni cosa nel suo incedere faceva presagire una caduta fragorosa.

Temendo il peggio, Takeru scattò in avanti per dargli una mano, proprio quando Jyou sembrò perdere definitivamente il precario equilibrio che aveva acquisito fino a quel momento.

I piatti tintinnarono pericolosamente tra le sue mani, quando afferrò prontamente dalle mani di Jyou quelli che sicuramente avrebbero fatto una brutta fine e li sorreggeva.

Appena in tempo.

Jyou gli sorrise, grato, poggiando la pila dimezzata sul lavello. “Oh. Grazie! Forse avrei dovuto fare due viaggi, invece di liberarmene tutto d’un colpo …”

E mentre Koushiro rideva, dicendo al giovane dai capelli scuri: “Jyou-san! Abbiamo rischiato di ritrovarci senza piatti per stasera!”, Takeru fece un rapido conto del numero di stoviglie sporche che c’erano ancora da lavare.

Una pila intera appena portata da Jyou. Senza contare quella che lui aveva salvato dal disastro …

Pareva che il momento di pausa e meritato riposo dovesse aspettare ancora un po’.

Sospirò, alzando le spalle rassegnato. “Pare che ci sia ancora da rimboccarci le maniche, Izumi-san …”


***


Era esausto.

Non aveva fatto altro che lavare e asciugare, quel pomeriggio. Nel tentativo di essere di qualche aiuto per quei giovani così oberati di lavoro, aveva messo da parte ogni sua esigenza personale.

E dire che capitava di rado che lavasse i piatti, nel suo appartamento. Era da solo: spesso e volentieri utilizzava piatti di carta. Senza contare tutte le volte che Daisuke lo aveva quasi costretto a pranzare con lui e i ragazzi nel bar vicino all’università –chissà quanto tempo fa: da quant’era che non li vedeva e sentiva più? Credeva di aver persino dimenticato il cellulare nel suo appartamento, unico mezzo con il quale si contattavano ultimamente-.

Non aveva poi tanta esperienza, in quel campo.

Invece ora si ritrovava con mani ruvide e secche e con una terribile voglia di sedersi da qualche parte.

Il suo bisogno di rendersi utile e di capire quello che lo circondava doveva essere davvero forte e totalizzante, se lo portava ad osare anche in cose di cui non era molto pratico.

La cosa più assurda era che, nonostante l’ora e mezza impiegata in cucina, Koushiro e Jyou avevano ancora diverse faccende da sbrigare. Come passare l’aspirapolvere, lavare i vetri, stendere i panni, riordinare alcune camere, e numerosi altri compiti che avevano fatto quasi boccheggiare il ragazzo quando li aveva sentiti enumerare dai due improvvisati addetti alla pulizia.

Forse era stato anche per la sua istintiva reazione scioccata che Jyou aveva rifiutato ogni nuova proposta di aiuto da parte sua.

“Se non te la senti, è inutile che ci aiuti. Approfittane per riposarti, dai”, gli aveva detto. E poi gli aveva consigliato di cercare Sora o Hikari, che, insieme a lui e a Koushiro, erano le uniche persone ad essere all’orfanotrofio. Taichi e Mimi, a quanto sembrava, erano a lavoro, quindi momentaneamente non disponibili.

Eppure, Takeru camminava in un orfanotrofio stranamente svuotato.

Il corridoio ampio e lungo rimbombava dei suoi passi man mano che, esitante, avanzava.

Nessuna traccia di Sora, né di Hikari. Tantomeno della onnipresente folla di bambini.

Solo il rumore lontano dell’aspirapolvere.

Era strano. Solitamente non era mai stato lasciato da solo a vagare per l’orfanotrofio: Hikari lo accompagnava in ogni sua visita, senza lasciarlo mai e rispondendo con infinita pazienza ad ogni sua domanda.

Quel pomeriggio, Hikari non era con lui.

E ora lui si sentiva un pesce fuor d’acqua. Quasi come fosse tornato al tempo in cui si limitava a spiare, troppo vigliacco per dire a tutti quanta voglia avesse di comprendere e vedere con i suoi occhi. Quasi come se, scopertolo a vagare per quei corridoi, avessero potuto sbatterlo fuori senza altre parole di spiegazione.

Non sapeva come comportarsi.

Sbirciava, senza sapere cos’altro fare, nelle camere da letto che trovava sulla strada, trovandole sempre stranamente vuote.

