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Autore: Evilcassy    12/11/2010    4 recensioni
"Regalare un diario a me per Natale significa non conoscermi bene. Avrei preferito un vestito, una collanina, un paio di scarpe. Invece mi è arrivato un diario, da mio padre. Scommetto che l’ha preso all’ultimo minuto, come sempre. Ho abbozzato un sorriso ringraziandolo comunque. E non è neppure un affare piccolo. Potrei trascriverci tutta la bibliografia di Joyce" Anna Williams, attraverso il suo diario, racconta la sua adolescenza e quella della sorella Nina, Dalla Dublino degli anni '80 al laboratorio di Criogenesi del Dottor Boskonovitch, attraverso la loro rivalità e i primi due tornei di Tekken.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anna Williams, Nina Williams
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Diary of a Scarlet Queen.

 

 

3^ PARTE: BACK TO DUBLIN

 

Chapter 5: September, October, November 1984

 

1 Settembre 1984

 

A Dublino l’autunno inizia presto, arriva all’improvviso in una mattina che sei a far compere con le tue amiche. Esci dal St. Stephen Mall e vedi che nel giardino le foglie sono tutte colorate. Il vento ti pizzica le gambe e il cielo è più bigio del solito.

Non ci sono più ragazzi che bighellonano in giro e la pioggia è più insistente.

Ma Dublino è bella, bellissima anche in questa stagione, anche se devi iniziare la scuola e proprio non ne hai voglia di passare il tuo tempo in mezzo a preti ed insegnanti bigotti che cercano di moralizzarti.

Anche se tua sorella ti sibila che te la farà pagare per averla rapata a zero e non vedi più tanto il tuo migliore amico che fa due lavori.

Dublino è splendida, Dublino è incantevole, Dublino è magica e piena di canzoni. C’è malinconia, speranza, voglia di rivalsa. C’è di tutto a Dublino e io la amo per questo.

Ma chissà perché allora, se la amo così tanto, non posso fare a meno di immaginarmi su un aereo a girare il mondo.

Perché non riesco a sognare di vivere a Londra o a New York, o viaggiare per l’Europa e il Sudamerica, nomade e libera in compagnia di Ronan.

Le mie contraddizioni non le capirò mai io stessa, figurarsi gli altri.

Comunque, a scanso di equivoci, posso confermare che a Ronan non piacciono proprio le ragazze. Ma non dice altro. E, con i tempi che corrono in questa nazione bigotta ed arretrata, non posso far altro che capirlo.

Ma un giorno correremo all’aeroporto ridendo, trascinandoci i nostri bagagli, e prenderemo un aereo al volo, come abbiamo fatto quando siamo tornati da Galway.

Chissà a chi faremo il medio.

Forse a Nina. Forse a mio padre. Forse al datore di lavoro di Ronan, schiavista ed alcolizzato.

 

 

10 Settembre 1984

E oggi è ricominciata la scuola.

Quest’anno la novità più esaltante è che non avrò Nina tra i piedi, dato che ha finito l’anno scorso. Oooh.. che dire, avrò il mio momento di relax quotidiano e sarò la reginetta indiscussa della scuola…

Altra nota positiva, anche Keith ha terminato la scuola, perciò non mi ritroverò quella sua faccia da stronzo davanti tutti i giorni. Chissà se lui e Nina si vedono ancora. Sinceramente, non ci tengo a scoprirlo.

Stamattina prima di uscire ho origliato una conversazione tra Nina e papà. Pare che anche Nina sia entrata nel Sindacato, e da come ho capito, ha passato l’estate a ricevere le ultime, utili lezioni da papà, proprio sul campo. Da come Papà ne parlava, era davvero molto orgoglioso di Nina. Se mi avesse accoltellato mi avrebbe fatto meno male. Ormai è chiaro che non potrò più conquistarlo, che per lui non potrò più essere qualcosa di più che l’altra figlia, quella che bighellona in casa facendo rumore con dei fastidiosissimi tacchi. Ma io che ho fatto di male? Perché mi ha tagliata fuori senza darmi alcuna possibilità di farmi valere? Mi ha sempre escluso da tutto a priori, senza sapere se fossi portata o meno per questa attività. Ma prima o poi Anna avrà la sua rivincita. Non so ancora come, ma presto o tardi sarà Nina quella a cui papà volterà le spalle.

