Diary of a Scarlet Queen.
3^ PARTE:
BACK TO DUBLIN
Chapter
5: September, October, November 1984
1 Settembre 1984
A Dublino
l’autunno inizia presto, arriva all’improvviso in una mattina che sei a far
compere con le tue amiche. Esci dal St. Stephen Mall e
vedi che nel giardino le foglie sono tutte colorate. Il vento ti pizzica le
gambe e il cielo è più bigio del solito.
Non ci sono più
ragazzi che bighellonano in giro e la pioggia è più insistente.
Ma Dublino è
bella, bellissima anche in questa stagione, anche se devi iniziare la scuola e
proprio non ne hai voglia di passare il tuo tempo in mezzo a preti ed
insegnanti bigotti che cercano di moralizzarti.
Anche se tua
sorella ti sibila che te la farà pagare per averla rapata a zero e non vedi più
tanto il tuo migliore amico che fa due lavori.
Dublino è
splendida, Dublino è incantevole, Dublino è magica e piena di canzoni. C’è
malinconia, speranza, voglia di rivalsa. C’è di tutto a Dublino e io la amo per
questo.
Ma chissà perché
allora, se la amo così tanto, non posso fare a meno di immaginarmi su un aereo
a girare il mondo.
Perché non riesco
a sognare di vivere a Londra o a New York, o viaggiare per l’Europa e il
Sudamerica, nomade e libera in compagnia di Ronan.
Le mie
contraddizioni non le capirò mai io stessa, figurarsi gli altri.
Comunque, a scanso
di equivoci, posso confermare che a Ronan non
piacciono proprio le ragazze. Ma non dice altro. E, con i tempi che corrono in
questa nazione bigotta ed arretrata, non posso far altro che capirlo.
Ma un giorno correremo
all’aeroporto ridendo, trascinandoci i nostri bagagli, e prenderemo un aereo al
volo, come abbiamo fatto quando siamo tornati da Galway.
Chissà a chi
faremo il medio.
Forse a Nina.
Forse a mio padre. Forse al datore di lavoro di Ronan,
schiavista ed alcolizzato.
10
Settembre 1984
E oggi è
ricominciata la scuola.
Quest’anno la
novità più esaltante è che non avrò Nina tra i piedi, dato che ha finito l’anno
scorso. Oooh.. che dire, avrò il mio momento di relax
quotidiano e sarò la reginetta indiscussa della scuola…
Altra nota
positiva, anche Keith ha terminato la scuola, perciò non mi ritroverò quella
sua faccia da stronzo davanti tutti i giorni. Chissà se lui e Nina si vedono
ancora. Sinceramente, non ci tengo a scoprirlo.
Stamattina prima
di uscire ho origliato una conversazione tra Nina e papà. Pare che anche Nina
sia entrata nel Sindacato, e da come ho capito, ha passato l’estate a ricevere
le ultime, utili lezioni da papà, proprio sul campo. Da come Papà ne parlava,
era davvero molto orgoglioso di Nina. Se mi avesse accoltellato mi avrebbe
fatto meno male. Ormai è chiaro che non potrò più conquistarlo, che per lui non
potrò più essere qualcosa di più che l’altra figlia, quella che bighellona in
casa facendo rumore con dei fastidiosissimi tacchi. Ma io che ho fatto di male?
Perché mi ha tagliata fuori senza darmi alcuna possibilità di farmi valere? Mi
ha sempre escluso da tutto a priori, senza sapere se fossi portata o meno per
questa attività. Ma prima o poi Anna avrà la sua rivincita. Non so ancora come,
ma presto o tardi sarà Nina quella a cui papà volterà le spalle.
18
Ottobre 1984
Stiamo cercando il
nostro vestito di Halloween! Il ragazzo di Helen darà una festa a casa sua, e ci
ha invitato tutti! Per l’occasione –incredibile a dirsi- verrà pure Ronan!
Non vedo l’ora, ho
sempre adorato questa festa – nonostante gli inviti e i proclami delle nostre
amatissime autorità scolastiche a non partecipare a questa’ barbara festa
pagana’- ed è un’altra occasione in più per far baldoria!