Fu costretto a smettere solamente quando, in una di queste, trovò un gruppo di bambine, impegnate a parlare concitatamente di chissà quale piccolo segreto, di cui loro erano le uniche ad essere al corrente. Le chiacchiere si interruppero quando lo videro arrivare; una di loro, con capelli neri legati da una piccola treccia, alzò la testa di scatto, e strillò un “Ehi!” così indignato che Takeru si sentì immediatamente in dovere di sparire.

Non senza una scusa frettolosa, e un rossore inspiegabile sulle guance.

Mai una volta che riuscisse a sapere esattamente come comportarsi, con loro.

Da quel momento in poi, decise che sbirciare non era una buona idea.

Sospirò, appoggiandosi pigramente al muro di fronte a lui. Una finestra che dava sul cortile diffondeva per tutto il corridoio la luce di un sole che, con il sopraggiungere della primavera, spuntava sempre più spesso tra le nuvole.

Si affacciò a quella finestra, sentendo il bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa.

E solo allora capì che fine avevano fatto tutti quanti.

Lo scorcio di giardino visibile al di là del vetro mostrava chiaramente la maggior parte dei bambini, che non gli era riuscito di trovare da nessuna parte, intenti a divertirsi in ogni maniera possibile, probabilmente approfittando del nuovo clima mite che si stava lentamente preparando a diventare abituale.

E con loro  Sora, seduta in mezzo al prato mentre parlava con un piccolo infortunato e medicava il suo ginocchio sbucciato.

Takeru li osservò con aria assorta, mentre vagava con lo sguardo da un bambino all’altro.

Eccoli lì. Nella loro bolla di certezze, protetti dalle angosce del mondo.

Erano ancora lì, dopo anni, dopo che anche la fondatrice di quel nido di sicurezza li aveva lasciati.

Non avevano mai smesso di essere lì.

E ora che conosceva un aspetto del passato di quel luogo, osservare la perfezione di quell’orfanotrofio, e il suo ordine, e la sua grandezza, era diventato ancora più particolare.

“All’inizio, quando questo orfanotrofio fu fondato, c’erano davvero poche speranze che il progetto riuscisse a resistere per tanto tempo … e ti dirò, gli scettici erano molto più numerosi dei fiduciosi.”

Dopo aver avuto una breve panoramica di quale fosse stata la situazione all’inizio, appariva davvero curioso vedere che tutto, ora, aveva senso.

Prima era solo un progetto.

Un sogno, di una donna soltanto. Yagami Yuuko.

L’unica, probabilmente, che aveva visto così lontano. Che aveva osato tanto.

Che aveva osato rinunciare a tutto per un sogno, un sogno che così facilmente avrebbe potuto rivelarsi un completo fallimento.

“Pare che, prima di essere fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare molto e fare molti sacrifici per trasformare la sua abitazione nella grande villa spaziosa che vedi.”

Aveva già previsto che i suoi figli sarebbero diventati suoi degni eredi, altrettanto sognatori, altrettanto decisi a rischiare il tutto per tutto?

Sapeva che altri quattro ragazzi avrebbero seguito più tardi le orme dei fratelli Yagami, mandando avanti il progetto e sacrificandosi in ogni modo?

Forse lo aveva capito grazie all’istinto? Quell’istinto di cui gli aveva parlato Koushiro quel giorno? Quell’istinto che lui, probabilmente, non sapeva ancora sfruttare?

“Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò che ti viene più istintivo?”

Se solo avesse saputo come fare.

Sorrise lievemente, considerando l’enormità di quello che era sempre stato sotto i suoi occhi, e che mai aveva considerato.

Tutto per dei bambini di pochi anni.

Tutto per un sogno grande quanto quella villa, e verde come quel giardino.

Scosse la testa, appoggiando una mano sulla parete accanto alla finestra. Quasi a volerne sentire la consistenza, il calore.

Gli sembrava che quelle mura gli parlassero in maniera diversa, ora che, infine, capiva.

Quelle mura nascondevano un segreto. Un passato così importante da rendere soldato ognuno dei giovani che si occupavano di quei bambini.

Un segreto che lui voleva scoprire, pur non conoscendone il motivo.

In fondo, come mai era così attratto da quell’orfanotrofio, da quel calore?

Lui, nei sogni, non ci credeva più.

Non ricordava nemmeno come ci si sentisse ad essere bambini.

E allora perché?

