[471]
Matthew
Williams;
«Credevi che mi fossi dimenticato di te?
Anzi, di noi?»
Matthew alzò il mento con uno scatto e lasciò
perdere le sue mezze punte color carne, sfilacciate e lise; davanti a
lui c'era Francis in piedi, e teneva una mano appoggiata su un
fianco, il sopracciglio sollevato e l'espressione tipica di chi la sa
molto lunga. Aveva un abbigliamento sportivo, e ciononostante emanava
profumo di fiori e cannella che fece chiudere gli occhi a Matthew ed
inspirare a fondo, perché era quasi assuefante.
«A dire la
verità... Sì.»
Lui e Francis avevano un appuntamento quella
sera, una specie di appuntamento che poteva definirsi meglio come...
Un'uscita a cena tra amici. Matthew non ne era mai stato troppo
convinto (del fatto che fosse una semplice uscita tra amici e non
qualcosa in più) e infatti non aveva nemmeno speso tempo con
Alfred
per giustificarsi, e comunque Alfred era troppo preso da se stesso e
dalle nuove tecniche che escogitava per infastidire Arthur per
preoccuparsi di suo fratello. Il fatto era che aveva passato tutta la
vita a giustificarsi con lui, quindi era normale che ormai gliene
fosse completamente passata la voglia. Secondo la visione amorevole e
forse anche un poco campanilistica di una madre divorziata, Alfred
era il figlio perfetto, quello che non passava i pomeriggi davanti ai
videogiochi, ma preferiva leggere un libro seduto sulla veranda,
quello che non perdeva tempo a rompersi le ossa in sport come il
football (che per quanto la riguardava, poteva essere uno sport da
signori, ma a giocarlo erano spesso e volentieri gli animali), ma
preferiva una mazza da hockey e un paio di pattini per il ghiaccio.
Secondo l'opinione di Matthew, sicuramente meno cieca e molto
più
generale, sua madre aveva fatto un gran confusione addirittura tra i
suoi stessi figli, dato che Alfred aveva sempre il video games di
ultima generazione, prima ancora che uscisse in commercio a volte e
sempre Alfred era il quaterback della squadra di football al
liceo.
Alfred e Matthew erano stati abbastanza fortunati da
potersi vedere soltanto tre volte l'anno negli ultimi tre anni (uno
ballava a New York e l'altro a Toronto), e la cosa risultava
abbastanza positiva per entrambi, dato che l'uno credeva che l'altro
fosse una specie di eremita franco-canadese che passava le sue
giornate ad intagliare il legno e a piazzare tende nel bel mezzo
della foresta, mentre l'altro credeva di avere un fratello
egocentrico, indisciplinato e forse anche un po' stupido che sapeva
orientarsi solo e soltanto nella jungla newyorchese, che giudicava
addirittura un paradiso (col rombo della metropolitana che ti
stordisce, la puzza di fritto che ti arriva in faccia ogni qual volta
entri in qualche locale, le persone che camminano velocemente e non
si scusano se ti urtano per sbaglio e infine i taxi che, se non
attraversi la strada con la velocità di un ghepardo nel bel
mezzo di
un inseguimento, cominciano a strimpellare col clacson rischiando di
fracassarti un timpano).
Era quindi evidente che fossero due
fratelli un po' singolari, e forse un po' troppo diversi tra loro,
tanto che, se qualcuno li avesse visti con un sacchetto di carta in
testa, avrebbe faticato a crederli tali.
Il guaio infatti (forse
soltanto per Matthew) era la somiglianza. Ogni volta che si faceva la
barba aveva la strana abitudine di guardarsi negli occhi, piuttosto
che seguire il movimento del rasoio, per il semplice fatto che gli
veniva più naturale fissare quell'unica differenza che c'era
tra lui
e Alfred, invece che notare quanto i loro lineamenti fossero simili.
