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Autore: Padme Undomiel    06/11/2010    3 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Purity 20

20.


Purezza



Il soffio del vento nelle orecchie era l’unico suono che interrompeva il silenzio, in quell’angolo di giardino non frequentato dai bambini.

E Takeru sedeva immobile, lo sguardo perso nei raggi rosati del sole che, lentamente ma inesorabilmente, tramontava al di là di quegli alti edifici. Li fissava, ma senza vederli.

I suoi pensieri incoerenti catturavano la sua attenzione senza che ci fosse possibilità di scelta. Gli sembrava quasi che il tempo si fosse fermato da quell’istante di qualche minuto prima –o erano ore?-, perché la sua mente non faceva che ripetere ogni singolo momento di quella scoperta sconvolgente. Di quell’ennesima dimostrazione che tutto era fin troppo fragile, instabile.

Persino quel luogo.

L’angoscia, il rancore e un grande senso di abbattimento si agitarono in maniera scomposta nel suo animo, tormentandolo in ogni modo.

Era già tutto sul punto di finire, di crollare?

“Rischiamo di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi.”

Non si era accorto di nulla. Dell’instabilità di quella villa poderosa, della disperazione dei ragazzi che se n’erano presi cura da tanto, della precarietà della condizione dei bambini.

Tutto ciò che aveva visto, che aveva voluto vedere, era solo una menzogna.

E improvvisamente un senso di profonda delusione lo sconvolse, mentre sentiva più concreta che mai la presenza muta di Hikari seduta al suo fianco sull’erba, malinconica e assente.

Lei lo aveva portato fuori da quella stanza in penombra, promettendogli che gli avrebbe svelato ogni cosa. Ma, pur essendo arrivati da qualche tempo, nessuno dei due aveva ancora aperto bocca. Takeru era come pietrificato.

Non riusciva a credere che persino lei gli avesse fatto una cosa del genere. Cosa aveva cercato di fare? Voleva forse donargli un’illusione passeggera, per poi mandarlo via una volta che quell’orfanotrofio fosse caduto in disgrazia?

Le era parso così degno di compassione?

“Da quanto tempo si è creata questa situazione?”

Parlò automaticamente, prima ancora di rendersi conto che il silenzio artefatto di quel pomeriggio era stato spezzato. Hikari sembrò irrigidirsi, distolta dalla contemplazione silenziosa del cielo che li sovrastava.

“Non molto tempo. Direi … qualche mese.” E la sua voce non tremava più come era successo in quella stanza, e i suoi occhi non erano più bagnati di lacrime. Se non l’avesse vista perdere il controllo in quel modo, Takeru avrebbe giurato che la malinconia di Hikari fosse del tutto normale, e non quel tormento contenuto che l’aveva quasi spezzata poco prima.

Ma la risposta bruciò come acido dentro di lui.

Si girò verso di lei, gli occhi stretti a fessura. E quando parlò, non fu sorpreso di sentire una nota di rancore nella sua voce. “Qualche mese … E’ meno recente del mio arrivo qui, allora. Posso sapere perché me lo avete tenuto nascosto per così tanto tempo?”

Si accorse improvvisamente che l’espressione di Hikari era ferita, ma non riuscì a preoccuparsene in quel momento. Era troppo pieno della sua angoscia e tristezza per poter pensare di moderare il tono e i termini. Voleva solo una risposta soddisfacente.

“Lo so che sei arrabbiato, Takeru-kun. Mi dispiace davvero”, replicò dopo un istante di silenzio. E nei suoi occhi c’era la supplica, ora. “Avrei dovuto parlartene a suo tempo, ma non ce l’ho fatta.”

“Certo. E adesso mi ritrovo con l’ennesima certezza che i sogni sono solo castelli di carta, che un vento impetuoso può spazzar via in un attimo.” Era scattato, incapace di controllarsi. Man mano che Hikari parlava, sentiva un senso di amarezza e disillusione crescere dentro di sé: era una delle sensazioni più insopportabili che conosceva. “La cosa peggiore, però, è che in questo grande progetto io ci avevo creduto, per qualche sciocco motivo. Forse perché tu hai fatto di tutto per convincermi che i sogni fossero realizzabili grazie alla semplicità …”

“Io credo davvero a quello che ti ho detto! Ti ho solo mostrato la fiducia incrollabile di mia madre, non ti ho mai nascosto che avessimo delle difficoltà anche noi …”

“E allora perché mi hai tenuto nascosto una cosa del genere? Che motivo c’era di illudermi?”

“Perché ero io a volermi illudere che tutto questo non stesse succedendo!”

Takeru si fermò di botto, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Gli occhi arrossati di Hikari erano fissi nei suoi, e il sentimento di tristezza che vi lesse al loro interno fu così straziante che in un istante ogni rabbia e rancore svanì com’era venuto.

Sembrava che le avesse fatto del male.

E il senso di colpa per come l’aveva trattata, dopo tutto ciò che lei aveva fatto per lui sempre, riuscì a spazzar via quella coltre di nebbia che aveva annebbiato la sua percezione della realtà.

Era stato davvero così egoista da concentrarsi solo su se stesso, senza domandarsi quanto lei stesse soffrendo?

La vergogna per ciò che aveva fatto lo costrinse a distogliere lo sguardo da lei. “Scusami, Hikari-chan.” Sussurrò. “Non ho alcuna idea di come ti senta tu, dopo una notizia del genere. Ti ho attaccata senza cercare di comprendere le tue ragioni.”

Per un istante fu solo il vento a rumoreggiare tra loro, incurante di ogni cosa.

Infine, Hikari parlò, e nella sua voce non c’era nessuna traccia di rabbia. “No, tu hai ragione: è stato sciocco da parte mia voler chiudere gli occhi di fronte alla realtà.”

Takeru la guardò di sottecchi, e la vide di nuovo assente, gli occhi castani fissi di fronte a sé. Sembrava essere totalmente in un’altra dimensione. La visione fu capace di riempirlo di un’angoscia inspiegabile. “E’ umano comportarsi così”, tentò, incerto.