Il mal di testa tornò a farsi sentire più forte che mai, e Takeru fu costretto a rinunciare. Forse non era il caso di pensarci oltre, per quella sera. Avrebbe fatto meglio a correre a casa, magari a cercare di studiare. Aveva trascurato persino l’università, in quel periodo.

Si allontanò dalla finestra, decidendosi ad andar via a grandi passi. Avrebbe trovato Hikari in giardino, probabilmente, e le avrebbe fatto sapere che sarebbe tornato al più presto.

E avrebbe visto di nuovo quel suo strano sorriso luminoso e dolce apparire sulle sue labbra, si disse. Ogni volta che le prometteva di tornare aveva sempre quell’espressione …

Gli sembrava sempre che lei vedesse in lui qualcosa che lui stesso non aveva mai capito di sé, chissà per quale motivo.

Avrebbe tanto voluto sapere a cosa pensava ogni volta che …

Un canto gentile e sommesso, proveniente dalla stanza da letto proprio davanti a sé, interruppe bruscamente il suo incedere e i suoi ragionamenti.

Non si aspettava che ci fosse qualcuno.

Cautamente, avanzò, deciso a scoprire la fonte di quella melodia.

Era dolce, quasi sussurrata. Armoniosa, come la voce delicata che sentiva a stento, ma che gli parve così piena di affetto da risultare quasi sconvolgente.

E il motivo sembrava una ninnananna.

Aggrottò le sopracciglia, colto di sorpresa. E affrettò il passo, decidendo di risolvere al più presto il mistero.

Si fermò sulla porta, osservando con discrezione all’interno.

Le serrande erano quasi completamente abbassate: la luce filtrava dalle fessure educatamente, quasi con esitazione, come se non volesse disturbare il clima di placida serenità in quella stanza.

Di fronte a sé, un paio di culle nascondevano due visetti paffuti addormentati, tenuti caldi da copertine il cui colore era indistinguibile, in quel buio quasi totale.

E la melodia proveniva da una minuta figura femminile in piedi, che stringeva tra le mani un fagottino –era un maschietto o una femminuccia?- mentre, di spalle alla porta, ondeggiava sul posto.

Hikari.

Rimase paralizzato sulla porta, in preda ad una curiosa sensazione.

Lei sembrava così dolce. Così materna. Così affettuosa.

E ogni secondo di ascolto di quella dolce nenia gli causava una strana stretta allo stomaco. Come se la voce di Hikari riuscisse a scalfire la barriera di solitudine che intrappolava la sua sofferenza dentro di sé, gentile ma ferma, luminosa ma cortese, come la giovane a cui essa apparteneva.

Come la sua figura, che tanto sembrava scaldargli l’animo.

Pareva …

Un angelo.

Quasi non osava respirare, per paura di farsi scorgere.

Non osava disturbare quella quiete quasi irreale con la sua presenza.

Non voleva che quel canto si fermasse.

E un sorriso si fece largo sulle sue labbra mentre stava immobile ad ascoltare, dimentico di tutto, desiderando soltanto di poter trovare rifugio in quelle note, in quella voce, in quella presenza che tanto sapeva sconvolgerlo ogni volta che l’avvertiva accanto a sé.

Finché un lieve singulto soffocato non interruppe il canto, e Hikari non si zittì.

Il sorriso morì sulle labbra di Takeru, quando avvertì un cambiamento nell’aria.

E lo sentì ancora.

Un altro singhiozzo quasi inudibile mentre la giovane dai capelli scuri –aveva ancora il viso rivolto altrove, non riusciva a scorgerne l’espressione- posava il piccolo in una terza culla.

E ancora un altro, mentre si sedeva sul letto, e si portava una mano alla bocca per non far rumore, e le sue spalle tremavano.

Una sensazione di gelo invase Takeru all’istante, e forse fu quella la causa del suo improvviso irrigidimento in tutto il corpo.

Hikari stava piangendo.

Senza un motivo apparente. Così, all’improvviso.

Come se un dolore senza fine le avesse appena afferrato il cuore, e soffocato in gola la sua melodia.

Piangeva in silenzio per non svegliare i piccoli che aveva appena fatto addormentare.

E ogni suo singhiozzo sembrava spezzare la serenità di quella stanza.

E ogni singhiozzo sembrava stringere una morsa di angoscia dentro di lui.

Turbato, la fissava piangere, sentendosi soffocare da una profonda tristezza.

