Gli unici beni,
che
Daniel custodiva nella logora sacca di cuoio, erano due forme di pane
scuro di
segale e una manciata di aringhe essiccate, che il vecchio gli aveva
appena
allungato di nascosto dai resti della carovana di viveri. Oltre al
pesante
manoscritto miniato con la storia dei Ponthieu.
A ricordargli la
sua
colpa, nella sua testa riecheggiavano ancora le lancinanti grida di
Isabeau e
di Ian. Per molte notti, forse per sempre, quelle urla non
l’avrebbero più
abbandonato e l’avrebbero inseguito in ogni suo incubo, come
un retaggio
indelebile. L’equa punizione per il dolore che aveva inflitto
all’amico, si diceva.
Non riusciva
nemmeno a
immaginare l’angoscia che stava straziando Ian, dopo che
Isabeau gli era stata
strappata in quel modo.
Aveva tentato di
essergli di conforto, di rassicurarlo, di fargli capire che era
lì per aiutarlo
in qualunque modo fosse possibile ma lui non aveva risposto. Non aveva
detto
nulla, proprio nulla. Ian si era chiuso in se stesso in un guscio sordo
e
impenetrabile, ma Daniel sapeva che il dolore lo seguiva come
un’ombra, senza
abbandonarlo mai, in qualunque momento del giorno e della notte.
E lo stava
lacerando
anche adesso, mentre ringraziava ancora una volta il vecchio che aveva
avuto
pietà della loro condizione.
“Un
ultimo favore vi
chiedo di concedermi, buon uomo”.
Il vecchio
squadrò Ian esitante,
consapevole che non avrebbe potuto permettersi di sottrarre ulteriori
vettovaglie al convoglio di viveri diretto a Orléans,
già miseramente
saccheggiato da quei barbari.
“Se il
Signore vorrà
concederlo, molto volentieri, cavaliere”, replicò
con la consueta formula di
cortesia.
“Vi
chiedo soltanto
alcune informazioni, né io né il mio amico
sappiamo orientarci bene in queste
terre ed è molto tempo che manco da casa”,
spiegò Ian, “sapete indicarmi dove
posso trovare il Re e la Corte di Francia, in questo momento?”
“Santo
cielo! Da che
mondo venite, ragazzo? I francesi oggi non hanno un re e ciò
che resta della Corte
è al castello di Chinon!”.
Ian
esibì una
espressione sbalordita.
“Dal
momento in cui
Parigi è caduta sotto il comando del re anglosassone, Enrico
VI di Windsor”,
chiarì l’anziano uomo, “e’
lì che dimora l’erede al trono di Francia, Carlo
VII”
“Carlo
VII!” esclamò Ian
all’improvviso, voltandosi nella direzione di Daniel, che
invece appariva
ancora più smarrito.
“Già,
vorrei tanto dire
Re Carlo VII, ragazzo, ma la
cattedrale di Reims è ancora in mano ai barbari che hanno
invaso le nostre
terre e il rito dell’incoronazione non può aver
luogo finché non verrà liberata”.
Merda!
Mentre iniziava
faticosamente a rendersi conto, Ian
era incredulo e sgomento.
Siamo nel bel mezzo della guerra dei Cent’anni! Come diavolo siamo finiti qui?
Le poche
informazioni gli
erano state sufficienti per elaborare lo scenario in cui si trovavano. Carlo VII non aveva ancora cacciato gli
inglesi e i loro alleati Borgognoni dal nord della Francia e questo era
l’assedio di Orléans!
“Devo
raggiungere il
resto della Corte a Chinon!” annunciò Ian con un
senso di urgenza nella voce, “qual
è la strada più breve, buon uomo?”
“Siete
sicuro, ragazzo?
Se avete intenzione di chiedere alla nobiltà di pagare un
riscatto per la
vostra povera moglie, sappiate che non vi ascolteranno”,
tentò di scoraggialo
l’uomo, “e quand’anche aveste il denaro,
quel bastardo di Glasdale non lascerà
andare le sue prigioniere, per timore che possano denunciarlo alla
Chiesa”, concluse
amaramente, “mi dispiace.”