Hikari scosse la testa, rilasciando un lungo sospiro. “Ma non avrei dovuto”, concluse, con tono definitivo. “E’ solo che fa male … più di quanto si possa immaginare. Sto venendo meno a tante promesse che ho fatto …”

L’ultima affermazione lo sorprese. Takeru aggrottò le sopracciglia, confuso. “Promesse?”

La vide annuire, e attese ulteriori spiegazioni in silenzio. “Quando intraprendi un’iniziativa seria a tal punto è difficile che tutto vada per il verso giusto. Ma io avevo giurato che avrei fatto il possibile per crescere quei bambini, e che ci sarei riuscita. Fallendo nel mio proposito deluderei troppe persone alle quali ho fatto questa promessa …”

La voce di lei si spense.  

Ma Takeru non aveva intenzione di darsi per vinto. Era la prima volta che lei si apriva tanto con lui, che fosse lui a consolare qualcun altro, e non il contrario: aveva un desiderio incontrollabile di conoscerla meglio, di aiutarla come poteva.

“Posso chiederti a chi hai fatto questa promessa?”, continuò, mantenendosi però discreto per quanto possibile. Un’illuminazione improvvisa lo fece immobilizzare. “A tua madre, giusto?”

Era più un’affermazione che una domanda, ma Takeru attese ugualmente la risposta.

Come previsto, il viso di Hikari si rattristò ulteriormente. Annuì. “Sì. Non potevo non giurarlo a lei, dal momento che è grazie a lei che esiste tutto questo. Ma l’ho promesso anche a Taichi, a Sora, a Mimi, a Koushiro, a Jyou, che portano avanti con me questo progetto tanto difficoltoso …”

Giusto. Non ci aveva pensato. Sospirò, serio. “Ma anche loro sono sulla stessa barca, e saranno sconfortati come te. Non credo tu debba loro qualcosa.”

Hikari lo fissò all’improvviso, e Takeru sussultò. Quell’aria spenta non aveva mai ingrigito il suo viso, in tutti i giorni in cui aveva parlato con lei: sembrava innaturale, ingiusto. “Ma non l’ho promesso solo a loro”, commentò semplicemente, senza aggiungere altro.

Per quanto si sforzasse, non gli riuscì di comprendere a chi lei si stesse riferendo. Batté le palpebre. “E a chi altro?”

Per un momento lei non fece altro che tacere, i capelli scomposti per via del vento impetuoso, il viso serio e intenso. Poi si alzò, e i suoi occhi scuri erano animati di una strana luce, che lui non comprese.

“A qualcuno che più di tutti meritava una promessa del genere”, disse infine. Poi sospirò. “Potresti aspettarmi un attimo qui? Voglio mostrarti una cosa.”

“Eh?” Takeru era spiazzato. Non riusciva davvero a capirla, né sapeva se fosse saggio lasciarla andare da sola chissà dove. Sembrava molto sconvolta. “Cosa devi mostrarmi?”

La vide alzare le spalle. “Qualcosa che sempre mi ha spinto a impegnarmi con tutta me stessa in quello che faccio, anche se risale a sette anni fa”, disse soltanto.

E a Takeru non rimase che restare seduto lì, confuso e perplesso, mentre Hikari si allontanava rapidamente e temporaneamente da lui.


***


La decisione di camminare un po’ sotto ai ciliegi che ondeggiavano al vento era stata sua. Era saltata su all’improvviso, annunciando che sarebbe stato un peccato rimanere seduti senza osservare da vicino quella meraviglia, e lui l’aveva accontentata, sorpreso ancora una volta dai suoi continui cambiamenti d’umore.

Anche in quel momento Ken non poteva fare a meno di restare leggermente indietro ad osservarla, mentre lei camminava tranquillamente osservando ciò che tanto l’aveva colpita quando era arrivata all’appuntamento.

Forse l’appuntamento non era un granché, forse lui avrebbe dovuto essere una persona più socievole. Ma sembrava che Rumiko amasse quel luogo.

La vedeva voltarsi più volte da una parte e dall’altra, intenzionata a osservare tutto ciò che aveva davanti agli occhi, e il suo passo era tranquillo, appagato. Con una mano sfiorava i rami più vicini, come a voler saggiare la delicatezza dei suoi fiori, e non sembrava lamentarsi nemmeno quando alcuni petali dispettosi si staccavano dagli alberi e, mossi dal vento impetuoso, si intrecciavano ai suoi capelli neri.

Forse non si sarebbe mai stancato di guardarla. Sembrava più spontanea, quel pomeriggio, insieme a lui. Sembrava naturale, semplice, più affascinante che mai.

E non l’aveva mai notato fino a quel momento, ma c’era un particolare nuovo nel suo incedere tranquillo.

Si affrettò a raggiungerla. “Rumiko-san?”

Lei si voltò, continuando però a camminare piano. “Dimmi.”

“Mi chiedevo …” Ken esitò, non sapendo come porre la domanda senza apparire indiscreto. “La tua caviglia va meglio? Vedo che non zoppichi più, neanche un po’.”

E fu ben chiaro che l’aveva colta alla sprovvista. La vide sgranare gli occhi, abbassarli repentinamente sulla sua caviglia, per poi risollevarli per posarsi su di lui. All’improvviso, i suoi occhi castani avevano una strana luce divertita. “Sai che ho anche corso per venire qui, Ken-kun?”, scherzò, con un sorriso. “Direi che sta più che bene. Non mi fa nessun male.”

Non ci aveva fatto caso, preso com’era stato dalla gioia di vederla presentarsi all’appuntamento. Sorrise in risposta, imbarazzato. “Hai ragione, scusa”, disse in fretta. Poi guardò altrove, ben deciso a dirle qualsiasi cosa. “Sono … mi fa piacere che stia meglio.”

Avrebbe dato chissà cosa perché non gli fosse così difficile dirle quello che pensava.

Rumiko alzò le spalle, con aria tranquilla. “Almeno adesso non dovrai preoccuparti che possa farmi male per strada, come l’ultima volta”, gli ricordò, prendendolo bonariamente in giro. “Sembravi davvero intenzionato a chiamarmi un taxi, pur di non farmi camminare. Te lo hanno mai detto che sei troppo apprensivo?”

