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Autore: Dean Lucas    05/10/2010    3 recensioni
Ian riabbraccia Isabeau ma scopre il prezzo del perdono di Ponthieu: i ragazzi si vedono costretti a ritornare con Isabeau nel presente in cerca dell'unico manufatto che può convincere Guillaume. Nel passato, una donna mette alla luce una bambina, senza sapere che avrebbe scritto alcune delle pagine più importanti della storia di Francia. Il suo destino si intreccerà con quello di Ian, Daniel, Isabeau e Ty, tra guerre e assedi, sconfitte e vittorie e soprattutto un nuovo amore più forte di ogni cosa. E quando tutto sembrerà ormai perduto, e la vita della misteriosa ragazza e il segreto stesso di Hyperversum saranno in grave pericolo, una donna dovrà prendere la decisione forse più importante nella storia dell'umanità. Chi c'è dietro Hyperversum? I ragazzi forse l'hanno sempre saputo, ma quando arrriverà finalmente il momento di conoscere la risposta, questa li sorprenderà più ancora delle loro incredibili avventure.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gli unici beni, che Daniel custodiva nella logora sacca di cuoio, erano due forme di pane scuro di segale e una manciata di aringhe essiccate, che il vecchio gli aveva appena allungato di nascosto dai resti della carovana di viveri. Oltre al pesante manoscritto miniato con la storia dei Ponthieu.

A ricordargli la sua colpa, nella sua testa riecheggiavano ancora le lancinanti grida di Isabeau e di Ian. Per molte notti, forse per sempre, quelle urla non l’avrebbero più abbandonato e l’avrebbero inseguito in ogni suo incubo, come un retaggio indelebile. L’equa punizione per il dolore che aveva inflitto all’amico, si diceva.

Non riusciva nemmeno a immaginare l’angoscia che stava straziando Ian, dopo che Isabeau gli era stata strappata in quel modo.

Aveva tentato di essergli di conforto, di rassicurarlo, di fargli capire che era lì per aiutarlo in qualunque modo fosse possibile ma lui non aveva risposto. Non aveva detto nulla, proprio nulla. Ian si era chiuso in se stesso in un guscio sordo e impenetrabile, ma Daniel sapeva che il dolore lo seguiva come un’ombra, senza abbandonarlo mai, in qualunque momento del giorno e della notte.

E lo stava lacerando anche adesso, mentre ringraziava ancora una volta il vecchio che aveva avuto pietà della loro condizione.

“Un ultimo favore vi chiedo di concedermi, buon uomo”.

Il vecchio squadrò Ian esitante, consapevole che non avrebbe potuto permettersi di sottrarre ulteriori vettovaglie al convoglio di viveri diretto a Orléans, già miseramente saccheggiato da quei barbari.

“Se il Signore vorrà concederlo, molto volentieri, cavaliere”, replicò con la consueta formula di cortesia.

“Vi chiedo soltanto alcune informazioni, né io né il mio amico sappiamo orientarci bene in queste terre ed è molto tempo che manco da casa”, spiegò Ian, “sapete indicarmi dove posso trovare il Re e la Corte di Francia, in questo momento?”

“Santo cielo! Da che mondo venite, ragazzo? I francesi oggi non hanno un re e ciò che resta della Corte è al castello di Chinon!”.

Ian esibì una espressione sbalordita.

“Dal momento in cui Parigi è caduta sotto il comando del re anglosassone, Enrico VI di Windsor”, chiarì l’anziano uomo, “e’ lì che dimora l’erede al trono di Francia, Carlo VII”

“Carlo VII!” esclamò Ian all’improvviso, voltandosi nella direzione di Daniel, che invece appariva ancora più smarrito.

“Già, vorrei tanto dire Re Carlo VII, ragazzo, ma la cattedrale di Reims è ancora in mano ai barbari che hanno invaso le nostre terre e il rito dell’incoronazione non può aver luogo finché non verrà liberata”.

Merda! Mentre iniziava faticosamente a rendersi conto, Ian era incredulo e sgomento. Siamo nel bel mezzo della guerra dei Cent’anni! Come diavolo siamo finiti qui?