Tristezza causata da incapacità di essere d’aiuto. Da frustrazione per non poter consolare. Che era …

No.

Non era il suo solito bisogno di donare conforto in qualche maniera.

Era incapacità di essere d’aiuto a Hikari.

Il suo sorriso era una sua costante: ogni volta che l’aveva vista in volto era sempre il suo sorriso la prima cosa che notava di lei. La prima cosa che lo scaldava, ancor prima delle sue parole di conforto.

Ed ora, che proprio il sorriso le veniva a mancare …

Vuoto. E quasi dolore.

Incomprensibile dolore.

Come potevano le lacrime solcare quel viso così bello?

Non seppe quando si mosse, quando il pensiero si trasformò in azione e quando i suoi occhi si rifiutarono di osservare oltre quello spettacolo.

Seppe solo che si avvicinava cautamente a quel lettino.

Che le si sedeva accanto. Che, esitante, le metteva una mano sulla spalla, e con l’altra le cingeva le spalle minute e tremanti.

E che la sua voce quasi sussurrata tentava solo di frenare quelle lacrime.

“Hikari-chan”, disse piano. Ogni formalità sembrava inutile in quel momento, nonostante quel sussulto di sorpresa della giovane. Non si aspettava quel cambiamento, tantomeno la sua presenza apparentemente immotivata. “Cos’è successo?”

Hikari alzò il capo, e i suoi occhi lievemente arrossati –sembrava arrossato anche il suo viso, ma non poteva esserne sicuro, con quella penombra- parlarono della sua sofferenza ben più del sorriso di scusa che piegò le sue labbra. Si asciugò in fretta gli occhi. “S-scusami, Takeru-kun. Sto bene, davvero. Non so cosa mi sia preso …”

“Perché non provi a fidarti di me, stavolta?”

Parlò d’impulso, accorato e ancora a bassa voce per non farsi sentire.

Hikari si zittì di colpo. “Eh?”, chiese confusa.

Takeru rimase per un istante silenzioso: osservava le sue mani posate sulle spalle della giovane. Senza volerlo, ora che aveva acquisito confidenza con quella pelle sconosciuta, si era ritrovato a stringere la presa. Probabilmente per darle più calore, conforto.

Eppure era strano. Il calore doveva donarlo, non sentirlo crescere sempre più forte dentro di sé.

Era come se avesse bisogno anche lui di quel contatto.

“Io mi fido di te. Se non lo facessi, non sarei qui, dato che la maggior parte delle cose qui ancora mi sfuggono. E mi sono sempre rivolto a te quando le mie confusioni si facevano insostenibili, lo sai. Adesso …” La guardò negli occhi ancora lucidi, leggendo nella sua espressione tanta sorpresa. Non se lo aspettava. “Adesso fidati di me, per favore. E dimmi cosa c’è, e cosa posso fare per te.”

Non osò esplicare a voce alta anche la muta promessa che i suoi occhi fecero: lui avrebbe fatto qualsiasi cosa –qualsiasi- per asciugare davvero quelle lacrime e quel dolore.

In quel momento, lo capirono entrambi.

Vide Hikari abbassare nuovamente il capo, e posare lo sguardo sul copriletto. Una ciocca di capelli le cadde davanti agli occhi e rimase lì, quasi a ricordare a Takeru quanta voglia avrebbe avuto di spostargliela dolcemente dal viso.

Ma non osò muoversi, turbato dallo strano silenzio della giovane.

“Ho guardato quei neonati negli occhi.”

Assomigliava a un sussurro spezzato, la voce di Hikari. Era libera dai singhiozzi prepotenti del pianto, ma in qualche maniera sembrava ancora più disperata di prima.

“E ho pensato … a cosa ne sarà di loro. Quale sarà il loro futuro. Se cresceranno bene, se saranno forti … se staranno bene.”

Takeru, per un istante, credette di aver capito male. La fissò, scioccata.

Era tutto lì il problema? Era per quello che piangeva?

“Hikari-chan, è normale che staranno bene”, tentò, cercando di suonare più incoraggiante che perplesso. Incredibile che i ruoli si fossero invertiti, tra loro. Per un motivo così strano, poi. “Siete delle persone così amorevoli e attente che è praticamente impossibile che possano star male.”

Ma attese invano una qualsiasi reazione da parte di lei.

Aggrottò le sopracciglia, ancora più perplesso. Forse aveva di nuovo fatto cilecca, e non aveva rassicurato proprio nessuno, come suo solito.

