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Autore: Alydia Rackham    04/10/2010    1 recensioni
Questa storia non appartiene a me ma a Alydia Rackham. L'intera storia di quello che successe a Peter e Sylar durante la loro prigionia dietro Il Muro-la loro lotta per mantenere la loro umanità e sanità mentale mentre realizzano che l'unica via d'uscita è attraverso la penitenza e il perdono.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Peter Petrelli, Sylar
Note: Traduzione | Avvertimenti: Spoiler!
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                                                                                                                                         Parte sei

Sylar gettò il libro a terra e si coprì gli occhi con la mano. Voleva ridere al suo sconcerto, ma la risata gli si bloccò in gola. Scosse la testa, muovendo la mano per premersela sulla bocca mentre si appoggiava allo schienale della sedia e fissava con sguardo assente fuori dalla finestra.

In parte, si meravigliava del cambiamento. Una volta, avrebbe trovato quei libri intriganti e anche divertenti―avrebbe ghignato ai personaggi principali mentre si scontravano con ostacoli e i loro sogni venivano infranti. “È così che va. Fattene una ragione.” Avrebbe detto. Ora…

Ora era perseguitato da quel lieto fine che non arrivava mai.

Com’era possibile che avesse scelto libri con finali che sempre gli si impiantavano nello stomaco come pugnali per poi rigirarsi nelle sue viscere, lasciando la sua mente vacillante, incapace di fronteggiare lo schiaffo in faccia donatogli da ogni singolo autore?

Moby Dick lo rendeva furioso. Non lo aveva mai letto―doveva far parte dei ricordi di Peter. All’inizio, Sylar aveva compreso appieno il Capitano Akab, e la sua ossessione. Ma mentre lo guardava piombare nella follia, Sylar cominciò a distanziarsi da lui, guardando con un intorpidito, crescente orrore come Akab distruggeva sé stesso, il suo equipaggio e la sua stessa nave per una…balena. “Che insensato,” realizzò. “Che cosa inutile!” E in un profondo, immobile livello, la cosa lo spaventò.

A Tale of Two Cities era sempre un ricordo di Peter, e di certo non era migliore. Leggendolo, Sylar si era calato nei panni del brillante, ma malinconico, avvocato alcolizzato Sydney Carton. E lo aveva osservato innamorarsi della bellissima giovane ragazza dai capelli dorati che aveva portato luce e speranza nella sua oscurità. E poi la speranza che Sylar non si era accorto di provare per Carton si era disintegrata quando la ragazza dai capelli dorati aveva sposato un altro, e Carton era stato mandato alla ghigliottina. Sylar era stato bravo a nascondere il suo sgomento a Peter. Ma mentre l’impiccagione ne I Pilastri della Terra non lo disturbava, il solitario patibolo di Sydney Carton aveva perseguitato i tramonti di Sylar.

L’Odissea, ovviamente, era diversa. Ulisse era tornato a casa, e scacciato tutti gli avidi spasimanti che si erano avventati come lupi sulla sua amata. Ma Sylar si sentiva come uno spettatore in quella storia―quel finale gli ricordava più Peter di chiunque altro. E che ne era dei compagni Greci di Ulisse? Che ne era di Achille, o Patrocle o Aiace, o di tutti i compagni di Ulisse? Nessuno di loro ce l’aveva fatta. Ulisse li aveva persi tutti.

Ma il libro che aveva scaraventato al suolo aveva un titolo bellissimo. Era stato scritto da un uomo che si chiamava Longfellow, e credeva di averlo letto al liceo. Si intitolava Evangeline. E varie volte mentre lo leggeva a Peter, Sylar aveva sentito l’impulso di gridare contro i personaggi per l’incredulità.

Evangeline e il suo vero amore, fidanzati in gioventù, erano stati separati da una calamità. Ed anche se avevano provato per il resto della loro vita a ritrovarsi, non ci riuscirono mai―non fino alla fine. La cosa più fastidiosa per Sylar era che alcune volte si erano avvicinati così tanto―si erano addirittura passati a fianco sulle rive di un fiume una notte. Ma nessuno dei due aveva avvertito la vicinanza dell’amato finché non era stato troppo tardi. Non riuscirono mai ad allineare le loro vite, i loro pensieri, per arrivare allo stesso posto alla stessa ora. Ed erano le poche righe di quel libro che si erano impiantate nel cuore di Sylar e gli bruciavano sulle labbra, facendogli venire voglia di prendere lui stesso a pugni quel Muro.

Immobile, incosciente, morente, stava steso, e il suo

Spirito esausto

Sembrava sprofondare attraverso le infinite

Profondità nell’oscurità,

L’oscurità del sonno e della morte, per sempre

Sprofondando e sprofondando.

Poi attraverso queste sfumature, in multipli

Riverberi,

Sentì quel grido di dolore, e attraverso la

Calma che seguì

Una voce gentile sussurrò, in un tenero accento

Una voce d’angelo,

“Gabriel! O mio amato!” e scomparve nel silenzio…

Invano lui cercò di risorgere; e Evangeline,

Inginocchiandosi al suo fianco,

Baciò le sue labbra morenti, e gli mise la testa in grembo.