Era assurdo che sminuisse così tanto la portata della sua storta alla caviglia. Ken si accigliò. “Non sono troppo apprensivo: sarebbe stato davvero meglio che non ti fossi sforzata”, si difese.

Lei sospirò, esasperata. “Andiamo, era una cosa da nulla. E poi camminare è molto più salutare che prendere un mezzo pubblico, ti sembra?”

Parlò come se fosse a conoscenza di un dato di fatto inattaccabile, e per un momento fu capace di zittirlo, sorpreso. Pareva che di faccia tosta ne avesse da vendere.

“Rumiko-san, camminare è salutare per chi non ha una caviglia dolorante”, insistette. “E non sembrava una cosa da nulla, vista la portata dell’urto che hai preso quel pomeriggio in strada.”

All’improvviso Rumiko parve irrigidirsi, come se il semplice accenno a quel mancato incidente fosse capace di incupirla. Lo guardò, e nei suoi occhi Ken lesse improvvisamente il tormento che lei cercava in ogni modo di reprimere, mai riuscendoci del tutto. “Ti preoccupi per nulla. Era una storta come un’altra, tutto qui. Ero perfettamente in grado di camminare da sola. Davvero, grazie per l’interesse, ma non ce n’è bisogno.”

E prima che lui potesse replicare alcunché, sorpreso e attonito com’era, lei accelerò lievemente il passo, sorpassandolo.

Probabilmente aveva esagerato con l’invadenza, si disse, maledicendosi. Probabilmente lei non aveva alcuna voglia di ripensare a quell’avvenimento. Che cosa gli era preso?

Allungò il passo quel tanto che bastava per raggiungerla, deciso a rimediare al suo errore. Rumiko camminava accanto a lui, il viso rivolto altrove, e non sembrava nemmeno più interessata ai ciliegi.

Ken sospirò. Di tutti i momenti meno indicati per mettersi a parlare, lui aveva scelto il peggiore. “Ti sei offesa? Non ne parliamo più, se vuoi. Mi dispiace”, disse, guardandola esitante e sperando che lei si decidesse a voltarsi.

Ma non si aspettava davvero che si fermasse bruscamente, e che lo guardasse di nuovo. E la sua espressione era di nuovo cambiata, notò. Era un misto di tristezza e confusione, e forse anche frustrazione.

“No, non sono offesa”, si arrese con un sospiro. “E’ solo che non capisco. Non capisco nulla. Perché sei così preoccupato per la mia salute? Lo sei sempre stato, da quell’incidente mancato fino ad oggi. Ho pensato fosse solo gentilezza per troppo tempo: adesso tutto questo non mi quadra più. Perché?”

E la domanda si fece più insistente tramite i suoi occhi castano chiaro, intensi e tormentati.

Domanda alla quale Ken scoprì, attonito, di non avere una risposta. Aveva agito istintivamente da quei giorni, ogni volta che si trattava di Rumiko. Non si era mai chiesto perché fosse così attento a tutto ciò che la riguardava.

E ora non sapeva che risposta darle.

Per il dolore che le aveva letto sul viso dopo che, zoppicante, si era mescolata alla folla? Per la forza d’animo che aveva scoperto il pomeriggio seguente, quando l’aveva vista zoppicare cantando, come se nulla fosse?

Per questo suo continuo passare da un’emozione all’altra, tanto facilmente quanto visibilmente, in una maniera che aveva dell’incredibile?

Perché rappresentava un mistero in tutto e per tutto? Per il bisogno che lei sembrava avere di lui?

Per l’attrazione inspiegabile che sentiva per lei?

Fu per questa sua improvvisa incertezza, e per l’imbarazzo profondo che sentiva a esporsi tanto, che si risolse a risponderle in maniera più neutra possibile. “Hai rischiato la vita per salvare un bambino che non conoscevi nemmeno, quel giorno, Rumiko-san”, disse infine, serio. Lei si irrigidì. “Avrebbe potuto andarti molto peggio, e lo sapevi anche tu. Eppure non hai esitato a mettere a repentaglio la tua vita in maniera tanto istintiva e inconsapevole. E non solo: il giorno dopo eri perfettamente tranquilla, come se non fosse successo nulla.  E’ difficile capire quando soffri o no … E credo che chiunque si preoccuperebbe.”

Si zittì, affrontando lo sguardo sconvolto di lei per qualche istante. Forse non avrebbe dovuto chiederglielo, ma non poté nulla contro il desiderio che aveva di comprenderla meglio. “Ma io … vorrei conoscere il motivo di tutto questo, se per te non è un problema”, concluse, con maggiore prudenza.

Rumiko chinò il capo, sfuggendo al suo sguardo. Sembrava fosse di nuovo interessata dai petali rosa che il vento portava con sé, come se solo quella visione potesse dirle se sarebbe stato più saggio parlare o tacere.

Il rumore assordante del silenzio e dell’ansia nelle orecchie, Ken aspettava, muto e immobile.

Ma fu proprio quando cominciava a perdere la speranza di avere una qualsiasi risposta che un sussurro quasi inudibile lo fermò.

“Per la libertà che lui ha … e per quella che nessuno di noi ha, invece.”


***


Era poco più di un foglio spiegazzato, rovinato e probabilmente non troppo recente, ma Hikari lo aveva portato a lui come fosse una reliquia. L’aveva tenuto stretto al petto finché non glielo aveva porto, con aria significativa, aspettando che lui ne leggesse il contenuto.

E Takeru aveva obbedito, curioso, dispiegando il foglio e osservandone l’interno.

Non c’erano che due frasi scarabocchiate con grafia pressoché illeggibile, e gocce d’acqua che avevano sbavato l’inchiostro qua e là, e irrigidito la carta. Eppure, il messaggio lo colpì all’istante, facendogli sgranare gli occhi.


E’ nelle vostre mani, adesso. So che accudite molti senzatetto, e mio figlio non è da meno. Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.


Stava per chiedere ulteriori spiegazioni a Hikari, confuso, quando lesse un piccolo nome in alto a sinistra, che non aveva nulla a che vedere con la firma del mittente. Un nome che conosceva molto bene.