Matthew aveva gli occhi blu, di una sfumatura tendente al viola, che
gli attribuiva un'aria dolce e anche abbastanza ingenua (il che era
veramente nella sua natura) e che se ne stavano dietro un paio di
occhiali con la montatura ovale. Gli occhi di Alfred erano tutt'altro
e ogni qual volta venissero descritti, lui pregava di usare la
terminologia più adeguata, ossia un “azzurro-blu
tendente al verde
acqua, come il colore del cielo limpido che si staglia dietro la
Statua della Libertà illuminata dal sole di
mezzogiorno”. Anche
riguardo a questo Matthew aveva un'opinione discordante e molto meno
ridondante, secondo cui gli occhi di Alfred erano semplicemente di
“quell'azzurro che attribuiva alla sua faccia un'aria ancora
più
arrogante e scapestrata”. Ma questi erano soltanto pareri,
sia
chiaro.
La verità stava nel fatto che probabilmente, al momento
della nascita di ciascuno dei due, qualcosa era andato storto. Tanto
per cominciare, loro madre, nel partorire il primogenito, Alfred,
aveva avuto delle serie complicanze in sala parto. Il bambino era in
una posizione irregolare, l'angolazione era strana e il cordone
ombelicale gli avvolgeva il collo – per quanto la cosa fosse
stupida e di poco conto, Matthew la tenne per sempre a mente dal
giorno in cui gliela raccontarono, giustificando la
stupidità di suo
fratello col fatto che probabilmente da piccolo aveva subito (il suo
cervello in particolare) una grave carenza di ossigeno. Lui invece
era nato in auto, mentre la signora Williams, in preda alle
contrazioni, si faceva beffe di tutti i limiti di velocità e
andava
spedita verso l'ospedale, Alfred, seduto sul sedile posteriore della
macchina, non aveva ancora idea del futuro di ostetrica che lo stava
aspettando. Ovviamente la strana vicenda della nascita di Matthew
finì ben presto nel dimenticatoio, dando spazio ad una serie
di
altre strambe versioni secondo cui il bambino era nato ai confini del
Canada, nella vecchia tana di un'orsa dal collare, o in una tenda di
Apache (poco importava se a quel tempo, da circa duecento anni, non
ci fosse più la benché minima traccia di tende
degli Apache negli
interi Stati Uniti d'America).
Alle sei e trenta di quella sera,
Matthew se ne stava seduto sul pavimento, e ancora una volta nella
sua vita stava pensando a suo fratello. Evidentemente Francis scorse
un lampo di turbamento sulla sua faccia, o più semplicemente
reclamò
l'attenzione che era sicuro gli spettasse di diritto, e
tossì.
«Allora ci vediamo tra un paio d'ore?», chiese.
«Certo.
A dopo.»
«Non farmi aspettare», aggiunse Francis con un
sorriso.
Se ne andò accendendosi una sigaretta e reggendola tra
l'indice e il medio della mano sinistra, lanciandosi una tracolla
sulla spalla e scuotendo la testa e i capelli. Indossava una tuta blu
notte, di quelle strette da un elastico sui fianchi che cadono larghe
sui piedi, e copriva un paio di scarpette nere. Lanciò
un'ultima
occhiata a Matthew e sorrise.
In un certo senso era una persona
gentile, che Matthew paragonava a una specie di druido onnipresente
che conosce a memoria la storia della Rivoluzione Francese e che non
transige sulle abitudini alimentari, l'accento parigino di chi deve
parlare inglese controvoglia e i modi di fare gentili e riverenti.
Ovviamente sapeva essere anche scorbutico (con Arthur), poco
accondiscendente (con Arthur) e anche parecchio sboccato (sempre con
Arthur), ma Matthew non ci badava, anzi, lo trovava addirittura
buffo, ora che ci pensava e continuava a fissare la porta dietro la
quale Francis era sparito appena un secondo prima.
E in
quell'attimo di silenzio e concentrazione, fu addirittura sicuro di
sentire una voce familiare che sussurrava «Dio mio, ho un
modo di
uscire di scena assolutamente sublime!».