Le poche informazioni gli erano state sufficienti per elaborare lo scenario in cui si trovavano. Carlo VII non aveva ancora cacciato gli inglesi e i loro alleati Borgognoni dal nord della Francia e questo era l’assedio di Orléans!

“Devo raggiungere il resto della Corte a Chinon!” annunciò Ian con un senso di urgenza nella voce, “qual è la strada più breve, buon uomo?”

“Siete sicuro, ragazzo? Se avete intenzione di chiedere alla nobiltà di pagare un riscatto per la vostra povera moglie, sappiate che non vi ascolteranno”, tentò di scoraggialo l’uomo, “e quand’anche aveste il denaro, quel bastardo di Glasdale non lascerà andare le sue prigioniere, per timore che possano denunciarlo alla Chiesa”, concluse amaramente, “mi dispiace.”

“Non è questo il motivo, vi prego, ditemi come posso raggiungere il castello di Chinon il prima possibile!”

Il vecchio lo fissò con rassegnazione, scuotendo debolmente il capo.

“La via più breve da qui è procedere a Sud per Chécy, aggirando la città di Orléans. A cavallo, è un viaggio di mezza giornata, se non ne possedete uno, temo che sarà molto più faticoso. Da Chécy, proseguite costeggiando il fianco sud-occidentale della Loira finché non incontrerete, dopo una giornata di marcia forzata, Beaugency. Riposatevi la notte e avrete i giorni successivi per raggiungere Saint Laurent Nouan e Blois. Da qui, sempre costeggiando il versante occidentale della Loira, avanzate fino a Tours. A sud, a meno di una giornata di viaggio a cavallo, troverete finalmente il castello di Chinon.”

Dopo che Ian e Daniel ringraziarono più volte l’anziano, s’incamminarono per la via che conduceva a sud.

Non appena furono abbastanza lontani dal convoglio dei viveri distrutto dagli inglesi, Ian informò l’amico:

“Siamo nel 1429”, gli annunciò, ancora incredulo delle sue stesse parole, “uno dei momenti più importanti e sanguinosi della storia di Francia…”

Daniel gli ricambiò uno sguardo colmo di terrore: “1429? Come diavolo può essere possibile? Cristo, ma non può essere! Non può essere vero!”, Daniel non riusciva ad ammetterlo. “Nei sei sicuro?”

Ian annui greve. “Ne sono certo ormai. Abbiamo appena assistito alla celebre battaglia delle aringhe, i rifornimenti che la città assediata di Orléans attendeva per sfamare i suoi cittadini nell’imminente periodo quaresimale”.

“E quel tipo che ha rapito Isabeau, allora era…”

“Lord William Glasdale, il comandante più spietato e malvagio che gli inglesi abbiano mai avuto durante la guerra dei cent’anni.” Il volto di Ian si adombrò per qualche istante mentre serrava rabbiosamente i pugni. “Quel bastardo...” ma poi non finì la frase.

Daniel piombò anche lui in un silenzio affranto. E’ soltanto colpa mia se ci troviamo in questa situazione, dannato Hyperversum e dannatissimo Mod! Dio mio, cosa ho fatto?

Era appena iniziato l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai prossimi ad occupare completamente la città di Orléans, cinta d'assedio sin dall'ottobre del 1428. La città, sul lato settentrionale della Loira, per la posizione geografica ed il ruolo economico, aveva un valore strategico nel decidere le sorti della contesa tra Francia e Inghilterra. In quegli anni, infatti, la Francia era spezzata in due: il nord con Parigi era occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, il territorio a sud era invece sotto il controllo di re Carlo VI e dei suoi sostenitori, gli Armagnacchi.

Dopo che erano morti entrambi i legittimi contendenti alla corona, Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, gli inglesi avevano approfittato della guerra civile fra i Borgognoni ed Armagnacchi per proclamare Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia.

Il figlio di Carlo VI, il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ma non poteva farsi incoronare re secondo il rito ufficiale, poiché per tradizione il rito si doveva tenere nella Cattedrale di Reims, allora sotto il dominio inglese.