“Non
è questo il
motivo, vi prego, ditemi come posso raggiungere il castello di Chinon
il prima
possibile!”
Il vecchio lo
fissò con
rassegnazione, scuotendo debolmente il capo.
“La
via più breve da qui è procedere
a Sud per Chécy, aggirando la città di
Orléans. A cavallo, è un viaggio di mezza
giornata, se non ne possedete uno, temo che sarà molto
più faticoso. Da Chécy, proseguite
costeggiando il fianco sud-occidentale della Loira finché
non incontrerete,
dopo una giornata di marcia forzata, Beaugency. Riposatevi la notte e
avrete i
giorni successivi per raggiungere Saint Laurent Nouan e Blois. Da qui,
sempre
costeggiando il versante occidentale della Loira, avanzate fino a
Tours. A sud,
a meno di una giornata di viaggio a cavallo, troverete finalmente il
castello
di Chinon.”
Dopo che Ian e
Daniel
ringraziarono più volte l’anziano,
s’incamminarono per la via che conduceva a
sud.
Non appena
furono
abbastanza lontani dal convoglio dei viveri distrutto dagli inglesi,
Ian
informò l’amico:
“Siamo
nel 1429”, gli
annunciò, ancora incredulo delle sue stesse parole,
“uno dei momenti più
importanti e sanguinosi della storia di Francia…”
Daniel gli
ricambiò uno
sguardo colmo di terrore: “1429? Come diavolo può
essere possibile? Cristo, ma
non può essere! Non può essere vero!”,
Daniel non riusciva ad ammetterlo. “Nei
sei sicuro?”
Ian annui greve.
“Ne
sono certo ormai. Abbiamo appena assistito alla celebre battaglia delle
aringhe, i rifornimenti che la città assediata di
Orléans attendeva per sfamare
i suoi cittadini nell’imminente periodo
quaresimale”.
“E
quel tipo che ha
rapito Isabeau, allora era…”
“Lord
William Glasdale,
il comandante più spietato e malvagio che gli inglesi
abbiano mai avuto durante
la guerra dei cent’anni.” Il volto di Ian si
adombrò per qualche istante mentre
serrava rabbiosamente i pugni. “Quel bastardo...”
ma poi non finì la frase.
Daniel
piombò anche lui
in un silenzio affranto. E’
soltanto
colpa mia se ci troviamo in questa situazione, dannato Hyperversum e
dannatissimo
Mod! Dio mio, cosa ho fatto?
Era appena
iniziato
l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai
prossimi ad occupare
completamente la città di Orléans, cinta
d'assedio sin dall'ottobre del 1428. La
città, sul lato settentrionale
della Loira, per la
posizione geografica ed il
ruolo economico, aveva un valore strategico nel decidere le sorti della
contesa
tra Francia e Inghilterra. In quegli anni, infatti, la Francia era
spezzata in
due: il nord con Parigi era occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, il
territorio a sud era invece sotto il controllo di re Carlo VI
e dei suoi
sostenitori, gli Armagnacchi.
Dopo che erano
morti
entrambi i legittimi contendenti alla corona, Enrico V di Inghilterra e
Carlo
VI di Francia, gli inglesi avevano approfittato della guerra civile fra
i
Borgognoni ed Armagnacchi per proclamare Enrico VI, allora ancora
bambino, re
di Inghilterra e di Francia.
Il figlio di
Carlo VI,
il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiutò
di abdicare ma non
poteva farsi incoronare re secondo il rito ufficiale, poiché
per tradizione il
rito si doveva tenere nella Cattedrale di Reims, allora sotto il
dominio
inglese.
***
La pioggia
sembrava non
volere offrire ancora una tregua, mentre il freddo e la fame
continuavano a
sferzarli senza pietà.
“Ian…”,
Daniel si avvicinò e, per la prima
volta da quando avevano lasciato Rouvray, lo fissò
faticosamente negli occhi: non
poteva posare lo sguardo su di lui senza sentirsi orribilmente
colpevole per
quanto era successo.
La pioggia
spargeva i capelli
dell’amico come tanti serpenti incollati sulla pelle, e
quando lui scostò con
una mano alcune ciocche corvine che pendevano dagli occhi, Daniel si
accorse
che non era soltanto pioggia che scendeva dagli occhi.
