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Autore: Guardian1    01/10/2010    1 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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capitolo undici
il sentiero aspro che porta all’apocalisse



The stars go waltzing out in blue and red,
And arbitrary blackness gallops in:
I shut my eyes and all the world drops dead.

I dreamed that you bewitched me into bed
And sung me moon-struck, kissed me quite insane.
(I think I made you up inside my head.)

God topples from the sky, hell’s fires fade:
Exit seraphim and Satan’s men:
I shut my eyes and all the world drops dead.

I fancied you’d return the way you said,
But I grow old and I forget your name.
(I think I made you up inside my head.)


Le stelle danzano un valzer in blu e rosso,
E entra galoppando il nero arbitrario:
Chiudo gli occhi e casca il mondo.

Ho sognato che tu mi stregavi a letto
E cantavi per me come un matto, baciandomi come un pazzo.
(Credo di averti averti inventato nella mia testa.)

Dio torreggia dal cielo, le fiamme dell’inferno si attenuano:
Escono serafino e gli uomini di Satana:
Chiudo gli occhi e casca il mondo.

M’illudevo che saresti tornato come avevi detto,
Ma sono invecchiata e ho scordato il tuo nome.
(Credo di averti inventato nella mia testa.)


- sylvia plath



Le ombre di due piccole figure vengono proiettate dal fuoco modesto e fumoso di un accampamento. Hanno le pance piene di pane, carne, e formaggio, e dormicchiano fingendosi di vedetta. Garnet, che si è arresa alle loro preghiere e ha concesso loro di stare di guardia come i membri più grandi del gruppo, è seduta poco lontano per non farsi entrare il fuoco negli occhi e rammenda una canottiera. (Riesce a tenersi sveglia semplicemente per il fatto che rammendare uno strappo è completamente diverso da un ricamo, e le sue dita arrossate raccolgono e perdono continuamente i nodi dalla tela ruvida. Domattina Gidan la prenderà e le sue dita svelte danzeranno con l’ago fino a rendere invisibile lo squarcio.)

La prima viene svegliata di soprassalto dalla sensazione del cappello del piccolo mago nero che le cade sui capelli, piegato dalla gravità, e dopo un sobbalzo è attenta e ansiosa di dimostrare che non si era veramente appisolata. « È un drago? »

Anche Vivi trasalisce da sogni al profumo di cenere, socchiudendo gli occhi in preda al panico per vedere il dragone che si rivela in realtà un gufo in cerca di uno spuntino. « … È-è un uccello, Eiko. »

« … Avrebbe potuto essere un drago. Non stavi guardando bene! »

« M-ma ha le p-piume! »

« Qualche drago potrebbe avere le piume » annuncia lei nel tono compassionevole del colto rivolto all’ignorante.

« Non sarebbe b-bello » dice lui dopo un po’. « P-poi assomiglierebbero a uccelli, e non a d-draghi. »

« Potrebbero nascondersi negli stormi di uccelli » ribatte Eiko, pensosa. « Hmmm, gnam. »

« Eiko! »

Mogu si dimena nella tasca davanti della salopette di Eiko, un fagotto caldo di pelo con un pompon e due squisite alucce in miniatura rannicchiato contro la sua pancia. « Potete dormire se volete » propone generosamente. « Sto io di guardia. »

È stata una lunga giornata. Vivi si accascia indecorosamente sul suo grembo mettendo la testa vicino a Mogu, abbastanza vicino da sentire il piccolo motore del suo battito. Eiko abbassa lo sguardo. Lui le sorride, dolce e assonnato, gli occhi d’oro piccole mezzelune stanche. Vivi le dà tutto, le ha sempre dato tutto, non c’è nulla che non si toglierebbe per offrirlo a lei con le manine tonde coperte di cuoio. « Buonanotte. Ti amo » aggiunge in modo un po’ troppo zelante.

Vivi ama tutti, ma Eiko si guarda attorno con le guance rosse per controllare che nessuno abbia sentito. C’è solo Garnet che scuce i nodi; i capelli le nascondono il sorrisetto generato dalle parole del mago. « Anch’io ti amo » borbotta la maghetta bianca, la faccia accaldata. « Fondamentalmente. Più o meno. Sì. Dormi. »

Lui sta già dormendo.