 

 

18 Ottobre 1984

Stiamo cercando il nostro vestito di Halloween! Il ragazzo di Helen darà una festa a casa sua, e ci ha invitato tutti! Per l’occasione –incredibile a dirsi- verrà pure Ronan!

Non vedo l’ora, ho sempre adorato questa festa – nonostante gli inviti e i proclami delle nostre amatissime autorità scolastiche a non partecipare a questa’ barbara festa pagana’- ed è un’altra occasione in più per far baldoria!

Sabato mattina andremo in giro per mercatini a cercare qualcosa. Sono indecisa se travestirmi da strega o da vampira…

 

31 Ottobre 1984

Il costume da strega è sul letto: si tratta di un vestitino nero di pizzo, preso al mercatino e pagato una sciocchezza, a cui ho tagliuzzato un po’ la gonna. Il cappello a punta l’ho ornato con una striscia rossa alla base del cono, ed infine, tocco di classe: collant strappati in più punti e stivaletti neri con il tacco alto.

Ora baderò alla manicure, con un bello smalto viola scuro che farà pan-dan con il rossetto dello stesso colore.

Voglio essere perfetta stasera, ci sono un paio di ragazzi carini da conquistare…

 

01 Novembre 1984

E sono ancora qui, incredula davanti a delle pagine bianche che sento il bisogno di riempire di inchiostro, anche se non so da dove iniziare, né quali energie usare, dato che le mie mi sono scivolate via nell’arco di queste ultime ventiquattro ore.

Credo che dovrò iniziare dal principio.

Da quando, due ore dopo che ho scritto il mio ultimo aggiornamento su questo diario, mi sono preparata e truccata con cura. Mi sembrava davvero tutto perfetto: come avevo steso bene l’ombretto sugli occhi, il rossetto e lo smalto… Mi sono scattata anche un paio di foto con la polaroid, prima di infilarla nella borsetta per portarla con me alla festa. Erano le sei e mezza, e fuori faceva già buio.

Mia madre scende le scale con me, la sua borsetta chiara a tracolla: deve fare un po’ di spesa per domani, dato che i negozi sono chiusi per la festività dei morti. Commenta il mio trucco con un lieve sorriso: è evidente che si sforza di farmi piacere ad interessarsi a cose che per lei sono delle sciocchezze inutili.

Davanti al portone di casa ci salutiamo. “Stai attenta, torna presto”. Annuisco con noncuranza, sono le ultime parole che mi ha detto, ma io non lo so ancora.

E poi mi volto dall’altra parte. Pregusto di accendermi una sigaretta appena girato l’angolo. Un ragazzo che passa mi fa un complimento a cui rispondo con un sorriso. Di fianco a me passa un autobus, il 46 A, ma non sapevo ancora che fosse quello il numero.

Ed improvvisamente, sento alle mie spalle il rumore di una brusca frenata ed un rumore sordo. Mi volto, pensando di vedere uno dei tanti tamponamenti, ed invece per terra c’è una borsetta chiara, e l’autobus fermo, con il conducente che scende precipitosamente e si mette le mani nei capelli. La gente accorre, qualcuno urla di chiamare un’ambulanza. Io ci metto un po’ a realizzare che quello che ho davanti ai miei occhi è tutto vero. E mi metto a correre verso l’incidente. Inciampo nei tacchi, mi rialzo, vedo una vicina che era uscita dal portone venirmi incontro, dice qualche frase sconnessa e cerca di abbracciarmi, di fermarmi. La spingo via e porseguo. Questa volta non corro più. Non c’è più bisogno di correre.

Mia madre è riversa a terra, tra il marciapiede e la ruota dell’autobus.  Ha la faccia sul cemento, ed è coperta del sangue che esce copioso dalla sua testa e che inonda il marciapiede, la strada, scendendo con un rivolo macabro verso il tombino più vicino. La vicina è ancora alle mie spalle, mi abbraccia, mi tira via, io urlo, la spingo di nuovo lontano da me, faccio per lanciarmi su mia madre. La chiamo, la chiamo disperatamente mentre dell’altra gente mi ferma e le sirene dell’ambulanza si avvicinano.