 

***

    

La pioggia sembrava non volere offrire ancora una tregua, mentre il freddo e la fame continuavano a sferzarli senza pietà.

 “Ian…”, Daniel si avvicinò e, per la prima volta da quando avevano lasciato Rouvray, lo fissò faticosamente negli occhi: non poteva posare lo sguardo su di lui senza sentirsi orribilmente colpevole per quanto era successo.

La pioggia spargeva i capelli dell’amico come tanti serpenti incollati sulla pelle, e quando lui scostò con una mano alcune ciocche corvine che pendevano dagli occhi, Daniel si accorse che non era soltanto pioggia che scendeva dagli occhi.

“Cristo!”, imprecò, “E’ tutta colpa mia! Dimmi qualcosa, colpiscimi, prendimi a pugni, non è giusto tenerti tutto dentro!”

“Non è colpa tua, lasciami stare da solo adesso, ti prego”, lo allontanò lui con un gesto spazientito del braccio.

“E invece sì che è colpa mia! Ho insistito io per portare con noi Isabeau nel presente ed è dannatamente a causa mia se è stata rapita!”, urlò ancora Daniel fuori di sé.

Ian lo guardò con occhi vacui. “Risparmia le energie, se ne hai ancora. Prima di arrivare a Chinon ne avremo bisogno”.

Si era arreso. L’espressione indolente dell’amico lo colpì più della pioggia e della fame e seppe che non c’era una sola cosa al mondo che potesse dire o fare per farlo stare meglio.

Proseguirono il viaggio in silenzio, rotto solo dalla voce di Daniel quando, a intervalli regolari, cercava di richiamare il menù di gioco di Hyperversum.

Il gioco continuò ostinatamente a ignorare ogni comando e ogni imprecazione del ragazzo.

 

***

 

Anche se la luce del giorno non era mai apparsa, ad un certo punto fu chiaro che il sole stava tramontando. Era dalla mattina che camminavano, senza aver mandato giù nient’altro che l’acqua piovana, raccolta a coppa nelle mani per saziare la sete.

“Presto sarà buio, dobbiamo trovare un rifugio all’asciutto per dormire e mangiare qualcosa”, bofonchiò infine Ian emergendo dalla sua apatia.

“Dove? Io non vedo altro che una strada deserta!”

“Troveremo qualcosa”, mormorò svogliatamente, stringendosi nelle spalle.

“Per oggi, forse, e domani?”, si disperò all’improvviso Daniel, “Non ce la possiamo fare! Lui, quel maledetto gioco, non ce lo permetterà, capisci? Come possiamo salvare Isabeau dalle prigioni di una fortezza inespugnabile? Affronteremo da soli un’intera guarnigione inglese?”

“Sono sicuro che quando arriveremo a Chinon riceveremo aiuto. Chiederemo del conte di Ponthieu, ammesso che ne esista ancora uno e ci faremo arruolare nel suo esercito…”, proseguì Ian, pensoso. Dopo qualche istante, indicò con un’occhiata il borsone sulle spalle di Daniel: “Forse il manoscritto miniato potrà tornarci utile anche in questa epoca.”

“Impiegheremo comunque un mucchio di tempo! Chi ci assicura che arriveremo prima che quel maledetto non abbia già…”

“Basta, Daniel…”, Ian scandì le parole con un ringhio di ammonimento.

“Ci ha tolto tutto, ancora una volta, lo capisci? E stavolta è solo colpa mia!”, proseguì invece Daniel, “Cristo, perdonami! Ma cosa dico, maledizione! Anche se tu riuscissi a perdonarmi, sono io che non potrò mai perdonare me stesso! Non riesco a sopportare di averti fatto questo…”

“Tu non mi hai fatto niente, smettila! E’ colpa mia se non sono riuscito a proteggere Isabeau…”

Daniel gli si avventò contro, colpendolo debolmente col pugno chiuso tra il petto alla spalla, “Smettila tu, ti addossarti tutte le colpe di questo mondo! Anche quelle degli altri... Smettila, smettila!”, singhiozzò sommessamente il ragazzo.