Non chiedetemi perché.

Mi svegliai che era già mattina – pomeriggio – il sole era alto e non riuscivo a rimettere insieme i pezzi – con un enorme, sterile vuoto dentro di me, ampio quanto l’oscurità alla fine di ogni cosa e quanto un golfo aperto di nulla mentre cercavo disperatamente di sentire qualche emozione. Ci provai per dieci minuti: provai a disprezzarlo – privai ad amarlo – e poi chiusi gli occhi, spossata ancora una volta da quel silenzio.

Esistono parole specifiche per le ragazze che diventano volontariamente amanti dei propri rapitori, e non sono gentili. Le usai tutte contro di me fino a esaurire similitudini, metafore e lingue straniere, e mi addormentai e risvegliai ascoltando il suo respiro e il suo cuore irregolare.

Oh-

Chiamatela violenta. Chiamatela arrabbiata. Chiamatela morbosa, chiamatela perversa, chiamate quella cosa come volete – ma chiamatela volontaria, perché era questo che era. Era quasi un sollievo, in un certo senso, smettere di combattere le onde furiose e farsi finalmente risucchiare per riposare sul fondo fresco dell’oceano. Ero caduta senza volare, ma non c’era più ragione di sbattere invano le ali per contrastare il tutto.

Meglio congelare che bruciare, Eiko.

« Madre, sei tornata » disse Rain, e fine della storia.

Madre. Sì. Ero madre. Sporcata da vostro padre, dolci ragazzi, sì, incoronata vostra regina nel letto matrimoniale più violento, marcio e caldo possibile. Quando feci la mia apparizione nella sala grande a tarda mattinata si radunarono attorno a me, ancora delicati, contusi e con i piedi maldestri, dondolandosi sui miei piedi e sull’abito di cotone sfrangiato e molto poco regale.

Al mio risveglio completo e definitivo, lui aveva acceso le candele. Niente colazione a letto, niente rose, però mi aveva portato la luce. Al tremolante bagliore arancione, gli avevo afferrato la sibilante coda pelosa; quel sottile ragazzo-spaventapasseri dai capelli bianchi aveva gracchiato come un uccello, poi era scoppiato a ridere, e poi ci eravamo messi tutti e due a ridere e a ridere e a ridere come adolescenti ubriachi, rituffandoci nel profondo buio caldo e stantio, tra le coperte ammuffite che odoravano di piume. Eravamo due corpi l’uno sull’altro, piume sulla pelle e sul corno da sciamana, che si facevano il solletico e si aggrovigliavano – la risata di Vivi era stata calda e dolce e vivace e si era fermata bruscamente alla vista delle mie lacrime stanche, nate dalle risate e un po’ dal fatto che ero caduta senza lottare. Allora si era ritratto – silenzioso, freddo, l’uomo e non più il ragazzo – e se n’era andato.

Le candele si erano spente con lui.

« Ti abbiamo cercata tanto tanto tanto » intervenne Sunny, ansioso, traboccante di entusiasmo e sollievo. Nessuno di loro si era Fermato, scoprii, o morto per la rabbia feroce in cui era sprofondato Tango, o morto per avermi cercato inutilmente nelle cantine dove si celava ancora qualche creatura. Shiny era stato buttato contro il muro dal padre e si era fatto male a un braccio, che però era già stato fasciato ed era guarito in fretta. Tutte le nostre ferite e i nostri dolori vennero rinchiusi in un piccolo cofanetto: ci avremmo pensato dopo. Non siamo morti, bambini; possiamo guarire. « Non volevamo perderti, madre, ci dispiace- »

« È tornata. »

Vivi, dalle travi. Scivolò giù come un corvo con una corona, senza nebbia nera, recuperando il proprio posto accanto a me nel mare di cappelli a punta. Mi cinse la vita con un braccio e spiegò le ali, un pavone che dominava il branco. « Adesso è la Signora. »

I maghi neri pestarono i piedi quando lui mi sollevò il mento e mi baciò. Se le mie labbra si mossero sulle sue, era perché tremavano.