Avrebbe dovuto ritentare? Come poteva aiutarla?

“Senti, te lo posso assicurare. Ti ho vista, vi ho visti. Siete straordinari. Non ti sembra una preoccupazione un po’ infondata? Non hai niente da temere. Finché quest’orfanotrofio sarà in piedi, i bambini staranno benissimo. Dico davvero: da quello che ho sentito, tua mamma ha organizzato tutto alla perfezione. Aveva capito i bambini, sapeva come trattarli, farli giocare, e …”

“Takeru-kun.”

Non fu l’essere stato interrotto durante il suo discorso sconclusionato, né l’avere di nuovo i suoi grandi occhi castani su di sé.

Fu il tono con cui disse il suo nome a zittirlo. Con serietà, senso di colpa e dolore.

Cosa sta succedendo?

Hikari prese un respiro tremante. “Finché l’orfanotrofio sarà in piedi.” Ripeté.

Takeru non capiva. La fissò ancora, tentando di afferrare il senso di quelle parole.

L’occhiata sul viso di lei non gli piaceva.

Cosa diavolo sta succedendo?

E mentre le labbra di Hikari tremavano, e grosse gocce di dolore brillavano stranamente nella penombra, il giovane vide l’ombra incombente di un segreto in quella villa, e un peso insopportabile gravare sulle esili spalle di lei.

“Avrei dovuto dirtelo prima, Takeru-kun. Mi dispiace. Ma credo che tu debba sapere, ora che … ora …”

Un singhiozzo, poi un respiro profondo.

Il dolore sembrava penetrargli nelle ossa, senza conoscerne il motivo. Strisciava insinuante proprio come quell’orrendo presentimento.

Forse avrebbe fatto meglio a non sapere.

Infine, la frase che pose fine all’impazienza. E a ogni dubbio.

“Rischiamo di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi. E se dovesse accadere davvero … migliaia di vite saranno perdute, così come il sogno di mia mamma.”

Le mura di quella villa crollarono su Takeru in quell’istante.





Eccomi di ritorno dopo il periodo di pausa! Finalmente ho modo di aggiornare questa long-fic ^^ e quello che vi propongo oggi è il capitolo che dà inizio alla parte centrale della storia. Da adesso in poi gli sviluppi saranno sempre più notevoli ... a cominciare dal nostro Takeru :) a questo proposito, vi avviso che la scena non è interrotta: è stata solo sospesa momentaneamente. Tra un paio di capitoli saprete anche il perché ;)
E ora, come sempre, i ringraziamenti dovuti ai miei lettori!
li_l, leggere dei tuoi commenti si rivela sempre molto utile: mi aiuta a capire se abbiamo dei punti di vista diversi riguardo alcuni atteggiamenti dei personaggi che sto trattando in questa storia. L'idea che hai di Hikari è davvero molto vicina alla mia, e per questo posso assicurarti una volta di più che non ho alcuna intenzione di banalizzare questo personaggio così bello :) farò il possibile per renderle giustizia! E prenderò in considerazione l'idea di un confronto serio tra Hikari e Ken, perché l'idea alletta anche me. Anche se sarà più in là sicuramente xD ora come ora è troppo presto ... Se ti interessa la decisione di Miyako riguardo l'appuntamento, ti aspetto al prossimo capitolo, dove lo svelerò sicuramente! Grazie per la tua decisione di continuare a seguirmi :)
Shine, ci tenevo ad avere le tue solite impressioni dettagliate riguardo al sogno di Miyako. Descrivere un sogno, soprattutto uno agitato, può rivelarsi molto difficile da diversi punti di vista ... non è stato facilissimo per me trattare una cosa del genere. Ma questa storia mi sta dando la possibilità di sperimentare molti generi e trovate stilistiche diverse :) Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto un approccio diretto con l'inconscio di un mio personaggio, in modo da trattare anche i sentimenti più nascosti ... e in questo caso volevo creare la contrapposizione tra una Miyako più giovane e spensierata e una Miyako più matura e ferita, piena di nuovi timori e vecchi rimpianti.  Ti ringrazio di aver apprezzato questo tentativo ^^e anche per i tuoi commenti,  sempre preziosi per me! Mi rassicuri un sacco **
Con questo, vi saluto fino al prossimo aggiornamento! Grazie per la fiducia :)
Padme Undomiel

   
 
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