Sussultò, alzando il capo. “Ma questo è …” La voce si spense, non sapendo come esprimere il suo turbamento.

E Hikari, pallida e seria, annuì piano. “E’ un messaggio lasciato qui dalla mamma di Keiji-chan la notte in cui lo trovai davanti alla porta dell’orfanotrofio, sette anni fa”, completò, dando conferma ai suoi sospetti. “L’unica traccia rimastaci di quella donna sconosciuta.”

Takeru osservò per un altro istante quelle parole, e quelle gocce. Solo ora comprendeva che avrebbero potuto essere lacrime.

Ripiegò il foglio, incapace di guardarlo ancora. Ogni singola parola di quel messaggio trasudava disperazione, e supplica, ed era quasi insopportabile. “Lo hai conservato per tutto questo tempo”, disse infine, confuso. “Perché? Speravi di rintracciare la madre di Keiji in questo modo?” Si accigliò, vedendola sussultare impercettibilmente, apparentemente senza motivo. “Sai che non è possibile. Non c’è nemmeno una firma …”

“No … non l’ho fatto per rintracciare nessuno.” Era strano. Adesso Hikari sembrava incupita, come se un’ombra improvvisa le avesse avvolto l’anima. Avrebbe dato chissà cosa per conoscerne il motivo. “Ce lo hanno affidato: sarebbe stato sciocco cercare di trovare chi lo aveva abbandonato e non poteva crescerlo. Se lei venisse di sua spontanea volontà … non lo impedirei di certo. Ma se non vuole averlo, non farò domande e lo terrò qui con me.”

Takeru poté giurare di aver visto un’angoscia profonda straziarla, all’improvviso. Si sentiva impotente: non sapeva come fare per aiutarla. E continuava a non capire.

“E allora perché?”, insistette. “E perché lo hai mostrato a me, Hikari-chan?”

 Quel silenzio malinconico era davvero troppo da sopportare, per lui. Se solo avesse saputo cosa la tormentava realmente …

Hikari trasse un lungo sospiro, e l’ombra scura sembrò svanire dai suoi occhi. Tutto ciò che rimase fu una profonda tristezza. “Per la mia promessa”, fu la risposta, e Takeru sgranò gli occhi. “Hai letto la preghiera di quel messaggio, il desiderio accorato di quella donna sventurata.”

Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.

E improvvisamente comprese. Tutto sembrava quadrare, ora. “Lo hai promesso anche a lei”, tentò, guardandola per avere conferma. “Hai giurato che ti saresti presa cura di Keiji come lei non può più fare.”

Dal lampo che vide nel suo sguardo, Takeru intuì la risposta prima ancora di sentirla pronunciare. “E’ così”, sussurrò lei in risposta. Poi si torse le mani, gli occhi bassi.

“Vedi, Takeru-kun, io non sono mai stata madre … ma posso capire cosa si prova.” Continuò poi, e sembrava che improvvisamente lei non avesse più problemi ad aprirsi con lui. Takeru ascoltava, attento e sorpreso. Non l’aveva mai vista in quello stato. “Ho passato una vita qui, mi sono presa cura di loro … so quanto amore si possa provare per un bambino che stai vedendo crescere. Io ho cresciuto Keiji per tutto il tempo in cui è stato qui, e posso dirti chiaramente quanto lo ami. Come … come fosse un figlio mio.” La sua voce tremò.

E Takeru ebbe un’ulteriore conferma di ciò che aveva solo supposto. Si era accorto da tanto del legame che c’era tra Hikari e quello strano bambino dai capelli viola, ma ora che lo sentiva dalla voce di lei sembrava fosse ancora più stretto. Così stretto e profondo che lui non poteva comprenderlo appieno.

“Ma portarlo in grembo per nove mesi? E’ tutt’altra cosa. Se lo abbandoni, abbandoni una parte di te, dopo che è stato tutto per te per quasi un anno.” Scosse piano la testa, il viso costantemente chino. “Non posso credere che sua madre abbia abbandonato Keiji-chan perché era stanca di lui. Deve averlo fatto per necessità. E si è affidata a noi per la crescita del suo bambino.”

Infine lo guardò. Sembrava aver vissuto molti anni in più di quelli che aveva, tanto grave era la sua espressione. “Ho promesso a lei, come a tutte le madri sconosciute e anonime di ogni bambino che abbiamo trovato, che ce l’avrei messa tutta. Che non avrei tolto anche la vita, oltre che la felicità, a quelle anime abbandonate. La mamma di Keiji-chan e il suo messaggio mi hanno fatto da monito per la mia promessa fino ad oggi.”

Non lo specificò, ma la sua espressione disperata urlò per lei il dolore che sentiva per star venendo lentamente meno alla sua promessa. Dava l’impressione di essere molto sola, e molto fragile.

E Takeru non poté più sopportarlo. Le prese la mano, stringendola con calore. “Ascoltami un secondo, Hikari-chan. La tua promessa è stata pienamente rispettata, non hai nulla da rimproverarti.” Parlava con impeto, e quando se ne accorse ne rimase momentaneamente scioccato. Davvero gli importava fino a quel punto? “Io non ho mai visto dei bambini tanto felici, o tanto legati a te. Soprattutto Keiji. Sembra che io non gli vada a genio perché crede che ti stia minacciando, lo sai?”

La mano di Hikari era fredda, ma ricambiò la stretta, in quella che sembrava una muta richiesta di aiuto. Sembrava traesse conforto dal suo debole tentativo di esserle accanto.

Eppure, ora che quel contatto nuovo si era instaurato tra loro, Takeru poteva anche avvertirne i cambiamenti. Era come se ora potesse sentire in prima persona la sua paura, la sua sensibilità, il suo amore infinito per quei bambini, il fervore delle sue idee, la sua incredibile bontà e semplicità.

E fu più semplice parlare, ora che gli sembrava di aver sfiorato la sua anima.