Bastardo del cazzo, fai tanto il gallo del pollaio-

« Tornate alle vostre mansioni » ordinò, perentorio, l’affettuoso imperatore. Kuja in persona non avrebbe saputo raddrizzarsi con tanta dignità e tanto prestigio. « Io e vostra madre dobbiamo lavorare. Saremo nella biblioteca. Figlio » Indicò Rain. « Assistimi. Voialtri, non disturbateci. »

I maghi neri mormorarono il proprio assenso. Tutti mi toccarono la gonna prima di andarsene; si sentiva il fruscio tenue del cuoio che sfiorava il cotone.

« Dobbiamo lavorare. » Il bisbiglio al mio orecchio non proveniva dal re impertinente del reame, ma dal cantilenante Tango Nero. « Adesso vieni, amore mio. Guarderai le mie equazioni per abbattere la Morte, e insieme ce la faremo. Adesso sei mia, Principessa, mia mia mia. »

Distolsi lo sguardo, sentendomi impotente, e sentirmi impotente mi dava rabbia. C’era qualcosa di simile all’odio che ribolliva tra di noi, come se lui fosse la miccia e io la pietra focaia, con le scintille che ricadevano a terra come pioggia lenta. « Hai un ego veramente spropositato, Vivi. »

« Io sono più grande » ribatté, con un tono strano da battibecco infantile. « Ho il diritto di dire le cose come stanno. Adesso baciami in maniera decente, Carol, fino a romperti le labbra. »

E lo baciai. La sua bocca era arrendevole, morbida e compiacente come quella di una ragazzina, e gli graffiai intenzionalmente la fronte col corno mettendoci la stessa forza e lo stesso dolore che imprimevo nel bacio. Io sono tua quanto tu sei mio, Tango. Quando si allontanò, il mio amore di un tempo si limitò a sorridere.

« Forza » borbottai, troppo consapevole degli occhi di Rain mentre cominciavo a zoppicarmene via. I suoi baci erano come un’onta pubblica, come se venissi spogliata e poi carbonizzata. Non era un corteggiamento. « Non abbiamo il tempo per queste sciocchezze. »

Avevo fatto solo un paio di passi claudicanti quando lui mi raccolse tra le braccia, neanche fossi un’invalida. Mi portò fino alla biblioteca in quella culla mentre Rain ci seguiva a passi felpati.

Non c’era nulla di più fragoroso del silenzio di condanna dei miei Eidolon. Gli Dei stessi mi avevano voltato le spalle.

Non so perché lo feci. Non chiedetemi perché.



Aveva la calligrafia a zampe di gallina. E ci aveva riempito libri e libri e libri per calcolare la rinascita del Dio della Morte, piccoli schemi macchiati con la penna di una delle sue ali che aveva immerso nel bell’inchiostro blu violaceo che doveva essere piaciuto a Kuja.

Io, un’ingegnere, una matematica, riuscivo a capirne solo metà. Non sapevo se la cosa si dovesse a un genio eccezionale, a una follia eccezionale, o al fatto che la calligrafia di Vivi fosse peggio di quella di un trick sparrow con gli artigli imbrattati di fango.

« Ho calcolato la Morte » dichiarò, entusiasta. Ci trovavamo in una delle vecchie biblioteche di Kuja; aveva fatto una raccolta di libri, migliaia di libri, i leggeri che ricadevano pesanti sui vecchi tomi polverosi. La scrivania a cui eravamo seduti era sormontata da una pila di volumi altissima. Erano grossi in una maniera opprimente. « L’ho misurata, linden-blum, fino al quadrante più alto, compresa la prospettiva, ho fatto la triangolazione, ho rilevato le tracciature. Tera era più piccola di Gaya. La distruzione è stata minore. Non c’è bisogno di toccare il nucleo- »

Le gradazioni di Vivi erano cariche di morte e distruzione. « Ma quanto? »

(Mi mostrò una mappa del mondo. Era quasi completamente punteggiata d’inchiostro.)