[619]
Arthur
Kirkland;
Arthur era chino da almeno tre ore su un
vecchio pezzo di carta che avrebbe potuto essere identificato come
spazzatura. Infatti si era ormai strappato lungo le pieghe, e
esattamente al centro c'era una grossa e circolare macchia di
caffè
risalente a quel pomeriggio stesso. Sopra c'era scritto da cima a
fondo con una calligrafia piccola e singolare, con parecchie
cancellature e altrettanti giri di parole inutili. Arthur l'esaminava
da cima a fondo, cercando di capirne il significato intrinseco che
ovviamente non esisteva e senza avere ancora la benché
minima idea
di come rispondere al misterioso mittente (sempre ammesso che non
fosse soltanto uno scherzo di cattivo gusto). Era una specie di
lettera scritta all'ultimo minuto e ingenuamente lasciata scivolare
sotto la porta della sua stanza, una lettera che era
contemporaneamente stupida, sgrammaticata, imbarazzante, strana, poco
pragmatica e piena di affettuosità e insensatezze fino alla
nausea.
Insomma, quel genere di lettera che qualunque Kirkland avrebbe
preferito dimenticare (o non aver mai ricevuto), ma che, a causa
dell'intelligenza acuta e alla macabra tendenza all'autolesionismo,
teneva a mente come se fosse stata imparata a memoria. Una di quelle
lettere talmente strane da meritare il privilegio di essere riportate
per intero:
forse “caro” non è la parola giusta, dato che non ho mai avuto l'impressione che tra noi ci fosse un'amicizia di sorta o qualcosa che andasse oltre il tuo strano attaccamento alle buone maniere...
Caro conoscente Arthur, che va decisamente meglio,
sono appena tornato in camera dopo un interminabile pomeriggio passato ad allenarmi e poi a fissare una ragazzina vestita di rosa che lancia sorrisi a destra e a manca, e adesso mi sento una persona molto cinica, il che sarebbe un atteggiamento molto alla te, ma ormai non ci faccio più caso, la tua presenza deleteria mi sconvolge e mi logora dall'interno, credo che tu abbia un virus e che io me lo sia beccato, in barba alle mie potentissime difese immunitarie.
Probabilmente ti starai chiedendo chi ti abbia scritto questa lettera, ma visto che sei convinto di sapere tutto e di conoscere anche il segreto del Santo Graal, la strada che porta al Nirvana e mille altre cose, capiscilo da solo.
In questo momento il compito che io decido di assumermi, dato che ho sempre un compito da assumermi, è quello di dedicarmi un po' a me stesso (cosa che non faccio mai) e riordinare un po' le mie idee lontano da tutte le distrazioni. Nel frattempo il telefono della camera sta squillando, ma almeno questo non mi infastidisce. Adoro quel vecchio telefono. In realtà adoro questo albergo intero, è come vivere in un'altra epoca, è un posto che sa di vecchio e questo un po' mi conforta, un po' mi ricorda la tua presenza costantemente (sai, per lo storia che è un posto che sa di vecchio).
Vorrei proprio vedere la tua faccia mentre leggi, perché credo sia la solita, esilarante faccia che hai ogni volta che vedi in giro la mia. Aggrotti le sopracciglia, quelle enormi sopracciglia che sembrano disegnate con un pennarello spesso almeno quanto un dito, e cominci a contrarre la mascella per darti un'aria da duro. Fidati, sembrano soltanto tentativi mal riusciti di arrotolare la lingua, cosa che io so fare benissimo. E so anche muovere le orecchie, per la cronaca.
Ad ogni modo, il motivo per cui ti scrivo è molto semplice, ma allo stesso tempo va al di là del motivo imprescindibile per cui non voglio dirtelo in faccia.
Tu mi piaci.