“Cristo!”,
imprecò, “E’
tutta colpa mia! Dimmi qualcosa, colpiscimi, prendimi a pugni, non
è giusto tenerti
tutto dentro!”
“Non
è colpa tua, lasciami
stare da solo adesso, ti prego”, lo allontanò lui
con un gesto spazientito del
braccio.
“E
invece sì che è
colpa mia! Ho insistito io per portare con noi Isabeau nel presente ed
è dannatamente
a causa mia se è stata rapita!”, urlò
ancora Daniel fuori di sé.
Ian lo
guardò con occhi
vacui. “Risparmia le energie, se ne hai ancora. Prima di
arrivare a Chinon ne
avremo bisogno”.
Si
era arreso.
L’espressione indolente dell’amico lo
colpì più della
pioggia e della fame e seppe che non c’era una sola cosa al
mondo che potesse
dire o fare per farlo stare meglio.
Proseguirono il
viaggio
in silenzio, rotto solo dalla voce di Daniel quando, a intervalli
regolari,
cercava di richiamare il menù di gioco di Hyperversum.
Il gioco
continuò
ostinatamente a ignorare ogni comando e ogni imprecazione del ragazzo.
***
Anche se la luce
del
giorno non era mai apparsa, ad un certo punto fu chiaro che il sole
stava
tramontando. Era dalla mattina che camminavano, senza aver mandato
giù
nient’altro che l’acqua piovana, raccolta a coppa
nelle mani per saziare la
sete.
“Presto
sarà buio, dobbiamo
trovare un rifugio all’asciutto per dormire e mangiare
qualcosa”, bofonchiò
infine Ian emergendo dalla sua apatia.
“Dove?
Io non vedo
altro che una strada deserta!”
“Troveremo
qualcosa”,
mormorò svogliatamente, stringendosi nelle spalle.
“Per
oggi, forse, e
domani?”, si disperò all’improvviso
Daniel, “Non ce la possiamo fare! Lui, quel
maledetto gioco, non ce lo permetterà, capisci? Come
possiamo salvare Isabeau
dalle prigioni di una fortezza inespugnabile? Affronteremo da soli
un’intera
guarnigione inglese?”
“Sono
sicuro che quando
arriveremo a Chinon riceveremo aiuto. Chiederemo del conte di Ponthieu,
ammesso
che ne esista ancora uno e ci faremo arruolare nel suo
esercito…”, proseguì
Ian, pensoso. Dopo qualche istante, indicò con
un’occhiata il borsone sulle
spalle di Daniel: “Forse il manoscritto miniato
potrà tornarci utile anche in
questa epoca.”
“Impiegheremo
comunque
un mucchio di tempo! Chi ci assicura che arriveremo prima che quel
maledetto
non abbia già…”
“Basta,
Daniel…”, Ian scandì
le parole con un ringhio di ammonimento.
“Ci ha
tolto tutto,
ancora una volta, lo capisci? E stavolta è solo colpa
mia!”, proseguì invece
Daniel, “Cristo, perdonami! Ma cosa dico, maledizione! Anche
se tu riuscissi a
perdonarmi, sono io che non potrò mai perdonare me stesso!
Non riesco a sopportare
di averti fatto questo…”
“Tu
non mi hai fatto
niente, smettila! E’ colpa mia se non sono riuscito a
proteggere Isabeau…”
Daniel gli si
avventò
contro, colpendolo debolmente col pugno chiuso tra il petto alla
spalla, “Smettila
tu, ti addossarti tutte le colpe di questo mondo! Anche quelle degli
altri...
Smettila, smettila!”, singhiozzò sommessamente il
ragazzo.
Ian covava
dentro di sé
una disperazione infinita. Pure, vedere Daniel avvilirsi
così crudelmente, lo
impietosì e gli fece trovare lentamente il desiderio di
fargli coraggio e di
aiutarlo.
E
in questo modo aiutò anche se stesso,
traendo dalle sue stesse parole la speranza che prima non possedeva.
Sentì
dentro di sé che
l’unica cosa che gli avrebbe permesso di sopravvivere,
sarebbe stato studiare un
modo per salvare Isabeau. Riflettere su come salvarla,
l’avrebbe distratto da
pensare al presente.