Non è solo vita, spiegò, tanto elettrizato che il cappello gli traballava sulla testa mentre pigiava le dita ossute ammantate di cuoio sulla pergamena spiegazzata. Beh, è vita. (Non capisci, Carol?) Tutto il mondo è composto di vita. I fiumi ci scorrono attraverso, e Trivia si nutre della morte di quella vita. Tu bruci in sacrificio questo, questo, questo – (bruci il mondo stesso, linden-bloom, lo ferisci, lo offri che ti palpita ancora tra le mani) – e poi questo e lui arriva-

Nella mia mente vedevo Vivi tra le fiamme che tutto vestito di nero conficcava una spada insanguinata dentro Gaya. Il pianeta si torceva e gridava, e poi viticci verdi lo afferravano per le caviglie e per i polsi e lo trascinavano giugiù-

Faceva troppo caldo. Mi asciugai la fronte, sfiorando il corno da sciamana. « Ed è per questo che non possiamo usare questo metodo, Vivi. Non possiamo distruggere così tanto. Non possiamo. È una di quelle strategie in cui fai terra bruciata e non ti rimane niente. Dove andremo quando tutto sarà morto? »

Strimpellò le dita sul legno mentre ponderava i suoi calcoli, le piume rizzate. All’improvviso mi sentii in lutto per l’intellettuale che avrebbe potuto essere; un giovanotto dai capelli bianchi con la balbuzie che girava per le università di Lindblum, tragicamente brillante e sepolto nei libri. Avremmo potuto frequentare l’università di mio padre insieme, io e Vivi, e quel pensiero particolare mi avrebbe demoralizzato per l’eternità. « Magia » mugugnò, « magia e matematica. L’evocazione potrebbe squarciare il mondo, piccola Carol. »

« Se ci troviamo davanti a un “potrebbe” e a un “sicuramente,” io provo a fidarmi del “potrebbe,” non credi? »

« Allora questa cosa facciamola insieme. » Sembrava compiaciuto, come se avesse fatto del suo meglio per arrivare a quella risposta, e affogai l’impulso di piantargli un pugno nel faccino soddisfatto. Vivi si alzò, e i cenciosi resti del soprabito gli lambirono le caviglie mentre raggiungeva uno scaffale impolverato. Sfiorò i dorsi con una di quelle dita di cuoio, quasi li accarezzò, e tutte le falangi dei miei piedi si accartocciarono tra loro in una strana reazione.

« Ho tanti libri » confidò. Ma dai. « Libri, libri, libri. C’erano delle figure. Li avevo visti- » Ne estrasse uno e lo soppesò. « Qui dentro ci sono i tuoi Eidolon, linden-bloom. Qui dentro ci sono i tuoi mostruosi genitori. »

Il tomo incredibilmente pesante atterrò di fronte a me con un tonfo scricchiolante, aprendosi. Vidi un disegno accurato – grande al massimo quanto i miei due indici messi uno dietro l’altro – di un volatile con le ali spalancate; l’inchiostro dei colori si era sbiadito in tonalità polverose di viola, ocra e zafferano, la scrittura era spigolosa, arcaica e difficile da leggere. Palliadoer, decifrai.

« Scrivi le tue lettere, Carol. » Una delle sue dita strisciò sul mio collo, rallentando per esitazione o in una promessa; a me non importava il motivo. « Prega che rispondano. »

Brontolai qualcosa che conteneva un notevole abuso della parola stronzo. La sedia raschiò il marmo quando mi tirai in piedi per andarmene, la testa imperiosamente alta, mentre Rain gironzolava tra le mie gonne inesistenti. « Studierò le mie possibilità da sola. »

Non mi chiamò quando uscii dalla biblioteca col libro pesante stretto al petto cosparso di lividi: stava già coccolando le sue preziose equazioni, tanto che non richiamò neppure Rain. Eravamo nella nebbia, intrecciati a vicenda, e avevamo i pugni chiusi per il dolore, per l’odio e per far violenza, ma perdevamo costantemente l’equilibrio a ogni passo e cambiavamo idea, inconcludenti, tornando a cercare l’altro o l’oblio.

La luna di miele era finita. Buffo, non era mai cominciata.