Sabato mattina
andremo in giro per mercatini a cercare qualcosa. Sono indecisa se travestirmi
da strega o da vampira…
31
Ottobre 1984
Il costume da
strega è sul letto: si tratta di un vestitino nero di pizzo, preso al mercatino
e pagato una sciocchezza, a cui ho tagliuzzato un po’ la gonna. Il cappello a
punta l’ho ornato con una striscia rossa alla base del cono, ed infine, tocco
di classe: collant strappati in più punti e stivaletti neri con il tacco alto.
Ora baderò alla
manicure, con un bello smalto viola scuro che farà pan-dan con il rossetto dello
stesso colore.
Voglio essere
perfetta stasera, ci sono un paio di ragazzi carini da conquistare…
01
Novembre 1984
E sono ancora qui,
incredula davanti a delle pagine bianche che sento il bisogno di riempire di
inchiostro, anche se non so da dove iniziare, né quali energie usare, dato che
le mie mi sono scivolate via nell’arco di queste ultime ventiquattro ore.
Credo che dovrò
iniziare dal principio.
Da quando, due ore
dopo che ho scritto il mio ultimo aggiornamento su questo diario, mi sono
preparata e truccata con cura. Mi sembrava davvero tutto perfetto: come avevo
steso bene l’ombretto sugli occhi, il rossetto e lo smalto…
Mi sono scattata anche un paio di foto con la polaroid, prima di infilarla
nella borsetta per portarla con me alla festa. Erano le sei e mezza, e fuori
faceva già buio.
Mia madre scende
le scale con me, la sua borsetta chiara a tracolla: deve fare un po’ di spesa
per domani, dato che i negozi sono chiusi per la festività dei morti. Commenta
il mio trucco con un lieve sorriso: è evidente che si sforza di farmi piacere
ad interessarsi a cose che per lei sono delle sciocchezze inutili.
Davanti al portone
di casa ci salutiamo. “Stai attenta, torna presto”. Annuisco con noncuranza,
sono le ultime parole che mi ha detto, ma io non lo so ancora.
E poi mi volto
dall’altra parte. Pregusto di accendermi una sigaretta appena girato l’angolo.
Un ragazzo che passa mi fa un complimento a cui rispondo con un sorriso. Di
fianco a me passa un autobus, il 46 A, ma non sapevo ancora che fosse quello il
numero.
Ed
improvvisamente, sento alle mie spalle il rumore di una brusca frenata ed un
rumore sordo. Mi volto, pensando di vedere uno dei tanti tamponamenti, ed
invece per terra c’è una borsetta chiara, e l’autobus fermo, con il conducente
che scende precipitosamente e si mette le mani nei capelli. La gente accorre,
qualcuno urla di chiamare un’ambulanza. Io ci metto un po’ a realizzare che
quello che ho davanti ai miei occhi è tutto vero. E mi metto a correre verso
l’incidente. Inciampo nei tacchi, mi rialzo, vedo una vicina che era uscita dal
portone venirmi incontro, dice qualche frase sconnessa e cerca di abbracciarmi,
di fermarmi. La spingo via e porseguo. Questa volta
non corro più. Non c’è più bisogno di correre.
Mia madre è
riversa a terra, tra il marciapiede e la ruota dell’autobus. Ha la faccia sul cemento, ed è coperta del
sangue che esce copioso dalla sua testa e che inonda il marciapiede, la strada,
scendendo con un rivolo macabro verso il tombino più vicino. La vicina è ancora
alle mie spalle, mi abbraccia, mi tira via, io urlo, la spingo di nuovo lontano
da me, faccio per lanciarmi su mia madre. La chiamo, la chiamo disperatamente
mentre dell’altra gente mi ferma e le sirene dell’ambulanza si avvicinano.
La vicina mi ha
riportato dentro dal portone. Suo marito sta prendendo la macchina e mi
accompagneranno in ospedale, dicono. Io scivolo a terra, ho il fiato mozzo e
non riesco a smettere di piangere.
“Dov’è tuo padre?”
mi chiede la vicina. “E tua sorella?”
Singhiozzo che non
lo so, che sono andati via ieri mattina e non so come contattarli.