Ma prima
dovevano
trovare un posto per dormire e un fuoco per asciugarsi.
Mentre Daniel
cercava
ancora di colpirlo, gli afferrò il pugno diretto contro di
lui e con l’altro braccio
lo strinse a sé, in un abbraccio virile tra uomini che
condividono lo stesso insopportabile
dolore.
Quell’abbraccio
affrancò Daniel da molte angosce e si sentì
finalmente libero di sfogare tutto
ciò che covava dolorosamente dentro, singhiozzando e
maledicendo se stesso, Hyperversum
e il mondo.
Quando
l’amico si fu
sfogato abbastanza, Ian lo liberò dall’abbraccio e
si guardarono negli occhi
arrossati. Gli allungò una energica pacca sulla spalla e
Daniel finalmente abbozzò
un sorriso.
“Basta
disperarsi.
Andiamo avanti”, lentamente sentiva rifluire la voglia di
vivere e di lottare. “Finché
sono vivo intendo combattere e sento che non avrò pace
finché ritroverò Isabeau
o troverò la morte, cercandola”.
Daniel
annuì. “Mi fa
piacere sentirtelo dire, amico. Se è questo che vuoi, allora
temo che non ti
libererai di me finché non hai avrai raggiunto uno dei due
scopi”.
“Guarda
là…” Ian
distese la mano per indicare qualcosa che emergeva oltre la macchia
verde scura
della boscaglia. “Si direbbe un capanno
abbandonato”.
“Non
sarà l’Hilton
Hotel, ma per questa notte me lo farò bastare” gli
sorrise Daniel.
Quando giunsero
al
capanno si accorsero che il tetto era crollato per metà ma
rannicchiandosi in
un angolo, avrebbero trovato un po’ di riparo dalla pioggia
incessante.
Avanzava anche un piccolo spazio dove avrebbero potuto accendere un
fuoco per
riscaldarsi. Inzuppati di pioggia e al freddo, il rischio di morire
assiderati
balenò nella mente di Ian. E solo per un momento
desiderò ancora la dolce pace
dell’oblio.
Misero ad
asciugare
vicino al fuoco le tuniche fradice, riparandosi solo coi mantelli.
Daniel
tirò fuori il
cibo dalla sacca, porgendo a Ian una forma di pane scuro e prendendo
l’altra
per sé.
“No,
il pane dobbiamo
farcelo bastare per due giorni e domani ci aspetta un altro faticoso
viaggio prima
di raggiungere un villaggio. Dividiamoci metà forma di pane
a testa, mi spiace,
Daniel.”
Daniel
acconsentì con
un cenno del capo. Sentire i morsi della fame in quel momento gli dava
uno
strano piacere, in quel modo cominciava ad espiare la sua colpa.
“Possiamo
mangiare anche
qualche aringa essiccata”, concesse infine Ian che
scambiò il silenzio
dell’amico per malumore. “Quante ne
abbiamo?”
“Una
dozzina in tutto”.
“Non
abbiamo denaro con
noi e non sappiamo se riusciremo a mangiare qualcosa nei villaggi,
dobbiamo
preservare le nostre scorte il più possibile”.
Il pane di
segale era
duro e lasciava in bocca un sapore di terra e muffa, mentre il pesce
essiccato
aveva un gusto salmastro e fibroso. Daniel inghiottì
comunque, cercando di non
pensare alle prelibatezze che gli preparava Jodie. In quel momento, si
sarebbe
persino sfamato con gli odorosi croccantini di pollo di Skip.
***
La giornata
seguente fu
la copia del primo giorno di viaggio: la stessa strada sterrata,
disseminata di
pozze d’acqua e di fango, gli stessi alberi che crescevano in
disordinata
libertà qua e là, per poi serrarsi
improvvisamente in macchie di bosco e gli
stessi identici filari dei vigneti, tanto abbondanti in quella regione
quanto
inutili senza i loro frutti.
E
poi c’era la pioggia, onnipresente, ora
battente ora singhiozzante, ma costante compagna del loro tetro
peregrinare.