La vicina mi ha riportato dentro dal portone. Suo marito sta prendendo la macchina e mi accompagneranno in ospedale, dicono. Io scivolo a terra, ho il fiato mozzo e non riesco a smettere di piangere.

“Dov’è tuo padre?” mi chiede la vicina. “E tua sorella?”

Singhiozzo che non lo so, che sono andati via ieri mattina e non so come contattarli.

 

Sono le 4 di mattina passate al St. James Hospital, quando mio padre e mia sorella entrano nel lungo corridoio che porta all’obitorio.

Il lungo corridoio bianco e grigio dove sono seduta da almeno sette ore. L’unico che è riuscito a contattarli è stato P.B. il collega di mio padre, l’unico che sapesse dove si trovava e che ho chiamato qualche ora dopo, quando sono riuscita a riprendere un po’ di lucidità e i vicini sono tornati a casa loro.

La prima cosa che fa mio padre è guardarmi e chiedermi cosa sia successo.

“La mamma è stata investita da un autobus” spiego. Non posso far nulla per non farmi tremare la voce. Guardo mia sorella, pallida come il muro dietro di lei, che deglutisce a malapena. “E’ morta sul colpo.” Aggiungo.

“Mi ha detto P. che eri li anche tu? Sai dirmi come è successo? Anna, è importante.” Papà si è chinato davanti di me, ha estratto un fazzoletto dalla tasca e me lo porge.

Gli racconto quello che ho visto, la frenata, l’autobus. Alcuni poliziotti prima sono venuti ad interrogarmi e mi hanno fatto delle domande, chiedendomi se ricordassi se l’autista fosse sbronzo o distratto. Racconto anche questo a mio padre. “Devi… devi fare il riconoscimento del corpo.” Balbetto, stringendomi in me stessa. “Io non ho potuto perché sono minorenne.” Papà annuisce, quasi mi abbraccia ed entra dalla porta nell’obitorio.

Nina passeggia su e giù per il corridoio. Poi si siede vicino a me. “Quindi hai visto tutto?” mi chiede, quasi morbosa. Annuisco, mentre i singhiozzi mi soffocano qualsiasi parola. Mia sorella sta zitta per qualche minuto. Si prende la fronte tra le mani. Non piange, non sembra neppure addolorata più di quel tanto. “Almeno non ha sofferto.” Dice solamente.

Vorrei urlare. Vorrei domandarle che razza di persona è a dire una cosa del genere davanti alla morte della propria madre, ma sto talmente male da non riuscire a proferire parola.

Papà esce dall’obitorio poco dopo, ha una busta in mano con degli effetti personali e ci dice che possiamo tornare a casa, che porterà lui, l’indomani, i vestiti per comporre il corpo per il funerale.

“Non è troppo presto?” chiedo con un filo di voce. Lui si siede vicino a me, mi prende la mano e cerca di assumere una voce il più rassicurante possibile. “Ormai per la mamma non c’è più nulla da fare. Forse non ti ricordi, ma anche quando è morto il nonno il funerale c’è stato due giorni dopo.”

Annuisco, anche se mi sembra comunque una forzatura e li seguo fuori dal corridoio. Vedo Nina che getta uno sguardo alle sue spalle, verso il reparto, ma quando papà le chiede se vuole vederla, lei scuote la testa e ci segue fuori.

E’ cosi, dunque. Mamma è morta. Investita, con la testa aperta in due sulla strada davanti a casa come la madre di Lolita.

Ed ora, in casa, c’è ancora più silenzio. E vuoto. E fa tutto talmente male da non riuscire quasi a respirare.

Fa male aver visto la mamma morire.

Fa male che papà non sia riuscito neppure a consolarmi.

Fa male che mia sorella non riesca neppure a dimostrare un briciolo di dolore, di tristezza.

Vorrei alzare la cornetta e parlare con Willow, o Helen o meglio ancora Ronan. Ma non riesco neppure ad avvicinarmi al telefono. E allora decido di buttarmi sul letto e di cercare di dormire. Magari questo è davvero tutto un brutto sogno.