Sono le 4 di
mattina passate al St. James Hospital, quando mio padre e mia sorella entrano
nel lungo corridoio che porta all’obitorio.
Il lungo corridoio
bianco e grigio dove sono seduta da almeno sette ore. L’unico che è riuscito a
contattarli è stato P.B. il collega di mio padre,
l’unico che sapesse dove si trovava e che ho chiamato qualche ora dopo, quando
sono riuscita a riprendere un po’ di lucidità e i vicini sono tornati a casa
loro.
La prima cosa che
fa mio padre è guardarmi e chiedermi cosa sia successo.
“La mamma è stata
investita da un autobus” spiego. Non posso far nulla per non farmi tremare la
voce. Guardo mia sorella, pallida come il muro dietro di lei, che deglutisce a
malapena. “E’ morta sul colpo.” Aggiungo.
“Mi ha detto P.
che eri li anche tu? Sai dirmi come è successo? Anna, è importante.” Papà si è
chinato davanti di me, ha estratto un fazzoletto dalla tasca e me lo porge.
Gli racconto
quello che ho visto, la frenata, l’autobus. Alcuni poliziotti prima sono venuti
ad interrogarmi e mi hanno fatto delle domande, chiedendomi se ricordassi se l’autista
fosse sbronzo o distratto. Racconto anche questo a mio padre. “Devi… devi fare il riconoscimento del corpo.” Balbetto,
stringendomi in me stessa. “Io non ho potuto perché sono minorenne.” Papà
annuisce, quasi mi abbraccia ed entra dalla porta nell’obitorio.
Nina passeggia su
e giù per il corridoio. Poi si siede vicino a me. “Quindi hai visto tutto?” mi
chiede, quasi morbosa. Annuisco, mentre i singhiozzi mi soffocano qualsiasi
parola. Mia sorella sta zitta per qualche minuto. Si prende la fronte tra le
mani. Non piange, non sembra neppure addolorata più di quel tanto. “Almeno non
ha sofferto.” Dice solamente.
Vorrei urlare.
Vorrei domandarle che razza di persona è a dire una cosa del genere davanti
alla morte della propria madre, ma sto talmente male da non riuscire a
proferire parola.
Papà esce
dall’obitorio poco dopo, ha una busta in mano con degli effetti personali e ci
dice che possiamo tornare a casa, che porterà lui, l’indomani, i vestiti per
comporre il corpo per il funerale.
“Non è troppo presto?”
chiedo con un filo di voce. Lui si siede vicino a me, mi prende la mano e cerca
di assumere una voce il più rassicurante possibile. “Ormai per la mamma non c’è
più nulla da fare. Forse non ti ricordi, ma anche quando è morto il nonno il
funerale c’è stato due giorni dopo.”
Annuisco, anche se
mi sembra comunque una forzatura e li seguo fuori dal corridoio. Vedo Nina che
getta uno sguardo alle sue spalle, verso il reparto, ma quando papà le chiede
se vuole vederla, lei scuote la testa e ci segue fuori.
E’ cosi, dunque.
Mamma è morta. Investita, con la testa aperta in due sulla strada davanti a
casa come la madre di Lolita.
Ed ora, in casa,
c’è ancora più silenzio. E vuoto. E fa tutto talmente male da non riuscire
quasi a respirare.
Fa male aver visto la mamma
morire.
Fa male che papà non sia riuscito
neppure a consolarmi.
Fa male che mia sorella non
riesca neppure a dimostrare un briciolo di dolore, di tristezza.
Vorrei alzare la cornetta e
parlare con Willow, o Helen o meglio ancora Ronan. Ma non riesco neppure ad avvicinarmi al telefono. E
allora decido di buttarmi sul letto e di cercare di dormire. Magari questo è
davvero tutto un brutto sogno.
02
Novembre 1984
Oggi ho dato
l’addio a mia madre, e non mi sembra ancora vero quello che è successo. Mi sembrava
che fosse tutto lontano da me: la preparazione, il funerale…
mi sembrava di stare dentro ad una bolla e tutto il resto era fuori.