Avevano
abbondantemente
aggirato, come aveva consigliato loro il vecchio, la grande
città di Orléans
assediata dagli inglesi. S’imbatterono nelle prime case del
borgo di Chécy poco
prima del tramonto. Entrarono quando le strade erano ormai deserte e
senza il
denaro per pagarsi un rifugio per la notte in qualche locanda.
Prima
che la poca luce che filtrava dalle nubi
si spegnesse del tutto, trovarono un caprile e si acquattarono sulla
paglia
sudicia per la notte. Consumarono in silenzio la seconda pagnotta,
l’ultima che
restava e quando si sdraiarono, sprofondarono immediatamente in un
sonno senza
sogni.
Quando Ian si
svegliò,
s’intravedeva un pallido sole oltre la staccionata al
coperto. Era appena
l’alba e il morso della fame adesso era tremendo e
sentì il corpo completamente
irrigidito dal freddo.
Si
alzò a fatica dal
giaciglio di pagliericcio e subito fu investito da un senso di
vertigine, a
causa della debolezza.
Scosse
Daniel che ancora dormiva, rannicchiato
in una posizione fetale. Lamentandosi, l’amico socchiuse
lentamente gli occhi e
gli ricambiò uno sguardo spento e malaticcio. Gli occhi
erano arrossati e
velati di lucido. Probabilmente anche lui appariva ugualmente malandato
alla
vista di Daniel e si rese conto che non avrebbero potuto andare avanti
per
molto, in quelle condizioni.
“Alzati
Daniel,
dobbiamo andare via da qui, prima che il padrone di questo posto ci
trovi qui e
ci creda dei ladri.”
“Dannazione,
sono così
infreddolito che sento che non proverò mai più
caldo in vita mia!”
“Speriamo
che almeno
oggi non piova”, mormorò Ian mentre scrutava
all’orizzonte grandi ammassi cupi
e gravidi di pioggia.
La
pioggia lasciò loro un po’ di tregua e ogni
tanto il sole fresco di febbraio fece capolino tra le nuvole col suo
tiepido
abbraccio. Usciti dal borgo di Chécy fu facile seguire il
versante occidentale
della Loira. Per arrivare al castello di Chinon non dovevano fare altro
che
seguire il corso serpeggiante del fiume e dei canali, lungo la strada
disseminata di castelli. Gli stessi, che molti secoli più
avanti, avrebbero
rappresentato la maggiore attrazione turistica della regione.
***
“Non
ce la faccio più,
riposiamoci un po’”.
Ian si
guardò attorno e
indicò a Daniel un vecchio salice a poca distanza da loro.
“Arriviamo fin là, i
suoi fitti rami ci daranno qualche protezione da questa pioggia
sottile”.
Ian
capì che da quando
avevano lasciato Chécy alle spalle, il loro passo si era
fatto molto più lento
rispetto a quello che avevano mantenuto il primo giorno. La stanchezza
e la
debolezza li zavorrava inesorabilmente e Beaugency, che a questo punto
secondo
i suoi piani doveva già essere in vista, appariva invece
irraggiungibile.
“Tra
poco sarà buio...”
constatò Daniel.
“Non
raggiungeremo
Beaugency prima che chiudano le porte e non vedo nessun rifugio dove
ripararci
questa notte. »
« Restiamo
qui,
allora… ci risparmieremo almeno la
pioggia. »
«
D’accordo, ma ci
restano solo poche aringhe essiccate, se non troviamo qualcosa da
mangiare, non
sopravvivremo ancora per molto.”
Daniel
soppesò il
pacchetto con il poco cibo rimasto, scartò un paio di
aringhe a testa e
richiuse l’involucro.
Cercò
di far durare il
più possibile in bocca il sottile e filamentoso pesce
essiccato, masticando
lentamente, per accorgersi solo che quel cibo non era sufficiente per
saziarlo.
Non ebbe
comunque il
coraggio di lamentarsi e con la coda dell’occhio,
osservò Ian silenzioso e
impassibile, chiuso nella sua sofferenza. Se il suo problema era la
stanchezza
e la fame, non osò immaginare cosa stesse patendo in quel
momento Isabeau,
nelle mani del suo spietato carceriere. In quel momento Ian stava
sicuramente
pensando a lei.