“C’è qualcosa in quei bambini che non riesco a comprendere. Hanno una luce, una gioia di vivere che altrimenti non avrebbero mai avuto, con la sorte che è stata destinata loro. Tu hai creato un nido sicuro pieno di affetto, e credo che mai avrebbero sorriso altrimenti. Dico sul serio.”

Sorpresa, Hikari sollevò il capo, fissandolo. Poi scosse la testa, e un sorriso più mite piegò le sue labbra. “Oh, no. Non sono stata io, Takeru-kun. E’ tutto merito dei bambini se hanno un animo tanto immacolato e gioioso.”

L’affermazione fu così assurda da farlo immobilizzare, stupito. Possibile che avesse così tanta umiltà da non riconoscere nemmeno i suoi meriti?

Lei intuì ciò che lui stava pensando, e rise piano. “Non guardarmi così: è la verità. Né io né chiunque altro in questo orfanotrofio avremmo potuto donare loro un’attitudine  così fondamentalmente spensierata: ce l’hanno innata. Io e gli altri possiamo soltanto incoraggiare questo lato straordinario del loro carattere.”

“E allora i vostri valori, le vostre certezze? Non contano nulla nella loro crescita?”, insistette Takeru, non arrendendosi. “E’ impossibile.”

“E se fossero stati loro ad insegnarci quelli che tu chiami nostri valori e nostre certezze?”

Takeru, scioccato, pensò ad uno scherzo. “Come … non può … Come sarebbe a dire?”, riuscì a balbettare infine, più confuso che mai. “Come possono dei bambini insegnare a degli adulti dei valori tanto grandi?”

E ora gli occhi ancora gonfi di Hikari brillavano di un’emozione nuova, spontanea e intensa. “I bambini hanno una caratteristica che gli adulti, alle volte, perdono: riescono a mantenere viva la luce nel cuore, qualunque cosa facciano e qualunque cosa succeda. Riescono a vedere tra due alberi un passaggio per un mondo incantato, e a vedere in un oggetto privo di valore un gioiello. Hanno sogni, sogni in cui credono ardentemente, sogni che condividono l’uno con l’altro senza vergogna … saresti stupito di vedere quanto un sogno per noi privo di valore per loro è un’ancora di salvezza. E sai qual è la cosa stupenda? Che passano dalle lacrime al sorriso con un niente, solo sapendo che c’è qualcuno accanto a loro che crede nella luce che hanno dentro.”

Takeru, muto, osservava il riflesso rosato del sole sul viso di lei, e credette di scorgere nei suoi lineamenti una nuova fiamma, calda e viva, che arrossava le sue guance e illuminava i suoi occhi. Non aveva mai visto uno spettacolo tanto affascinante.

“La speranza nasce dalla luce, Takeru-kun. E i bambini ne hanno da vendere, te lo posso assicurare. Avranno sempre un motivo per sorridere e giocare, non importa quanto la crudeltà che c’è nel mondo tenterà di spegnerli. Finché la loro fiamma arderà, non ci sarà nessun’oscurità che possa distruggerli. Non ne saranno mai intaccati. E’ questa la loro forza.”

Gli sorrise, mentre lui ancora la ascoltava, turbato e sorpreso. “Non credi che la purezza sia questa, Takeru-kun? Avere tanta luce nel cuore, ed essere così generosi da donarla agli altri con un solo sorriso spontaneo?”

E il viso di Hikari in quel momento gli parve così bello da fargli credere di non averlo mai visto davvero prima d’ora.

Dolce, sincera, profondamente innamorata della vita, gli regalava un po’ della sua luce con quel sorriso, quanto di più simile a ciò di cui lei stava parlando.

Sentiva come uno strano groppo in gola.

Infine lei distolse lo sguardo, osservando assente le fronde che ondeggiavano al vento. “Quello che tu vedi in noi è ciò che i bambini ci hanno donato in tutti questi anni. Hanno ricambiato l’affetto donato loro con una scintilla di luce per tutti.”

Il sorriso scemò. Takeru vide affiorare sul suo viso una nuova espressione determinata, nuovamente salda. Con nuovo stupore si rese conto che fino ad ora non aveva compreso quale fosse la forza di Hikari: aveva sempre visto in lei un’eroina, un essere sovrannaturale.

Ora comprendeva che la sua forza risiedeva nel sapersi risollevare dallo sconforto. Perché cadeva nella polvere, ma poi sapeva rialzarsi, e far brillare più intensamente la sua luce.

Un’anima pura.

Lei parlò ancora, seria. “Di momenti di sconforto come questi ne ho molti … sono momenti terribili, perché mi sembra che sia tutto perduto. Che stia rincorrendo un’illusione. Ma in cuor mio so già che non mi arrenderò … che non ci arrenderemo fino alla fine, che continueremo a lottare per questo sogno. Che, in ogni modo possibile, non verrò meno alla promessa. Non posso lasciarli morire di stenti agli angoli delle strade.” Sospirò, riprendendo in mano il messaggio della mamma di Keiji e stringendolo al petto. “Per mia mamma, mio fratello, i miei amici, i bambini, e per le loro madri sconosciute.”

“Se tu non fossi fondamentalmente pura, Hikari-chan, dubito che troveresti tanta forza per andare avanti. I bambini possono averti cambiata quanto vuoi: non tutti potrebbero reggere tanti sacrifici.”

Non avrebbe voluto dirglielo, ma il sussurro era uscito di sua spontanea volontà dalle sue labbra. Non aveva potuto bloccarlo.

Ma sentiva un’ammirazione più profonda e più matura per quella giovane, ora che l’aveva conosciuta. Sentiva che non aveva mai incontrato persona migliore di lei.

Sentiva che il paragone tra loro era impensabile, in quel momento. Lui non aveva nemmeno la metà delle sue convinzioni, non più.

Lei notò il suo stato d’animo, e la presa sulla sua mano si fece più salda, mentre il calore nei suoi occhi lo raggiungeva, lo confortava, lo risollevava.