Ian covava dentro di sé una disperazione infinita. Pure, vedere Daniel avvilirsi così crudelmente, lo impietosì e gli fece trovare lentamente il desiderio di fargli coraggio e di aiutarlo.

 E in questo modo aiutò anche se stesso, traendo dalle sue stesse parole la speranza che prima non possedeva.

Sentì dentro di sé che l’unica cosa che gli avrebbe permesso di sopravvivere, sarebbe stato studiare un modo per salvare Isabeau. Riflettere su come salvarla, l’avrebbe distratto da pensare al presente.

Ma prima dovevano trovare un posto per dormire e un fuoco per asciugarsi.

Mentre Daniel cercava ancora di colpirlo, gli afferrò il pugno diretto contro di lui e con l’altro braccio lo strinse a sé, in un abbraccio virile tra uomini che condividono lo stesso insopportabile dolore.

Quell’abbraccio affrancò Daniel da molte angosce e si sentì finalmente libero di sfogare tutto ciò che covava dolorosamente dentro, singhiozzando e maledicendo se stesso, Hyperversum e il mondo.

Quando l’amico si fu sfogato abbastanza, Ian lo liberò dall’abbraccio e si guardarono negli occhi arrossati. Gli allungò una energica pacca sulla spalla e Daniel finalmente abbozzò un sorriso.

“Basta disperarsi. Andiamo avanti”, lentamente sentiva rifluire la voglia di vivere e di lottare. “Finché sono vivo intendo combattere e sento che non avrò pace finché ritroverò Isabeau o troverò la morte, cercandola”.

Daniel annuì. “Mi fa piacere sentirtelo dire, amico. Se è questo che vuoi, allora temo che non ti libererai di me finché non hai avrai raggiunto uno dei due scopi”.

“Guarda là…” Ian distese la mano per indicare qualcosa che emergeva oltre la macchia verde scura della boscaglia. “Si direbbe un capanno abbandonato”.

“Non sarà l’Hilton Hotel, ma per questa notte me lo farò bastare” gli sorrise Daniel.

Quando giunsero al capanno si accorsero che il tetto era crollato per metà ma rannicchiandosi in un angolo, avrebbero trovato un po’ di riparo dalla pioggia incessante. Avanzava anche un piccolo spazio dove avrebbero potuto accendere un fuoco per riscaldarsi. Inzuppati di pioggia e al freddo, il rischio di morire assiderati balenò nella mente di Ian. E solo per un momento desiderò ancora la dolce pace dell’oblio. 

Misero ad asciugare vicino al fuoco le tuniche fradice, riparandosi solo coi mantelli.

Daniel tirò fuori il cibo dalla sacca, porgendo a Ian una forma di pane scuro e prendendo l’altra per sé.

“No, il pane dobbiamo farcelo bastare per due giorni e domani ci aspetta un altro faticoso viaggio prima di raggiungere un villaggio. Dividiamoci metà forma di pane a testa, mi spiace, Daniel.”

Daniel acconsentì con un cenno del capo. Sentire i morsi della fame in quel momento gli dava uno strano piacere, in quel modo cominciava ad espiare la sua colpa.

“Possiamo mangiare anche qualche aringa essiccata”, concesse infine Ian che scambiò il silenzio dell’amico per malumore. “Quante ne abbiamo?”

“Una dozzina in tutto”.

“Non abbiamo denaro con noi e non sappiamo se riusciremo a mangiare qualcosa nei villaggi, dobbiamo preservare le nostre scorte il più possibile”.

Il pane di segale era duro e lasciava in bocca un sapore di terra e muffa, mentre il pesce essiccato aveva un gusto salmastro e fibroso. Daniel inghiottì comunque, cercando di non pensare alle prelibatezze che gli preparava Jodie. In quel momento, si sarebbe persino sfamato con gli odorosi croccantini di pollo di Skip.