Dopo il funerale,
mentre la bara veniva portata nel cimitero retrostante la chiesa per essere
interrata, sono rimasta un attimo in chiesa. Prima di uscire Nina mi ha chiesto
se venivo, ma papà le ha fatto segno di tacere. “Credo che abbia bisogno di
rifletterci un po’ su” le ha sussurrato, come se la morte di mia madre fosse
qualcosa a cui si poteva dare una soluzione dopo un attimo di riflessione.
Così sono rimasta
seduta sul primo banco della chiesa. Non ho pregato, ne ho invocato nessuna
divinità. Stavo solo li e pensavo a mia madre. A quanto fosse stata ingiusta la
sua morte. A quanto fosse stato ingiusto tutto.
Il prete mi si è
avvicinato, ha iniziato a blaterare cose sul paradiso e la vita eterna, sulla
luce eterna e sulla redenzione, aggiungendo che doveva rincuorarmi il fatto che
mia madre ora sarebbe stata alla presenza del Padre.
“Sa, padre.” Ho
detto, senza guardarlo negli occhi. Grattavo via la vernice del banco, già
rovinato, con le mie unghie ancora viola. “Tutto ciò non può rincuorarmi.
Quello di cui parla, per me, sono solo una marea di stronzate.”
L’ho visto
rimanere a bocca aperta e ho ricacciato indietro le lacrime. “Quando si muore
si diventa cibo per vermi. E nulla più. Non c’è niente, al di là della vita.”
“Parli così perché
sei addolorata.” Ha provato a suggerire.
Un’unghia si è
sfaldata, a contatto con una scheggia di legno troppo dura. “Se Dio esiste,
perché fa accadere tante cose brutte alla gente che non se lo merita?”
“Perché Dio ci
mette alla prova…”
“… Se mette alla
prova i suoi figli con dei giochi tanto crudeli, allora non è proprio un padre
da ammirare. E’ un gran bastardo e basta.” Il prete si fa il segno della croce
più volte, mentre mi alzo e lascio la chiesa dalla navata principale senza
voltarmi.
I becchini stavano
finendo la tumulazione, ma non sono rimasta a guardare oltre, se c’era ancora
mio padre o mia sorella. Ho attraversato il sagrato della chiesa senza rendermi
conto che pioveva a dirotto e non avevo né un ombrello né un cappello per
proteggermi dalla pioggia. Incamminandomi a testa bassa per la strada,
inzuppandomi d’acqua, mi sono soffermata un istante davanti alla vetrina di un
negozio, rendendomi conto che era la prima volta, dopo due giorni, che fissavo
il mio riflesso. C’era ancora qualche traccia del trucco da strega, ombre
attorno agli occhi e qualche traccia del cerone sbiancante su una guancia. Con
i capelli fradici appiccicati alla testa e il cappotto, quello di mia madre,
più abbondante sulle spalle e più lungo sulle maniche, la mia immagine nel
riflesso della vetrina mostrava un’Anna totalmente diversa da quella che
rifletteva di solito. Sembravo più un pulcino abbandonato e bagnato, che una
ragazza che giocava a fare la spavalda con tutti.
E mentre pensavo
che sarebbe stato bello abbandonarsi nel Liffey e
farsi trascinare sino al mare, ecco che un’auto grigia si fermava dietro di me.
L’auto di P.B. “Tuo padre ti cercava. Dai, Sali. Ti
do uno strappo a casa.”
Salgo sulla
macchina ed improvvisamente mi viene in mente che a casa ci sono ancora tutte
le cose di mamma, e Nina che è indifferente a tutto, e papà che sbuffa e non
riesce a dirmi niente per consolarmi. “Non ho voglia di andare a casa”
bisbiglio, dirigendo l’aria calda verso di me. “Portami dove ti pare.”
Aggiungo, non importandomi realmente di dove volesse portarmi o di cosa volesse
farmi. Qualsiasi cosa, pur di non restare in un angolo in balia degli eventi.
L’auto grigia
percorre le strade di Dublino ad una certa velocità, verso il porto. Ci
fermiamo in un vicolo cieco, tra le mura di due grossi capannoni in disuso. Lui
fruga in una borsa nel sedile dietro e trova una bottiglia di Whiskey, che mi
porge. “Dai, fatti un goccetto, Anna, questa ti tira su e ti farà smettere di
rabbrividire come un pulcino.”