“Io invece credo”, disse lentamente, “che chiunque sarebbe stato in grado di fare lo stesso: ciò che serve è solo abbattere le barriere e i limiti che ci costruiamo da soli e guardarci più a fondo. Se solo volessimo non saremmo poi tanto diversi dai bambini: forse nemmeno lo sappiamo, ma crescendo abbiamo comunque conservato un po’ di luce dentro di noi. Molto spesso neghiamo persino di averla, la dimentichiamo, o ancora la offuschiamo crudelmente, con ogni mezzo possibile, ma il massimo che possiamo ottenere è solo mascherarla. Non c’è nessuno che non sia fondamentalmente puro, anche inconsciamente, in questo mondo.”

Avrebbe voluto ribattere che lui non era puro, che non lo era mai stato, probabilmente.

Avrebbe voluto dirle che tutto crollava ancora inesorabilmente sotto i suoi piedi.

Eppure, non poté nulla contro il suono rassicurante delle sue parole, e contro l’innegabile sollievo che, nonostante tutto, si andava annidando dentro di lui.

Le sorrise. “Grazie.”


***


“La libertà?”

Dal mezzo sorriso che comparve sul suo viso, comprese che Rumiko si aspettava lo stupore e la confusione che aveva avvertito nel tono di voce di lui. Non si scompose, limitandosi ad annuire.

Ken si accigliò, sforzandosi di cogliere quel collegamento che l’aveva portata a pronunciare quella parola –libertà- con tanta naturalezza. Sembrava pregna di significati, ma sembravano sfuggirgli uno per uno. “Scusami, non capisco”, si arrese infine. “Di quale libertà parli?”

Lei si strinse le braccia al petto, in un tentativo di trovare riparo dal vento. Aveva lo sguardo rivolto altrove, ma per quanto si sforzasse di nasconderlo, Ken si accorse delle continue occhiate di sottecchi che lo studiavano. Si chiese cosa mai stesse cercando nella sua espressione. “Di ogni tipo di libertà possibile. Ti sei mai reso conto che tutto, in questo mondo, si basa sul concetto di libertà? Prova a pensarci.”

Inaspettatamente, Rumiko sollevò il capo, affrontandolo direttamente con uno sguardo. Non gli diede tempo per dire alcunché: si avvicinò di un passo, sufficientemente perché il giovane potesse scorgere il nuovo lampo che aveva negli occhi.

Sembrava volesse dirgli quanto quel discorso fosse importante per lei.

“L’uomo ha bisogno della libertà come necessita di aria: è un dato di fatto. Pretende la libertà di vita, di culto, di religione, di disporre della propria vita come desidera … di qualunque tipo. Le costrizioni lo soffocano, la schiavitù lo mortifica e lo umilia. L’uomo è intelligente, sai: proprio per questo non deve sottostare a nessuno. Se l’uomo è intelligente, ha le proprie idee; se l’uomo ha le proprie idee, è indipendente. E l’indipendenza può essere scambiata per libertà tanto spesso, Ken-kun. Troppo spesso.”

Lo fissava, la mascella contratta, il viso infervorato. Probabilmente si aspettava che lui parlasse, che commentasse, che le desse ragione.

Eppure Ken rimase in silenzio, perché ogni parola, ogni frase sbagliata avrebbe potuto interrompere quell’istante in cui Rumiko sembrava voler parlare di sé. Forse non sarebbe mai più capitato.

E poi lei continuò. “L’uomo aspira alla libertà, ma spesso non sa cosa sia. Crede che la libertà sia solo un diritto, e nella sua ricerca si fa arrogante. Pretende, pretende e crede di sapere tutto della libertà. Abbiamo la libertà di essere indipendenti. Perché, allora, ascoltare ciò che gli altri ci dicono?, si finisce per pensare. Se siamo indipendenti non abbiamo bisogno di loro. Se siamo liberi possiamo infischiarcene di tutto e di tutti. Altrimenti che libertà sarebbe?

La voce di Rumiko tremò, e sul suo viso per un istante passò un dolore indicibile, che sembrò quasi annientarla. Ken sussultò, confuso, e comprese che in quel discorso doveva esserci qualcosa di tremendamente personale che la torturava. E comprese che lei non gliene avrebbe parlato.

Lui era del tutto impotente.

Eppure, così com’era arrivato, quel dolore fu accantonato, e con un respiro profondo Rumiko riprese il controllo di sé. Fu in quel momento che Ken si rese conto che episodi del genere non succedevano di rado, vista la rapidità della ripresa.

Il pensiero creò un profondo senso di vuoto, dentro di lui. Un vuoto doloroso.

“Ed è proprio così, vedi, che si arriva ad essere tremendamente egoisti. E il concetto di libertà finisce per essere un concetto di supremazia sugli altri. Se l’uomo ha la libertà di pensarla e comportarsi come vuole è autorizzato a fare qualsiasi cosa, no? E se si sentisse libero di rubare, per le sue convinzioni? Libero di uccidere? Libero di ferire in ogni senso, libero di … abbandonare, o mortificare, o umiliare? Chi potrebbe dirgli alcunché? Lui era solo libero di fare le proprie scelte! Che male c’era?”

E le sue labbra si piegarono in un’inequivocabile smorfia amara, mentre la voce diventava sempre più alta man mano che le domande divenivano sempre più incalzanti. Un rossore andava colorando sempre più le sue guance, mentre il pallore che lo aveva impensierito poco prima sembrava appartenere ad un’immagine completamente diversa di Rumiko.

Una strana emozione si era impadronita di Ken, e cresceva assieme al discorso di lei, come fosse strettamente legato alle sue parole. Non avrebbe saputo spiegarla in alcun modo: tutto ciò che sapeva era che quel discorso era più importante di quello che aveva immaginato erroneamente chissà quanto prima.

Rumiko scosse la testa, e trasse un sospiro. “L’uomo si crede intelligente, ma è stupido. La libertà è tutt’altro che questo.”

“E allora cos’è?”

Non intendeva zittirla, con quel sussurro. Non intendeva nemmeno creare quel momento pieno di tensione che li avvolse entrambi. Eppure Rumiko sembrò aver perso momentaneamente la voce, come se avesse trovato negli occhi di lui qualcosa di inaspettato, di sconvolgente. Sembrava quasi presa da lui come lui lo era da lei.

Si riscosse in fretta, turbato come non lo era stato da molto tempo.