***
 

La giornata seguente fu la copia del primo giorno di viaggio: la stessa strada sterrata, disseminata di pozze d’acqua e di fango, gli stessi alberi che crescevano in disordinata libertà qua e là, per poi serrarsi improvvisamente in macchie di bosco e gli stessi identici filari dei vigneti, tanto abbondanti in quella regione quanto inutili senza i loro frutti.

 E poi c’era la pioggia, onnipresente, ora battente ora singhiozzante, ma costante compagna del loro tetro peregrinare.

Avevano abbondantemente aggirato, come aveva consigliato loro il vecchio, la grande città di Orléans assediata dagli inglesi. S’imbatterono nelle prime case del borgo di Chécy poco prima del tramonto. Entrarono quando le strade erano ormai deserte e senza il denaro per pagarsi un rifugio per la notte in qualche locanda.

 Prima che la poca luce che filtrava dalle nubi si spegnesse del tutto, trovarono un caprile e si acquattarono sulla paglia sudicia per la notte. Consumarono in silenzio la seconda pagnotta, l’ultima che restava e quando si sdraiarono, sprofondarono immediatamente in un sonno senza sogni.

Quando Ian si svegliò, s’intravedeva un pallido sole oltre la staccionata al coperto. Era appena l’alba e il morso della fame adesso era tremendo e sentì il corpo completamente irrigidito dal freddo.

Si alzò a fatica dal giaciglio di pagliericcio e subito fu investito da un senso di vertigine, a causa della debolezza.

 Scosse Daniel che ancora dormiva, rannicchiato in una posizione fetale. Lamentandosi, l’amico socchiuse lentamente gli occhi e gli ricambiò uno sguardo spento e malaticcio. Gli occhi erano arrossati e velati di lucido. Probabilmente anche lui appariva ugualmente malandato alla vista di Daniel e si rese conto che non avrebbero potuto andare avanti per molto, in quelle condizioni.

“Alzati Daniel, dobbiamo andare via da qui, prima che il padrone di questo posto ci trovi qui e ci creda dei ladri.”

“Dannazione, sono così infreddolito che sento che non proverò mai più caldo in vita mia!”

“Speriamo che almeno oggi non piova”, mormorò Ian mentre scrutava all’orizzonte grandi ammassi cupi e gravidi di pioggia.

 La pioggia lasciò loro un po’ di tregua e ogni tanto il sole fresco di febbraio fece capolino tra le nuvole col suo tiepido abbraccio. Usciti dal borgo di Chécy fu facile seguire il versante occidentale della Loira. Per arrivare al castello di Chinon non dovevano fare altro che seguire il corso serpeggiante del fiume e dei canali, lungo la strada disseminata di castelli. Gli stessi, che molti secoli più avanti, avrebbero rappresentato la maggiore attrazione turistica della regione.

***


“Non ce la faccio più, riposiamoci un po’”.

Ian si guardò attorno e indicò a Daniel un vecchio salice a poca distanza da loro. “Arriviamo fin là, i suoi fitti rami ci daranno qualche protezione da questa pioggia sottile”.

Ian capì che da quando avevano lasciato Chécy alle spalle, il loro passo si era fatto molto più lento rispetto a quello che avevano mantenuto il primo giorno. La stanchezza e la debolezza li zavorrava inesorabilmente e Beaugency, che a questo punto secondo i suoi piani doveva già essere in vista, appariva invece irraggiungibile.   

“Tra poco sarà buio...” constatò Daniel.

“Non raggiungeremo Beaugency prima che chiudano le porte e non vedo nessun rifugio dove ripararci questa notte. »

« Restiamo qui, allora… ci risparmieremo almeno la pioggia. »

« D’accordo, ma ci restano solo poche aringhe essiccate, se non troviamo qualcosa da mangiare, non sopravvivremo ancora per molto.”

Daniel soppesò il pacchetto con il poco cibo rimasto, scartò un paio di aringhe a testa e richiuse l’involucro.

Cercò di far durare il più possibile in bocca il sottile e filamentoso pesce essiccato, masticando lentamente, per accorgersi solo che quel cibo non era sufficiente per saziarlo.