Purtroppo non mi piaci come mi piace il burro di arachidi o come mi piaceva il mio primo cane. Si chiamava Alban, ed era un bel cane da caccia con le zampe grosse e le orecchie penzoloni. Una volta ha vomitato sulla moquette del salotto, che da quel giorno ha una grossa macchia scolorita che a mio parere ha la forma di un hamburger. Purtroppo non mi piaci nemmeno come mi piacerebbe un amico che mi va a genio, dato che tu non sei un amico che mi va a genio, anzi, sei esattamente l'opposto. Facciamo l'assurdo esempio che l'amico che mi va a genio beva soltanto Coca Cola classica, quella che esiste da mille anni o giù di lì. Ecco, tu invece sei più un tipo da Coca Cola dietetica, e questo a me non va a genio per niente. Visto che però sei all'antica, e potresti non aver capito questo esempio, te ne farò un altro. L'amico che mi va a genio è difensore nella squadra di football migliore del New England. Mentre lui gioca, tu non guardi nemmeno la partita, perché stai giocando a golf. Capisci? Con me non si gioca a golf, il golf è roba da borghesi, da gente che beve Coca Cola dietetica...
Tuttavia potrei anche sbagliarmi, dato che ti conosco come si conoscono due persone che si incontrano in metropolitana e hanno soltanto il tempo di dirsi quanto fosse grande l'ultimo topo che hanno visto alla Stazione Centrale. Per questo motivo (e ovviamente per il motivo che ho citato sopra) voglio darti un'altra possibilità. Qualcuno potrebbe leggere in questa frase una sorta di velato, come si dice, “scarica barile”, nel senso che tu mi piaci e sono io a doverti dare un'altra chance, ma non è così, fidati. Voglio veramente che tu mi descriva quel topo che hai visto alla Stazione Centrale, voglio veramente avere una reale conversazione con te.
La verità è che mi stavo facendo la doccia, e un'assurda serie di coincidenze mi ha fatto capire che in qualche modo tu dovevi sapere quanto ti scrivo adesso (sempre che non lo sapessi già, dato che sai tutto). Il telefono squillava e produceva quel suono fantastico che solo lui sa emettere, alla tv c'era la pubblicità di una nuova catena di Fast Food, le signore delle pulizie mi avevano portato un rotolo di carta igienica nuovo di zecca, il che mi aveva messo di buon umore appena entrato in camera.
Ovviamente non mi aspetto che il tuo cuore si accenda di gioia leggendo, anzi, sono convinto che l'unica cosa che si accenderà dopo la lettura di questa lettera sarà il tuo piccolo e subdolo io da psicanalista freudiano [in realtà l'aggettivo “freudiano” era stato cancellato e corretto svariate volte, e nessuna delle versioni era scritta nella maniera giusta], nonché le capacità alla Holmes. Qui si chiama “CSI”, ma ho preferito citare un vecchio classico, una cosa che fosse più adatta alla tua veneranda età.
A dire il vero, prima o poi dovrai dirmi quanti anni hai. Quanti anni hai veramente, perché non ci credo che ne hai ventitré. Forse ne avevi ventitré una decina di anni fa. Ma comunque per me l'età non conta, sappilo, anzi, mi piacciono le persone mature e tu hai un qualcosa di paterno... Anzi, più che di paterno io direi di materno.
Ah, queste gocce che vedi sulle parole che ti scrivo... No, non sono lacrime, non ti illudere. Non ti schifare nemmeno, quando ti dirò che si tratta di sudore, perché ti ho scritto appena un minuto fa che sono appena uscito dalla doccia. Ad ogni modo, è sudore. Fa caldo, e io non posso farci niente, non riesco ancora a controllare i cambiamento climatici con la forza del pensiero, ma ci sto lavorando.
E ci tengo ad avvisarti anche (oltre alla questione sudore) che non mi aspetto nemmeno che tu ti metta a esplorare i più reconditi angoli del tuo cuore per me, per noi o per te stesso. Io so già che riuscirò nella mia impresa, ne sono sicuro quanto sono sicuro che alla fine Starbucks non chiuderà mai, anzi, vi surclasserà tutti.
Bene, adesso dovrei proprio smettere di scrivere, perché sta per terminare il foglio che ho a disposizione e perché la mia scialba carriera di aspirante amanuenso sta togliendo tempo a quella decisamente più promettente di ballerino.