“Cos’è per te la libertà, Rumiko-san?”, chiese ancora, e ancora una volta la sua voce fu poco più di un bisbiglio.

E ora perché i suoi occhi castani brillavano tanto? Perché il suo viso era contratto in un’espressione di decisione improvvisa quanto salda?

“Vuoi sapere cos’è la libertà, Ken-kun? Quella vera?”, replicò, e non un tremito alterò la sua voce. “E’ tutto qui: non essere schiavi di se stessi.”

Rumiko prese a giocherellare con un piccolo fiore di ciliegio ben visibile da quel ramo basso accanto a loro, ma era chiaro che non lo stava osservando sul serio. “La schiavitù fisica non è il nostro caso: sono estremamente convinta che siano le nostre passioni a renderci schiavi. Quelle, e il nostro egoismo. Credendo di essere gli unici ad aver diritto di scelta, siamo schiavi. Chi uccide sarà schiavo dell’arroganza, perché ritiene che la sua vittima non sia libera di vivere. Chi ruba sarà schiavo della cupidigia, perché ritiene di essere libero di vivere a discapito degli altri. Chi ferisce sarà schiavo della propria rabbia, o sofferenza, o voglia di essere chi non si è … perché non comprende che ad ognuno è stata data la libertà di essere sereno, di amare e sorridere.”

Chissà cosa ne avrebbe pensato Osamu, se avesse ascoltato quel discorso, si ritrovò a pensare Ken distrattamente. Chissà se anche lui avrebbe attribuito le cause del male del mondo alla schiavitù di se stessi, lui che era così abituato ad occuparsi della parte più torbida della vita umana.

Chissà se anche lui avrebbe colto l’intensità e l’ardore delle parole della giovane che le era accanto, o se ne sarebbe stato altrettanto affascinato.

Dal canto suo, Ken era sicuro di non aver mai sentito tanto fervore nelle parole di qualcuno.

“Salvo casi estremi, probabilmente tutti siamo schiavi di qualcosa, Rumiko-san”, intervenne cauto. “Come si può essere liberi, allora?”

Ken credette di vedere le dita di Rumiko, che stringevano delicatamente un petalo del fiore, tremare impercettibilmente. “Non tutti possono”, rispose riluttante, come se la confessione la turbasse. “In effetti, solo pochissimi riescono a conservare la libertà anche da adulti.”

Non capendo, non poté altro che fissarla. Lei lo notò, e sorrise lievemente, nascondendo per qualche istante alla sua vista il suo tormento.

“Andiamo, Ken-kun, ci puoi arrivare”, gli disse, guardandolo insistentemente. “Gli unici davvero liberi da se stessi, gli unici che sognano di volare, ma non di farlo tarpando le ali agli altri ... sai dirmi chi sono?”

L’illuminazione arrivò ripensando al contesto dal quale tutto quel discorso era partito, e la risposta arrivò spontanea alle sue labbra. “I bambini.”

E non ebbe bisogno di conferma, non dopo aver visto l’espressione sul volto di lei, per sapere che aveva indovinato.

“Precisamente. I bambini”, confermò lei, uno strano calore nella voce mentre pronunciava quella parola. “Quale egoismo può esserci in loro? Di cosa possono essere schiavi? Conoscono l’amicizia per interesse? Conoscono l’invidia, quella vera? Sanno cosa voglia dire ferire? Proprio loro, che quando litigano corrono a fare pace, incuranti dell’orgoglio, dimentichi delle aspre parole che hanno sentito pronunciare dall’altro? Proprio loro, che quando vogliono bene a qualcuno si fanno in quattro per lui … che non sottraggono libertà, ma anzi vogliono donarne? Non sono forse loro, nessuno escluso, le persone più libere di questo mondo?”

Il calore della sua voce si era esteso al suo viso, e ora tutto di lei sembrava gridare quanto intenso fosse il suo amore per i bambini, per quanto particolare fosse questo lato di Rumiko. Come se improvvisamente lei fosse diventata lo stesso calore che sentiva, tanto impetuosamente sembrava vivere quel sentimento.

“E non credi che la purezza sia questa, Ken-kun? Avere l’animo così leggero, così libero non solo da volare, ma anche da danzare nel cielo?”

I lunghi capelli neri ondeggiavano inermi al vento, passandole davanti al viso e nascondendo, a tratti, i suoi occhi sfavillanti, la dolce linea delle sue labbra e le sue guance arrossate. E Ken non riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura, troppo turbato per fare altro.

Sembrava comunicare tutto e niente, come mai era successo prima di allora.

Immobile e vibrante, schietta e ritrosa, tormentata e piena di sogni, determinata e abbattuta, lo fissava, e nel vento la sua visione appariva strana. Brillava di un’esaltazione selvaggia che la faceva sembrare forte e fragile insieme.

Non aveva mai visto niente di più bello. O niente di più libero.

Sentiva persino il respiro fermarsi per osservare quella giovane dalle mille sfaccettature.

“Te lo immagini, Ken-kun? Se tutti fossimo liberi da noi stessi come i bambini, non sarebbe più facile, più bello, più …?”

Si interruppe, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Il suo viso impallidì di colpo, mentre abbassava lo sguardo. Ken non capì cosa fosse successo, cosa l’avesse turbata tanto, finché non posò gli occhi sulle mani di lei.

Allora comprese, e sgranò gli occhi.

Rumiko sembrava osservare con aria scioccata quel piccolo fiore di ciliegio che per sbaglio doveva aver strappato via da quel ramo, lo stesso fiore con il quale stava giocherellando poco tempo prima.

Lo stesso fiore che ora era tra le sue dita.

Era solo un fiore. Eppure lei non disse più nulla, mentre quella visione la riempiva pian piano di una tristezza che lui non comprendeva.

Non riusciva a comprenderla, ma la preoccupazione per quel viso sempre più pallido lo costrinse a parlare. “Rumiko-san …”, tentò.