 

02 Novembre 1984

Oggi ho dato l’addio a mia madre, e non mi sembra ancora vero quello che è successo. Mi sembrava che fosse tutto lontano da me: la preparazione, il funerale… mi sembrava di stare dentro ad una bolla e tutto il resto era fuori.

Dopo il funerale, mentre la bara veniva portata nel cimitero retrostante la chiesa per essere interrata, sono rimasta un attimo in chiesa. Prima di uscire Nina mi ha chiesto se venivo, ma papà le ha fatto segno di tacere. “Credo che abbia bisogno di rifletterci un po’ su” le ha sussurrato, come se la morte di mia madre fosse qualcosa a cui si poteva dare una soluzione dopo un attimo di riflessione.

Così sono rimasta seduta sul primo banco della chiesa. Non ho pregato, ne ho invocato nessuna divinità. Stavo solo li e pensavo a mia madre. A quanto fosse stata ingiusta la sua morte. A quanto fosse stato ingiusto tutto.

Il prete mi si è avvicinato, ha iniziato a blaterare cose sul paradiso e la vita eterna, sulla luce eterna e sulla redenzione, aggiungendo che doveva rincuorarmi il fatto che mia madre ora sarebbe stata alla presenza del Padre.

“Sa, padre.” Ho detto, senza guardarlo negli occhi. Grattavo via la vernice del banco, già rovinato, con le mie unghie ancora viola. “Tutto ciò non può rincuorarmi. Quello di cui parla, per me, sono solo una marea di stronzate.”

L’ho visto rimanere a bocca aperta e ho ricacciato indietro le lacrime. “Quando si muore si diventa cibo per vermi. E nulla più. Non c’è niente, al di là della vita.”

“Parli così perché sei addolorata.” Ha provato a suggerire.

Un’unghia si è sfaldata, a contatto con una scheggia di legno troppo dura. “Se Dio esiste, perché fa accadere tante cose brutte alla gente che non se lo merita?”

“Perché Dio ci mette alla prova…

“… Se mette alla prova i suoi figli con dei giochi tanto crudeli, allora non è proprio un padre da ammirare. E’ un gran bastardo e basta.” Il prete si fa il segno della croce più volte, mentre mi alzo e lascio la chiesa dalla navata principale senza voltarmi.

I becchini stavano finendo la tumulazione, ma non sono rimasta a guardare oltre, se c’era ancora mio padre o mia sorella. Ho attraversato il sagrato della chiesa senza rendermi conto che pioveva a dirotto e non avevo né un ombrello né un cappello per proteggermi dalla pioggia. Incamminandomi a testa bassa per la strada, inzuppandomi d’acqua, mi sono soffermata un istante davanti alla vetrina di un negozio, rendendomi conto che era la prima volta, dopo due giorni, che fissavo il mio riflesso. C’era ancora qualche traccia del trucco da strega, ombre attorno agli occhi e qualche traccia del cerone sbiancante su una guancia. Con i capelli fradici appiccicati alla testa e il cappotto, quello di mia madre, più abbondante sulle spalle e più lungo sulle maniche, la mia immagine nel riflesso della vetrina mostrava un’Anna totalmente diversa da quella che rifletteva di solito. Sembravo più un pulcino abbandonato e bagnato, che una ragazza che giocava a fare la spavalda con tutti.

E mentre pensavo che sarebbe stato bello abbandonarsi nel Liffey e farsi trascinare sino al mare, ecco che un’auto grigia si fermava dietro di me. L’auto di P.B. “Tuo padre ti cercava. Dai, Sali. Ti do uno strappo a casa.”

Salgo sulla macchina ed improvvisamente mi viene in mente che a casa ci sono ancora tutte le cose di mamma, e Nina che è indifferente a tutto, e papà che sbuffa e non riesce a dirmi niente per consolarmi. “Non ho voglia di andare a casa” bisbiglio, dirigendo l’aria calda verso di me. “Portami dove ti pare.” Aggiungo, non importandomi realmente di dove volesse portarmi o di cosa volesse farmi. Qualsiasi cosa, pur di non restare in un angolo in balia degli eventi.

L’auto grigia percorre le strade di Dublino ad una certa velocità, verso il porto. Ci fermiamo in un vicolo cieco, tra le mura di due grossi capannoni in disuso. Lui fruga in una borsa nel sedile dietro e trova una bottiglia di Whiskey, che mi porge. “Dai, fatti un goccetto, Anna, questa ti tira su e ti farà smettere di rabbrividire come un pulcino.”