Vorrei solo dirti, alla fine di tutto, e adesso che sai quello che dovevi sapere e che (questo lo so io) probabilmente non avresti mai voluto sapere (come al solito i miei tentativi di onniscenza sono ridicoli, ma tu più di tutti dovresti essermi grato, in questo giorno) che secondo la mia (quasi sempre giusta) opinione, tu dovresti prendere in considerazione quanto ho appena scritto. Non puoi tirarti indietro, e non puoi fare nemmeno l'eroe e salvarti dal guaio (di eroe ce n'è soltanto uno e, mi spiace, non sei tu), non sei nemmeno Gesù se è per questo. Anche di Gesù ce n'è soltanto uno, fortunatamente, e anche Gesù, sempre fortunatamente, non è te. Sfortunatamente però non è nemmeno me. Sono gentile, vero? Con questa frase puoi almeno depennare un nome dall'elenco dei sospettati per la tua lista di ipotetici ammiratori segreti.
Adesso puoi anche buttar via questa carta straccia, oppure rimuginarci sopra cercando di capire chi sia io – a quel punto sarò più che certo di interessarti, e tu sarai più che sicuro riguardo la mia identità. Quindi, da zoppo a zoppo, per favore, cerchiamo di non mentirci e apri gli occhi (magari da' una sistemata anche alle sopracciglia, così ci vedi meglio).
Con affetto.
Non c'era
nessuno in quel maledettissimo albergo che fosse mai stato tanto
abile con lui a parole, Arthur dovette ammettere che si sentiva quasi
superato. Aveva letto frasi che non si aspettava minimamente, da
nessuno, e si era accorto di qualche indizio lasciato qua e
là con
distrazione (forse) quasi come se si fosse trattato di nebbiolina.
Svariati riferimenti agli Stati Uniti, una eccessiva dose di
egocentrismo puro e alcuni errori grammaticali. Tuttavia continuava
comunque a dubitare che l'autore di quella malefica missiva potesse
essere Alfred, sia perché non era totalmente sicuro che una
persona
del genere potesse avere una vita sentimentale più
complicata della
vita sentimentale di un comodino, sia perché aveva
riscontrato nella
sua lettera una capacità lessicale disarmante, che poteva
appartenere soltanto ad un attento conoscitore della lingua inglese.
Sfortunatamente per Arthur, però, gli attenti conoscitori
della
lingua inglese, in quell'albergo, in quel momento, si limitavano
all'esiguo numero di due, uno dei quali, purtroppo, era egli stesso.
Arthur si sentì un po' come quando la maestra di danza, da
bambino,
lo rimproverava di pulirsi le scarpette prima di entrare in sala. Non
sapeva chi ci fosse lì dentro, ma in cuor suo era
più che certo che
ci fosse qualcuno per cui valesse la pena di pulirsi le scarpette, e
quindi eseguiva l'ordine.
Stessa cosa valeva per quella lettera.
Non sapeva chi fosse l'autore, ma in un certo senso immaginava che
valesse la pena scoprirlo.
Sembrava interminabile, scritta in
maniera fittissima e con una calligrafia che gli ricordava vagamente
quella di un bambino delle elementari, solo che riprodotta in scala
più piccola, faticava un po' a leggerla a quell'ora,
l'orologio
segnava lei sei e trenta, e fuori era quasi buio. Era chino di lato,
verso l'abat-jour, il foglio era poggiato sulle ginocchia piegate, e
lui se ne stava sdraiato a letto, strizzando gli occhi e
avvicinandosi, di tanto in tanto, la lettera alla faccia come per
assicurarsi che ci fosse veramente scritto quello che lui aveva
appena letto.
Il fatto era che non si aspettava che quel maledetto
sconosciuto fosse veramente tanto abile. Per quanto ne sapeva,
lì
dentro, soltanto Francis poteva essere capace di acrobazie verbali
tanto prodigiose (in campo amoroso) ma al tempo stesso dubitava
seriamente che Francis fosse il tipo da dichiararsi tramite una
lettera.
I suoi dubbi quindi, per quanto la cosa potesse
sembrargli assurda, incredibile, stupida e contemporaneamente
fantastica, ricadevano sempre sulla stessa, americana persona.