***
Un lungo ponte
di
quattrocento metri, sorretto da una moltitudine di archi di pietra,
congiungeva
la città di Orléans alla riva meridionale della
Loira.
Mentre scendeva
dal
carro, dov’era stata stipata insieme ad un’altra
dozzina di donne, Isabeau era
riuscita a scorgere la splendida città sulla riva opposta:
un’alta e spessa
cinta muraria rettangolare racchiudeva il grande borgo abitato, mentre
maestosi
torrioni che terminavano con altissimi coni dotati di feritoie e
pertugi per
gli arcieri, sovrastavano i quattro angoli
all’estremità delle fortificazioni.
Molteplici pinnacoli si ergevano dai contrafforti lungo tutta la
muratura.
Nell’insieme la città dava l’impressione
di essere meravigliosa e
inespugnabile.
Una guardia dal
colorito rubizzo e con un osceno sorriso sul muso si
avvicinò al retro del
carro, spalancando brutalmente l’apertura posteriore e
urlando selvaggiamente
di scendere.
Isabeau vide le
donne
esitare e ammassarsi dalla parte opposta del carro, urlando e
piangendo, finché
l’inglese non abbaiò ancora più
furiosamente il suo ordine. Nessuna ancora
obbediva. La guardia andò in bestia e fece volteggiare a
vuoto nell’aria l’orribile
mazzafrusto che portava con sé.
“Descendre de là, salopes! Mi
avete capito adesso? » ringhiò
l’energumeno.
Poi
abbatté il
mazzafrusto sull’apertura del carro, facendo schizzare
schegge taglienti di
legno in ogni direzione. Alle lacrime di molte si mischiò il
sangue provocato
dalle lacerazioni, un panico isterico si impadronì
all’improvviso di molte di
loro che finalmente si gettarono fuori dal carro.
Sempre col
mazzafrusto
minacciosamente in mano, l’uomo ordinò le donne in
una fila, sorvegliandole e
abbaiando come un cane da guardia. Quando anche Isabeau
smontò dal carro, con
un salto, si avvide che era sopraggiunto un secondo uomo, magro e
rinsecchito
dentro l’armatura leggera di cuoio, che conduceva a piedi un
mulo col dorso
sormontato da un ingombrante e tintinnante fardello.
L’uomo
fece cadere a
terra il carico e srotolò a terra l’involucro:
Isabeau rabbrividì mentre intravide
le orribili catene arrugginite.
Disposta in fila
insieme
alle altre donne, si diceva si stare calma, di non piangere,
perché Ian e
Daniel avrebbero presto usato il misterioso mezzo che usavano per
viaggiare tra
i loro mondi, per salvarla. Doveva solo resistere fino a quel momento,
no? Pure
con questa consapevolezza, riusciva a stento a padroneggiare il terrore
e l’apprensione
per la sorte che sarebbe comunque toccata alle altre prigioniere.
Daniel
avrebbe potuto salvare anche loro? SI sentiva così
terribilmente rattristata a
pensare che non poteva portarle in salvo con sé.
Persa nei suoi
pensieri, non si accorse nemmeno che l’uomo più
esile adesso era proprio
accovacciato per terra davanti a lei e la fissava con uno sguardo
strano e
lascivo. Quando si accorse che lei si era girata a guardarlo,
l’uomo sghignazzò,
mostrandole un sorriso colmo di denti storpi. Poi armeggiò
con quell’oggetto
metallico, avvicinandolo ai suoi piedi.
Isabeau
sentì le luride
dita dell’uomo che risalivano dalle sue caviglie fino ai
polpacci, dove
indugiarono a lungo finché lei tremò visibilmente
per il ribrezzo e la paura.
L’uomo se ne accorse e ancora una volta alzò lo
sguardo con lo stesso ghigno
dipinto sul grugno.
Poi,
Isabeau sentì il freddo e inflessibile
acciaio che si chiudeva con uno scatto metallico in una morsa sulla
caviglia e vide
la guardia che si spostava verso la donna che le stava di fianco,
proseguendo a
incatenare la fila di donne, l’una all’altra.
***