Senza farmelo dire due volte prendo una grande sorsata di liquore dalla bottiglia. E’ dannatamente forte e mi fa tossire. Mi infiamma la gola e lo stomaco. P. ride. “Me lo distilla un mio amico.” Spiega. Poi ne beve un sorso anche lui. “Deve essere stata dura per te quello che hai visto.” Annuisco, lo sguardo perso sui mattoni delle costruzioni che ci circondano. “A papà e Nina non dispiace quello che è successo.” Mormoro, chiedendo un altro sorso di whiskey.

Oh… non è cosi, Annie. E’ che tra tuo padre e tua madre… beh, era da tempo che non correvano proprio rapporti pacifici, giusto?”

“Spesso speravo che arrivasse il divorzio anche qui in Irlanda. Così almeno avrebbero smesso di litigare. Me li ricordo sempre ad urlarsi dietro qualsiasi insulto possibile.”

“Eh, piccola Anna. Con quei colletti bianchi che spadroneggiano su quest’isola, il divorzio lo vedo come una cosa molto lontana. Ma d’altronde, ora non ce ne è più bisogno. In ogni caso, sono sicura che tua sorella ci stia male quanto te, è solo che è… diversa, ecco. E non riesce a dimostrarlo.”

“Mia sorella non prova sentimenti. Altrimenti non sarebbe un’ass..”

P. mi mette un dito davanti alla bocca. “Non dirlo, piccola, non dire mai quello che facciamo davvero. E’ pericoloso. Diciamo che non sarebbe in affari con papà, giusto?”

Annuisco. “Tu sai perché papà non mi ha mai insegnato nulla?”

Ci pensa un attimo, beve un altro sorso: “Potrei dirti un sacco di fandonie, cara, ma non credo che tu ne abbia bisogno. Potrei raccontarti che noi possiamo avere un solo allievo per volta, ma non è così. Diciamo che… tuo padre sostiene che Nina abbia la freddezza necessaria per… portare a termine gli affari e tu no. Con questo non voglio dire che tu non abbia altre capacità.” Conclude la sua spiegazione con una mano sulla mia guancia. Per un attimo sembra una carezza. “Sono sicuro, Anna, che anche tu possa trovare la tua strada.” Mi illudo che sia compassione, quella che leggo sul suo viso. Poi però spazza via ogni dubbio premendo la sua bocca sulla mia. Resto ferma come una scema, non mi ritraggo, forse non voglio neppure farlo. Penso che, in fondo, P. sia stato l’unico carino con me, l’unico che si sia preso la briga di tentare di consolarmi, di prestarmi attenzione e quindi, qualcosa indietro da me può pur chiederlo.

Le sue mani si fanno strada sulle mie gambe e sotto l’impermeabile, finché un rumore contro un bidone della spazzatura non ci fa sussultare. P. Si stacca e si guarda intorno. “Ah, è un gatto.” Biascica.

“Ora… se non ti spiace… vorrei tornare a casa.” Mormoro, sicura che ignorerà le mie parole. Invece mi guarda un attimo e poi annuisce. “A patto che…

“Stai tranquillo. Mio padre non mi crederebbe neppure. Non ho intenzione di dirglielo.” E’ quello che credo davvero. Lui mi fissa per un po’, una sua mano sempre sul mio ginocchio, prima di ritrarsi e accendere l’auto.

 

Mamma mia quanto tempo ho fatto passare dall’ultimo aggiornamento!!! Mi vergogno, davvero, anche perché mi rendo conto che questa storia sta iniziando davvero ad essere più che noiosa.

Certo che in questa sezione il mortorio è assicurato! Ma dove sono finte tutte? C’erano così tante belle storie iniziate… e poi lasciate a metà…. T.T

E tu, MissTrent… non mi dovevi forse qualcosa??? Grr

Allora: piccola nota.

Il divorzio in Irlanda è diventato legge solo nel 1995, prima non esisteva, per colpa della tradizione cattolica che, in Irlanda è molto presente.

Grazie per le recensioni ragazzuole!!!Alla prossima

EC

   
 
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