Non ebbe comunque il coraggio di lamentarsi e con la coda dell’occhio, osservò Ian silenzioso e impassibile, chiuso nella sua sofferenza. Se il suo problema era la stanchezza e la fame, non osò immaginare cosa stesse patendo in quel momento Isabeau, nelle mani del suo spietato carceriere. In quel momento Ian stava sicuramente pensando a lei.

 

***


Un lungo ponte di quattrocento metri, sorretto da una moltitudine di archi di pietra, congiungeva la città di Orléans alla riva meridionale della Loira.

Mentre scendeva dal carro, dov’era stata stipata insieme ad un’altra dozzina di donne, Isabeau era riuscita a scorgere la splendida città sulla riva opposta: un’alta e spessa cinta muraria rettangolare racchiudeva il grande borgo abitato, mentre maestosi torrioni che terminavano con altissimi coni dotati di feritoie e pertugi per gli arcieri, sovrastavano i quattro angoli all’estremità delle fortificazioni. Molteplici pinnacoli si ergevano dai contrafforti lungo tutta la muratura. Nell’insieme la città dava l’impressione di essere meravigliosa e inespugnabile.

Una guardia dal colorito rubizzo e con un osceno sorriso sul muso si avvicinò al retro del carro, spalancando brutalmente l’apertura posteriore e urlando selvaggiamente di scendere.

Isabeau vide le donne esitare e ammassarsi dalla parte opposta del carro, urlando e piangendo, finché l’inglese non abbaiò ancora più furiosamente il suo ordine. Nessuna ancora obbediva. La guardia andò in bestia e fece volteggiare a vuoto nell’aria l’orribile mazzafrusto che portava con sé.

Descendre de là, salopes! Mi avete capito adesso? » ringhiò l’energumeno.

Poi abbatté il mazzafrusto sull’apertura del carro, facendo schizzare schegge taglienti di legno in ogni direzione. Alle lacrime di molte si mischiò il sangue provocato dalle lacerazioni, un panico isterico si impadronì all’improvviso di molte di loro che finalmente si gettarono fuori dal carro.

Sempre col mazzafrusto minacciosamente in mano, l’uomo ordinò le donne in una fila, sorvegliandole e abbaiando come un cane da guardia. Quando anche Isabeau smontò dal carro, con un salto, si avvide che era sopraggiunto un secondo uomo, magro e rinsecchito dentro l’armatura leggera di cuoio, che conduceva a piedi un mulo col dorso sormontato da un ingombrante e tintinnante fardello.

L’uomo fece cadere a terra il carico e srotolò a terra l’involucro: Isabeau rabbrividì mentre intravide le orribili catene arrugginite.

Disposta in fila insieme alle altre donne, si diceva si stare calma, di non piangere, perché Ian e Daniel avrebbero presto usato il misterioso mezzo che usavano per viaggiare tra i loro mondi, per salvarla. Doveva solo resistere fino a quel momento, no? Pure con questa consapevolezza, riusciva a stento a padroneggiare il terrore e l’apprensione per la sorte che sarebbe comunque toccata alle altre prigioniere. Daniel avrebbe potuto salvare anche loro? SI sentiva così terribilmente rattristata a pensare che non poteva portarle in salvo con sé.

Persa nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno che l’uomo più esile adesso era proprio accovacciato per terra davanti a lei e la fissava con uno sguardo strano e lascivo. Quando si accorse che lei si era girata a guardarlo, l’uomo sghignazzò, mostrandole un sorriso colmo di denti storpi. Poi armeggiò con quell’oggetto metallico, avvicinandolo ai suoi piedi.

Isabeau sentì le luride dita dell’uomo che risalivano dalle sue caviglie fino ai polpacci, dove indugiarono a lungo finché lei tremò visibilmente per il ribrezzo e la paura. L’uomo se ne accorse e ancora una volta alzò lo sguardo con lo stesso ghigno dipinto sul grugno.

 Poi, Isabeau sentì il freddo e inflessibile acciaio che si chiudeva con uno scatto metallico in una morsa sulla caviglia e vide la guardia che si spostava verso la donna che le stava di fianco, proseguendo a incatenare la fila di donne, l’una all’altra.

 

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