« Il nome di questo fa ridere » annunciò Rain, che stava pazientemente ricopiando tutti i nomi che gli dicevo dal mio anfratto del lucente pavimento della sala da ballo su cui ero sdraiata. Avevo messo un cuscinetto mezzo rotto sotto i fianchi; uno di loro stava cominciando a farmi male in una maniera terribile, come se si fosse slogato, ed ero riluttante a curarmi e bloccare in quella posizione un muscolo potenzialmente storto. Soltanto l’acqua riusciva a toccarmi le labbra aride senza farmi venire voglia di vomitare; sul latte soffocavo.

« Cosa c’è, tesoro? »

« Quet – zacoat – non riesco a dirlo. Sembra un uccello liscio senza piume e occhi. Ei governa la folgore – Lo segno? »

« No. » La mia bacchetta giaceva in una pozzanghera di sole e si abbeverava alla luce. « Tutti questi maledetti re dei tuoni, e basta! Piccolo mio, leggimi quanti Eidolon dominano il sacro secondo quel libro – il sacro lo chiamano anche goccia di diamante, o perla… »

Lui si schiarì la gola, la stessa pausa gracchiante del padre. « Alexander, Ayerith, Ragyniork, Etain, Unicorn… Hm- »

« Continua a cercare. » Aveva iniziato a venirmi mal di testa. La luce mi feriva gli occhi al punto che se mettevo gli occhiali stavo male, e senza di loro riuscivo a vedere soltanto una faccia indistinta con gli occhi viola e mani che mi facevano male ai capelli a furia di tirarli.

Ero esausta; terrorizzata da quello che avevo intenzione di fare, terrorizzata da quello che avevo fatto. Se avessi camminato con incedere solenne nel mondo tenebroso e nebuloso degli spiriti, distaccandomi con la mente dalle luci dei miei Eidolon, e avessi attraversato il velo d’ombra che copriva il tunnel che portava al nulla, avrei potuto ripiombare nella realtà con la testa risistemata su entrambi i gomiti e la carne e la pelle sparse su ogni centimetro della sala da ballo. Ero un’ingegnere; dovevo quantificare, sezionare quello che facevo in numeri e passi. Addentrati, tendi le mani, congiungile, chiama il loro nome e poi aspetta l’equazione… « Quell’orribile capitolo su Odino e Gilgablabla non aprirlo neanche, mi frigge il cervello. »

« Oh, madre » disse Rain, preoccupato. « Posso portarti un po’ di te? Ti fa molto male? Dovremmo smettere? Ti dà fastidio se ti chiamo “madre?” »

« No, Rain » risposi lentamente. « Non mi dà fastidio. » Dovrebbe, dovrebbe, dovrebbe. Sono troppo coinvolta. « Starò bene. Continua a leggere, pulcino. »

« Evocherai davvero tutti questi Eidolon? »

Chiusi gli occhi. Di nuovo il dolore ai fianchi. Era tutta la mattina che chiamavo i miei Eidolon come un’anima in pena: Fenril, Fenril, per favore, esci fuori. Madein, parlami. Parlatemi! Vi prego! Vi prego! Oh, Dio, mi sento tanto sola, non ce la faccio, vi supplico, oh mamma dio merda cazzo mamma mamma mamma me ne sono andata senza averti visto, dovevo, scusami. Sono una ragazzaccia, una ragazza orribile, lui ha alzato le coperte e mi ha toccato qui e dentro e- « Magari. No, griderò i loro nomi. Un po’ come se stessi in un lungo corridoio pieno di porte e mi mettessi a strillare per convincerli ad aprirle. »

« Non si arrabbiano? »

« Sì. » Un brivido involontario mi corse lungo la schiena. Solo gli sconsiderati, i coraggiosi o gli stupidi avrebbero potuto riuscire nell’impresa. Non potevo avere paura. Di stupidità ne avevo da vendere. « Ma – ma quando riuscirò a farmi aprire le porte degli Eidolon molto, molto vecchi, la mia mente potrà accedere ad un posto speciale. Devo avere fortuna. Devono accordarmi il passaggio. Verrò trascinata in profondità, oltre le porte, oltre i buchi, oltre ogni cosa, e alla fine potrò vedere le parole degli alberi, dei fiori, degli insetti, delle persone, delle cellule, delle cose vive e poi delle cose morte… »

« Come fai a tornare? »

Non lo so.

