Daniel si
liberò con
sollievo dei pesanti stracci inzuppati che l’avevano protetto
dalla lingue di
fuoco e dai miasmi del fumo, che impregnavano l’aria
all’interno della fortezza.
Respirò
a pieni polmoni
l’aria fresca della sera, levando i bendaggi bagnati con cui
aveva coperto anche
il cavallo, rassicurandolo con lievi carezze sul collo sudato.
“Su,
calmati bello, sta
buono...”, gli sussurrò dolcemente, nel tentativo
di tranquillizzarlo, “così,
bravo…”.
L’animale
dilatò le
grandi narici, ancora spaventato dall’odore acre del fumo che
proveniva dal
cancello posteriore e con qualche esitazione si convinse a procedere
lungo il
ponte.
Lo spettacolo
che Daniel
scorse un centinaio di metri più avanti, lo
agghiacciò. Disposte in una
disordinata colonna, sporgevano rozze palizzate alle quali erano
incatenate
gruppi di donne. Mucchi di legna erano affastellati ai piedi dei grezzi
fabbricati. Roghi.
Cercò
con lo sguardo
immediatamente Isabeau, ma da quella distanza le prigioniere
avvinghiate ai
tralicci sembravano tutte uguali.
Subito
dopo trasalì per la paura, nel momento in cui si accorse dei
soldati inglesi
con le torce infuocate in mano.
Senza indugio,
mentre
spronava con gli speroni la sua cavalcatura, sfilò
l’arco già incordato da
dietro la spalla e un istante dopo stava già incoccando la
prima freccia.
“Fermo!”
gli abbaiò
contro uomo che stava puntando un grosso coltello sotto il mento di una
donna,
mentre con l’altra mano impugnava una torcia incendiata,
“Fermo dove sei!”
Quando
l’inglese gridò,
Daniel aveva già quasi dimezzato la distanza che lo separava
dai suoi nemici. Istintivamente
tirò indietro le redini, per arrestare la cavalcatura, ben
sapendo in ogni caso
che da quella distanza il suo arco sarebbe stato letale.
Dietro di lui,
udì
sopraggiungere subito dopo i compagni e s’affrettò
ad alzare una mano col palmo
aperto, per intimare loro di arrestarsi dietro di lui.
La donna aveva
il volto
e i vestiti insudiciati, i capelli erano biondi e scompigliati e le
cadevano
appena sulle spalle, troppo corti per essere...
“Ora,
se vi
raccapriccia l’odore della carne umana bruciata, abbassate le
armi, maledetti
mangiarane”, minacciò l’uomo col
coltello.
Daniel, senza
distogliere minimamente la freccia già incoccata dal
bersaglio, osservò meglio
la donna.
“Adesso,
ho detto!
Abbassate quei dannati archi!”
La
consapevolezza lo
colpì come un pugno nello stomaco. Isabeau.
Era viva!
“Devo
dedurre che i
signori desiderano un incentivo per arrendersi?”
domandò beffardo l’inglese con
un sorriso storto sul volto. La mano, che reggeva la torcia, si distese
per
lanciare l’oggetto che impugnava. La torcia infuocata
disegnò un breve arco
nell’aria e atterrò ai piedi di un traliccio poco
più dietro.
“Non
datevi pena per loro, sarebbero comunque
bruciate all’inferno!”. Il combustibile
avvampò subito e le tre donne,
intrappolate contro la palizzata, scalciarono e si dimenarono
inutilmente,
mentre osservavano, inorridite, la legna ai loro piedi cominciare ad
annerire e
a fumare.
“Gettate gli archi o avete la mia parola che
darò fuoco a
tutte le vostre dannate sgualdrine!”, sbraitò
l’uomo.
Daniel fu percorso da un brivido gelido di paura, ma
sapeva
cosa doveva fare. E si preparò a farlo.
***
“Codardo
di un
francese!” strepitava come una furia Lord Glasdale,
“vieni qui a combattere da
uomo, tu e io! Codardo, dove ti nascondi?”
L’inglese
estrasse, con
un secco strappo, la sua spada dalla gola di un cavaliere di
Chatel-Argent,
schizzando di rosso la superficie metallica della sua corazza. Nessun
francese
era ancora riuscito ad avere ragione di lui in battaglia e molti altri
avevano
pagato con la vita l’audacia di averlo sfidato. Combatteva
come una belva
spietata e feroce, consapevole della sua forza e del terrore che
incuteva.
Glasdale
avanzò di
qualche passo, senza che nessun altro osasse affrontarlo. Mise mano
alla sacca,
che portava annodata al cinturone della spada, e tirò fuori
qualcosa che
strappò alla luce deboli riflessi d’oro, mentre
l’agitava in alto con rabbia.
“Codardo!
Io, Lord
William Glasdale, ti sfido! Degnati di comparire davanti a me, se hai
il
coraggio!” ringhiò ancora all’indirizzo
di Ian.
A pochi passi
dal
cancello della bastia in fiamme, la sagoma torreggiante e possente di
quell’uomo si stagliava contro le mura di Les Tourelles. Le
piastre di metallo
lucidato della sua armatura traevano riflessi infuocati
dall’incendio che lo
sovrastava alle spalle. A Ian sembrò una figura mitologica
appena uscita dalle
fiamme dell’inferno.
Non aveva
scordato lo
scontro di tre mesi prima, quando l’inglese aveva solo
scherzato con lui, prima
di strappargli l’arma al primo vero affondo. Ian riconosceva
che era un
avversario formidabile, la cui forza non risiedeva tanto nella ferocia
con cui
combatteva, quanto nel perfetto connubio di una tecnica di spada
eccezionale,
che finora aveva ravvisato solo in Geoffrey Martewall, e di uno
strapotere fisico
pari al suo.
L’uomo
si avvicinava a
grandi passi, scrollando nell’aria qualcosa di setoso e
dorato, che Ian infine
riconobbe.
Le
inconfondibili lunghe ciocche di capelli di Isabeau.
E mentre un urlo
di
dolore disumano prorompeva dalla sua gola, udì quel demonio
che gridava:
“Quando
avrò finito con te”, lo sfidò,
“mi
supplicherai anche tu in ginocchio? Oppure sai fare di meglio, che
morire
piagnucolando come la tua cagna?”
Per Ian fu
troppo.
In quel momento,
seppe
che nella vita di ogni uomo non poteva esistere gioia senza sofferenza,
non vi era
amore senza odio, non c’era luce senza tenebra.
Si
abbandonò
interamente al dolore, alla rabbia, alla vendetta, accecato e travolto,
mentre
ogni fibra del suo essere cominciò ad ardere e ardere
ancora. E arse, finché
non gli sembrò di essere fatto della stessa incandescente
materia di cui era
fatto il fuoco.
L’inglese
gli si parò
davanti e con disprezzo, gli gettò ai piedi le ciocche di
capelli dorati.
“Tu…”,
Ian non
riconobbe la sua stessa voce, tanto quel ringhio era profondo e
terribile, “morirai
oggi.”
“E chi
lo dice, la
strega che vi comanda?”, lo interrogò sogghignando
il comandante inglese.
“No,
l’ho letto sui
libri di storia, bastardo.”