“Sarebbe più facile”, sussurrò invece lei, gli occhi bassi. “Eppure crescendo si perde la libertà infantile. Si diventa schiavi di aspirazioni e idolatrie sbagliate. E si diventa egoisti. E sai qual è il massimo dell’egoismo? Togliere la libertà di vivere ai bambini. Succede tanto spesso da far venire la nausea, per quanto orribile sia questo gesto, e molto spesso nemmeno ce ne accorgiamo.  Ed è per questo che non ho potuto permettere quell’incidente.”

Nella pausa momentanea che si venne a creare, infine Ken capì ciò che lei aveva cercato di dirgli fin dall’inizio.

“Se posso proteggere la libertà di un bambino, dopo essere sempre stata così egoista, forse qualcosa di buono sarò riuscita a farla, no? Se un essere puro può essere salvato anche da una persona come me, allora che sia: sarà una delle poche azioni delle quali potrò andare fiera. Lasciarlo morire per l’egoismo di un qualunque autista sarebbe troppo persino per me. Non ho diritto di scegliere per lui … non l’ho mai avuto, per nessuno.”

Sul punto di rottura, Rumiko preferì voltarsi, stringendo al petto quel piccolo fiore e chinando il capo.

Con stupore, Ken si rese conto che solo ora comprendeva quale fosse la sua debolezza, capace perfino di lottare strenuamente contro la forza incredibile che la sorreggeva.

Era il senso di colpa che la tormentava. Un senso di colpa che la stava facendo impazzire, segno di un passato e di errori che voleva racchiudere in sé senza farne parola con nessuno.

Un senso di colpa ben deciso ad offuscare la vera natura di Miyazawa Rumiko, che ogni suo discorso aveva invece messo in luce con tanta chiarezza.

Un’anima pura, che credeva con tutta se stessa di non esserlo.

Prima che potesse rendersene conto, Ken aveva avanzato un passo verso di lei.

Avrebbe voluto abbracciarla. Stringerla a sé, e dirle che andava tutto bene, che lui si sentiva ormai legato a lei, che non l’avrebbe lasciata sola, che avrebbe portato il peso del suo dolore assieme a lei.

Avrebbe voluto.

Ma non fece nulla.

Una semplice e incerta mano sulla sua spalla fu tutto ciò che poté fare, e fu tutto ciò che causò quel sussulto e quella tensione in lei. E sentì così intensamente la barriera che lei si costringeva a portare che le parole decisero di uscire di loro spontanea volontà, senza che lui potesse fare nulla per fermarle.

“Un errore non può cambiare l’anima di una persona, Rumiko-san. Non è troppo tardi.”

Fu solo silenzio per alcuni, interminabili secondi. Persino il vento sembrava essersi placato, nel momento in cui Ken si domandava se lei avesse anche solo sentito ciò che le aveva detto.

Rumiko non poteva guardarlo, forse perché sapeva meglio di lui che i suoi occhi avrebbero rivelato troppo della sua anima.

Eppure, cercò ugualmente un contatto con lui.

Allungò una mano, raggiunse quella di lui posata sulla sua spalla, intrecciò le sue dita con quelle di lui, come fosse un gesto naturale, come se fosse ciò che sentiva fosse più giusto fare.

Come se cercasse di sentirlo vicino in quel momento, malgrado i suoi segreti.

Ken strinse quelle dita con calore, comprendendo che quello era tutto l’aiuto che potesse offrirle.

E poi la sentì ridacchiare, amara. “Se tu sapessi chi hai davanti, Ken-kun, non la penseresti così. Io mi auguro che tu non lo capisca mai …”, disse, con voce spezzata. “Per me è tardi. Ho strappato via la libertà a troppe persone che amavo, come ho strappato quel fiore. Il passato non si può cambiare. E’ per questo che io non sarò mai, mai pura.”

Hello there :) E' la prima volta che decido di trattare nello stesso capitolo le due storie parallele principali, ma alla fine doveva succedere. E oggi vi ho proposto un capitolo un po' speciale, che possa spiegare fino in fondo il significato del titolo della storia. Era anche ora, dopo 21 capitoli xD meglio tardi che mai. E da questo momento in poi aspettatevi di entrare nel vivo dell'azione: ormai non è davvero più tempo di indugiare ^^ conto di iniziare già dal prossimo ad affiancare più punti di vista insieme, perché i punti da analizzare sono davvero fin troppi o.o

Ma intanto rispondo alle recensioni che mi avete lasciato :)

Iniziando con Shine: poi dovrai spiegarmi dove hai visto Leonardo e i suoi quadri nel mio capitolo^^' sono sempre convinta che tu abbia un'opinione troppo alta del mio lavoro, ma puoi immaginare quanto io sia contenta dei tuoi soliti apprezzamenti ;) diciamo che alla scena iniziale ci tenevo in maniera particolare: è una delle poche volte in cui mi decido a descrivere un paesaggio :P insomma, sai meglio di me quanto mi riesca difficile ... Per quanto riguarda le contraddizioni di Miyako, aspetta e vedrai, la situazione diventerà sempre più complicata! Dopo questo capitolo avrai già capito che per entrambi è tardi per tornare indietro. Osamu tornerà nel prossimo aggiornamento in maniera del tutto inaspettata, te lo assicuro ;) intanto, grazie per la costanza e la "fedeltà" ^^ a presto!

Una nuova lettrice, eh? paperella96, sono davvero contenta che tu ti sia interessata alla mia storia e che l'abbia apprezzata tanto ^//^ i tuoi complimenti mi hanno lusingata sul serio, e spero di non deluderti adesso che la storia prosegue in maniera più serrata :) Riguardo alle relazioni amorose, ti sarai fatta un'idea più chiara delle mie inclinazioni di coppia, immagino ;) Anche io sono tendenzialmente più Taiora, di solito, ma chissà? Devo ancora prendere una decisione definitiva a riguardo xD non dovrai aspettare tanto, però. Per quanto riguarda Daisuke, porta pazienza e si svelerà anche la natura del loro rapporto! Che dire, ti ringrazio ancora, e spero continuerai a seguirmi e a darmi tuoi pareri!

Ecco, credo sia tutto adesso! Per domande, commenti, riflessioni o dubbi, fatevi sentire, mi fa sempre piacere ;)

Padme Undomiel

   
 
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