« Forse un po’ di tè mi farebbe piacere, tesoro » replicai con decisione, cambiando argomento e spostando il cuscino. « Per favore? Mi fa male la testa. »

E saettò via come un’ape desiderosa di compiacermi. Adesso che ero “madre” Rain mi pedinava ansioso come un cucciolo; tutti i bisogni e i desideri che potessi avere dovevano essere soddisfatti prima ancora che io sapessi di averne bisogno o di volerli. Ero indecisa se trovarlo adorabile o mettermi a piangere nel vecchio cuscinetto di damasco sotto di me.

Le prossime settimane sarebbero state un’agonia. Ero come una ballerina nelle ali di una qualche sala, che si apprestava a fare una danza di cui in realtà non conosceva i passi, e tutti gli occhi erano puntati su di lei. Potevo soltanto tendere le orecchie per accostarmi alla musica e sperare che i passi che creavo sul momento le si addicessero abbastanza da non spezzare il ritmo; spezzare il ritmo ed esibirmi in una danza fuori luogo avrebbe significato la morte. Danzare nel modo corretto avrebbe significato l’apocalisse.

Quando avevo combattuto Trivia ero una bambina piccolissima abbastanza presuntuosa da essere una vecchia zitella, e quando avevo affrontato la morte e la fine di ogni cosa avevo incanalato tutti i miei sogni e le mie speranze su Gidan. La mia paura era tale che avrebbe potuto scivolarmi giù per le gambe. Era tutto blu, e il punto d’appoggio dei nostri piedi era effimero come l’aria quando fronteggiammo la Morte urlante e disincarnata, talmente gonfia di una specie di magia che i capelli mi si arricciarono. Ricordo le mani; ricordo Amarant che mi gettava in aria quando il calore mi affondava, ricordo Gidan che sputava sangue.

La mia mente aveva gentilmente avvolto il ricordo in una tovaglia di lino bianco e l’aveva sepolto sotto le ossa del mio cranio per permettermi di svegliarmi al mattino senza gridare fino a diventare roca al pensiero di quell’immagine che mi tormentava.

Vi prego, non lasciatemi sola adesso. Qualcuno mi tenga per mano. Fallire non significa semplicemente la mia morte; fallire significa Vivi sulla cima del monte Gulgu che sparge semi di fuoco con le mani e fa esplodere i cieli, e significa terra che cigola in agonia e ogni voce del mondo che chiede pietà mentre lui offre Gaya su un piatto d’argento all’Ultimo Nulla. Immagina Rain, Sunny e Shiny accalcati sotto un letto mentre ascoltano le grida, mentre sentono gli antoleon friggere nelle loro fosse – ce la farai, ce la farai, che qualcuno ti tenga la mano o no.

Una mano rivestita di guanto toccò la mia; quando sbarrai gli occhi, risvegliandomi con un sobbalzo dalla mia fantasticheria, Vivi era inginocchiato vicino a me con una tazza colma di un liquido fragrante che odorava di pesca.

« Ti ho portato il tè, linden-bloom. »

Mi misi a sedere e i fili inutili del mio vestito squarciato si aprirono sui fianchi piatti e maschili e scoprirono le spalle morse mentre i capelli viola troppo lunghi si ingarbugliavano ai bottoni sulla schiena. Non mi presi la briga di rendermi presentabile. Lui chinò la testa in modo quasi implorante fino a sfiorarmi le braccia con quella lunga zazzera bianca; presi la tazza con entrambe le mani e la bevvi in lunghe sorsate avide, tanto che alla fine qualche rivolo caldo mi scivolò sulle guance, sulla mascella e sulla gola. Con la bocca sporca d’erba, la riposi a terra, poi poggiai la guancia sulle sue cosce magre seccate dal cuoio e così rimasi, fino a quando la luce che filtrava dalle finestre rotte della Reggia del Deserto non si eclissò.

Che qualcuno ti tenga la mano o no.
   
 
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