Senza farmelo dire
due volte prendo una grande sorsata di liquore dalla bottiglia. E’ dannatamente
forte e mi fa tossire. Mi infiamma la gola e lo stomaco. P. ride. “Me lo
distilla un mio amico.” Spiega. Poi ne beve un sorso anche lui. “Deve essere
stata dura per te quello che hai visto.” Annuisco, lo sguardo perso sui mattoni
delle costruzioni che ci circondano. “A papà e Nina non dispiace quello che è
successo.” Mormoro, chiedendo un altro sorso di whiskey.
“Oh… non è cosi, Annie. E’ che tra tuo padre e tua madre… beh, era da tempo che non correvano proprio rapporti
pacifici, giusto?”
“Spesso speravo che
arrivasse il divorzio anche qui in Irlanda. Così almeno avrebbero smesso di
litigare. Me li ricordo sempre ad urlarsi dietro qualsiasi insulto possibile.”
“Eh, piccola Anna.
Con quei colletti bianchi che spadroneggiano su quest’isola, il divorzio lo vedo
come una cosa molto lontana. Ma d’altronde, ora non ce ne è più bisogno. In
ogni caso, sono sicura che tua sorella ci stia male quanto te, è solo che è… diversa, ecco. E non riesce a dimostrarlo.”
“Mia sorella non
prova sentimenti. Altrimenti non sarebbe un’ass..”
P. mi mette un
dito davanti alla bocca. “Non dirlo, piccola, non dire mai quello che facciamo
davvero. E’ pericoloso. Diciamo che non sarebbe in affari con papà, giusto?”
Annuisco. “Tu sai
perché papà non mi ha mai insegnato nulla?”
Ci pensa un
attimo, beve un altro sorso: “Potrei dirti un sacco di fandonie, cara, ma non
credo che tu ne abbia bisogno. Potrei raccontarti che noi possiamo avere un
solo allievo per volta, ma non è così. Diciamo che…
tuo padre sostiene che Nina abbia la freddezza necessaria per…
portare a termine gli affari e tu no. Con questo non voglio dire che tu non
abbia altre capacità.” Conclude la sua spiegazione con una mano sulla mia
guancia. Per un attimo sembra una carezza. “Sono sicuro, Anna, che anche tu
possa trovare la tua strada.” Mi illudo che sia compassione, quella che leggo
sul suo viso. Poi però spazza via ogni dubbio premendo la sua bocca sulla mia.
Resto ferma come una scema, non mi ritraggo, forse non voglio neppure farlo.
Penso che, in fondo, P. sia stato l’unico carino con me, l’unico che si sia
preso la briga di tentare di consolarmi, di prestarmi attenzione e quindi,
qualcosa indietro da me può pur chiederlo.
Le sue mani si
fanno strada sulle mie gambe e sotto l’impermeabile, finché un rumore contro un
bidone della spazzatura non ci fa sussultare. P. Si stacca e si guarda intorno.
“Ah, è un gatto.” Biascica.
“Ora… se non ti spiace… vorrei tornare a casa.” Mormoro, sicura che
ignorerà le mie parole. Invece mi guarda un attimo e poi annuisce. “A patto che…”
“Stai tranquillo.
Mio padre non mi crederebbe neppure. Non ho intenzione di dirglielo.” E’ quello
che credo davvero. Lui mi fissa per un po’, una sua mano sempre sul mio
ginocchio, prima di ritrarsi e accendere l’auto.
Mamma
mia quanto tempo ho fatto passare dall’ultimo aggiornamento!!! Mi vergogno,
davvero, anche perché mi rendo conto che questa storia sta iniziando davvero ad
essere più che noiosa.
Certo
che in questa sezione il mortorio è assicurato! Ma dove sono finte tutte?
C’erano così tante belle storie iniziate… e poi
lasciate a metà…. T.T
E
tu, MissTrent… non mi dovevi forse qualcosa??? Grr
Allora:
piccola nota.
Il
divorzio in Irlanda è diventato legge solo nel 1995, prima non esisteva, per
colpa della tradizione cattolica che, in Irlanda è molto presente.
Grazie
per le recensioni ragazzuole!!!Alla prossima
EC