I
fatti parlano da sé, si dice, ma a volte nessuno di noi
è in grado
di interpretarli. Spesso parlano una lingua tanto più
volgare,
quanto più ci interessano personalmente, a volte sembrano
schiaffarci in faccia la realtà con una certa violenza. Ma
che i
fatti parlino da sé si dice soltanto, magari qua e
là c'è qualcuno
che nemmeno se ne accorge. A volte gli intrecci sono troppo
complicati da capire, a volte siamo noi stessi a renderli tali. I
fatti, ad ogni modo, spesso derivano da un miscuglio complessivo (e
anche un po' profano) di azioni.
E infine, il numero di cose che i
fatti dicono è direttamente proporzionale al numero di
conseguenze
che noi ne vogliamo dedurre.
[559] Antonio
Fernandez Carriedo;
«Che cosa vedi lì dentro,
Antonio?»
«Tulle, tantissimo tulle.»
«Non intendevo sullo
schermo, intendevo dire dentro lo schermo.»
«Ah... Che ne
so. Plasma?»
Francis sbuffò, e si passò una mano sulle tempie,
come se si trovasse nell'atrio di un asilo e stesse chiedendo ad uno
dei bambini che colore fosse il fiorellino giallo che c'era disegnato
sul muro. Il bambino rispose “blu”.
«Una visione profonda,
devi avere una visione profonda! Io vedo una ragazza che si impegna
con tutta se stessa e sprizza energia. La vedi la sua energia? Io la
vedo.»
«Io vedo solo che è fuori tempo.»
Il bambino fece un
secondo tentativo, e disse “rosso”.
Francis si diede
un'occhiata intorno, e poi calciò Antonio all'altezza delle
reni.
«Ehi, ma si può sapere che ti prende?!»
«Smettila di
abbrutirti, d'accordo? Smettila. Non è da te. Non puoi
abbrutirti di
colpo, non è un tuo diritto farlo.»
A quel punto, raccogliendo
l'onere che gli era appena stato affidato (che Antonio avrebbe quasi
sicuramente preferito descrivere come una zavorra) si alzò
in piedi
e guardò Francis negli occhi. Aveva voglia di dargli un
pugno, ma
non si trattava di quel genere di pugni che nei libri e nei film si
davano al nemico, era più un pugno da “migliore
amico”, uno di
quei pugni che ti faceva capire per sempre che qualcosa si era rotto,
dentro, e che lui era giù di morale.
Effettivamente se si
metteva a pensare sul serio alla sua vita nell'ultima settimana e la
tramutava un po' in un film riusciva quasi a vederci una lunga serie
di personaggi principali, un po' come quei telefilm che rifilavano
ogni santissimo giorno dall'America, in cui lui era un liceale con
problemi esistenziali, Francis era una specie di agile soubrette
tramontata, Gilbert era l'amico popolare che lo avrebbe quasi
sicuramente accusato, durante queste sue riflessioni, di avere un
cervello imperniato di fantasia, che doveva mettere i piedi per terra
e agire, un po' come faceva lui (ovviamente Gilbert, nel suo film,
continuava ad essere malmenato da una donna, e questo giusto
perché
Antonio voleva la sua piccola vendetta personale). E infine c'era
Lovino, la ragazza carina e riservata che si soffia sempre il naso in
classe.
«Senti», cominciò a fatica, come se
ciò che stesse per
dire risvegliasse in lui il tormento di una vita, «non sono
in vena,
dico davvero.»
«Dal mio illustre punto di vista, sappi che sono
sicuro che invece sarai in vena, dammi soltanto un minuto.»
A
quel punto Francis estrasse dalla tasca il suo telefono cellulare e
cominciò a picchiettare le dite sulla tastiera con la stessa
calma
che potevano avere quelle signore che sanno di dover aspettare almeno
due ore quando sono in fila dalla parrucchiera. Nel frattempo,
Antonio attendeva impaziente cosa stesse per dirgli – lui
aveva
l'assurda tendenza a fidarsi meccanicamente delle persone, come se in
lui ci fosse una specie di cromosoma benefico che gli impediva di
provare sentimenti come l'odio o l'indifferenza.
«Ecco,
guarda.»