Dolce era la luce negli occhi di lui; ma improvvisamente

Sprofondò nell’oscurità,

Come quando una lampada viene spenta da un soffio di

Vento su un balcone…

Sylar imprecò, si alzò, lasciò il libro per terra, e abbandonò la stanza piena di orologi.

                                                                                                                                        VVV

Sylar chinò la testa e si guardò i piedi mentre lasciava l’edificio, dirigendosi verso il sempre presente thud, thud, thud. Girò l’angolo e guardò la schiena di Peter. Stava martellando costantemente come aveva sempre fatto nell’ultimo mese da quando i suoi occhi e la mano gli erano guariti. Sylar si avvicinò e si fermò dietro di lui, e si piegò in avanti leggermente.

“Hey,” chiamò “dovresti mangiare.”

Peter colpì il muro a piena potenza.

“Non mi serve mangiare. Non mi serve dormire. Non mi serve niente.” Si fermò, e alzò la mano sinistra per toccare i mattoni con il pollice.

“Qualche progresso?” Chiese Sylar. Peter sospirò.

“No.” Si appoggiò al Muro. “È come ieri. E l’altro ieri…”

Sylar si avvicinò e premette entrambe la mani contro il Muro.

“E…l’altro l’altro ieri.”

Peter indietreggiò un po’ mentre Sylar si voltava e si appoggiava contro il muro.

“Sono passate…” Peter guardò il suo orologio. “Non so neanche quanto tempo è passato.”

Sylar sollevò un sopracciglio e fece una smorfia, e prese fiato. Peter sollevò una mano.

“Non dirmi quanto tempo è passato.”

Sylar lo guardò attentamente mentre Peter metteva giù il martello e si dirigeva verso le sue bottigliette d’acqua.

“Non so per quanto tu possa continuare così, Peter.”

“Per tutto il tempo necessario.” Disse Peter, l’espressione calma e determinata. Un ricordo lampeggiò davanti agli occhi di Sylar. Abbassò lo sguardo e i suoi occhi persero attenzione.

“Conosco quello sguardo.” Le sopracciglia corrugate mentre cercava di ricordare. “Ce l’hai sempre.”

“Che sguardo?” Domandò Peter, colpendo col martello. Sylar pensò più intensamente.

“Quello di quando Howie Caplan ti ha battuto ai cento metri, e tu ed io da quel giorno siamo andati a scuola di corsa per allenarci, no?”

Peter smise immediatamente di bere e marciò verso di lui, mettendolo spalle al Muro. Panico e colpa crebbero nel petto di Sylar quando improvvisamente realizzò quello che aveva detto. Peter lo immobilizzò con uno sguardo saldo quanto l’acciaio.

“Quello è un ricordo di Nathan, non tuo.” Gli occhi di Peter lampeggiarono. “Ti ho detto…di smetterla di farlo. Tu non sei lui. Non sarai mai come lui.”

Sylar rabbrividì.

“Così mi hai detto.” Mormorò. Si scostò da Peter e si allontanò da lui. Ma i suoi passi rallentarono, e si voltò. Peter prese in mano il martello con più ferocia. Le budella di Sylar si contorsero, come succedeva ogni volta che Peter afferrava il martello.

“Senti, Peter,” provò Sylar, la voce debole “so di avertelo già detto prima, ma…”

Peter colpì, e il metallo risuonò forte contro i mattoni. Sylar fece un gesto con la mano.

“Mi dispiace.”

Il martello colpì ancora. Sylar continuò a provare, la gola che gli doleva.

“Mi dispiace di…averlo ucciso, mi dispiace di avertelo portato via, mi―”

“Dispiace!” Si voltò Peter. Sylar piegò leggermente indietro la testa. Peter lo indicò col martello.

“Continui a dirlo! ‘Mi dispiace, mi dispiace.’”

Sylar, ormai col fiato corto, abbassò lo sguardo. La voce di Peter crebbe fino a diventare un urlo.

“Questo non mi ridarà mio fratello! Non cambia niente!

E allora qualcosa dentro Sylar scattò.

“Hai ragione!” Esplose Sylar, gridando contro Peter, pura rabbia che scorreva dentro di lui. “Non cambia niente! Siamo bloccati qui per sempre―io e te!” indietreggiò, gli occhi che cercavano nei dintorni, la disperazione che cresceva. Col cuore che gli rimbombava nelle orecchie, si voltò prese in mano un martello appoggiato contro il gabbiotto di metallo e si voltò di nuovo verso Peter. “Non ce la faccio più.”

Peter si preparò, tenendo il martello con entrambe le mani, e sollevò il mento.

“E che farai?”

“Porrò una fine a tutto ciò.” Ringhiò Sylar. Solo per un istante, i loro sguardi si unirono.

Poi, lui oltrepassò Peter, e portò il martello a scontrarsi contro il muro. Peter indietreggiò, gli occhi spalancati. Sylar continuò a martellare contro il muro diverse volte, sentendosi sollevato nel sentire le vibrazioni percorrergli le ossa. Si fermò, e guardò Peter.

“Non posso riportare indietro Nathan, Peter.” Disse, beandosi dello sguardo stupefatto sul volto di Peter. “Ma di certo so come usare un martello.”

  
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