Detto ciò Francis gli piazzò il cellulare a due
centimetri dalla faccia e Antonio impiegò un paio di
secondi, che
usò per sbattere ripetutamente le palpebre, prima di mettere
a fuoco
quello che c'era scritto sul display. La delusione amorosa aveva
causato una mancanza d'espressione sul suo volto (e anche i seri
dubbi sulle potenzialità di Francis, a dir la
verità) che lo faceva
sembrare come uno di quei passanti che per ammazzare il tempo mentre
camminano leggono quegli opuscoli inutili che distribuiscono per
strada o, sebbene fosse abbastanza triste come cosa, i necrologi.
«E
allora?», chiese infine, dopo una veloce ma attenta
analisi.
«Allora? Vorresti dirmi che non ti interessa?»
«Che
cosa dovrebbe interessarmi? Non si capisce nemmeno cosa ci sia
scritto.»
Francis roteò gli occhi con aria piuttosto teatrale
(era un attore nato, aveva anche la strana abitudine di parlare con
un tono di voce basso e di gesticolare muovendo soltanto le dita).
«Stavo parlando con Feliciano», spiegò,
come se adesso stesse
parlando con un ritardato mentale, «e in questo messaggio,
scritto
in tre diverse lingue per ragioni a me ignote, lui mi spiega che
Lovino resterà con te, dato che lui e Ludwig devono
uscire.»
Antonio
respirò adagio e osservò il sorriso di Francis.
In quel momento gli
sembrò la cosa più bella che potesse guardare, e
quindi concentrò
la sua attenzione su quel particolare per quasi un minuto. Quando
riprese coscienza di se stesso e di quello che stava accadendo,
sapeva già che cosa avrebbe fatto dopo.
«Ah, non so come tu lo
abbia convinto. Ah, tu fai i miracoli! Ti devo un favore, d'accordo?
Ricordamelo però, odio dovere i favori alla gente. Sei un
amico
Francis, ti devo un favore!», cominciò a dire.
Raccolse
velocemente la sua borsa, salutò Francis con la mano e corse
a farci
una doccia.
Ovviamente non seppe mai che fu Lovino stesso a
chiedere a Francis di poter fare da tramite tra lui ed Antonio, ma
questa era un'altra storia. Si sa, i fatti derivano da un miscuglio
complessivo (e un po' profano) di azioni.
Nel
frattempo Lili eseguì la sua ultima diagonale di pas de
basque, e si
fermò, salendo sulle punte e guardando tutta la giuria
dall'alto.
Con la fine della sua variazione finiva anche il mondo che si era
creata attorno, quello di una storia piena di inganni, intrighi e
intrecci, una storia fittissima, in cui le dichiarazioni non erano
mai esistite, in cui gli equivoci erano all'ordine del giorno e in
cui, nonostante tutto, c'era il lieto fine.
L'ultima
parte si riferisce alla trama della “Fille mal
Gardée” (la
Figlia Mal Custodita). =) Ho deciso di incentrare questo capitolo
più
sui protagonisti (che, ahimé, sono soltanto tre per
questioni di
lunghezza) che non sulla danza. In un certo senso credo sia meglio
così, oppure alternare, per non risultare noiosa e
ripetitiva,
giusto?
Ad ogni modo, la variazione che avevo scelto per Lili era
un'altra, per la precisione questa qui
Swanilda,
tratta da Coppelia. Ho
cambiato proprio alla fine, mentre scrivevo e mi rendevo conto che
anche con la trama ci stava meglio la seconda scelta! (E poi
è la
mia variazione femminile preferita, quindi...!)
Nel prossimo
capitolo però toccherà a un personaggio piuttosto
importante,
quindi vorrei di nuovo portare l'attenzione sul balletto. Si tratta
di questo
Flames
de Paris
(purtroppo non trovo un video decente, chiedo scusa D:), che secondo me
è praticamente perfetto, vista la
trama.
:P Secondo voi di chi si tratta? :P
Infine, grazie a chiunque
abbia recensito, letto o soltanto dato un'occhiata al titolo!
=)
A presto, baci! <3