Passengers
Title: “Passengers”
Author: mise_keith
Disclaimer: Harry Potter, e cosa ancor più spiacevole, Draco Malfoy e Ginny
Weasley appartengono a Colei-Che-Ha-Avuto-L’Illuminazione,
conosciuta anche come J.K.Rowling, ed io non ho alcuna intenzione di farli miei (parlando del primo), né,
purtroppo, ne ho la possibilità (parlando dei secondi).
Beta-reader:
Thilwen (e chi altro?)
Characters: Draco Malfoy,
Ginny Weasley.
Rating: PG
Notes: One-shot ispirata a “Le Passanti”, di De Andrè, canzone stupenda tratta dall’album “Canzoni”, di cui
purtroppo è rimasto ben poco qui se non un’evidente e nostalgica atmosfera. Ho
riscritto questa fanfiction più volte, non ho ancora
ottenuto il risultato sperato, non lo otterrò più. La
pubblico così com’è, sperando almeno di comunicare una minima parte di
ciò che avrei voluto: sarebbe comunque una vittoria.
Draco probabilmente è un po’ Out-of-Character, forse decisamente,
ma è il Draco che immagino nelle situazioni che vive qui. Credo sia ovvio ammettere come il tempo ci cambi.
Anche qui si ripete il mio “teorema della necessità”, anche
se con una sfumatura diversa da quella che ho lasciato trapelare in “Danae’s Truth”. So di essere ripetitiva, spero di non esserlo troppo, ma è
impossibile per me scrivere senza mettere un po’ della mia sociologia da
quattro soldi. Perdono.
Ringraziamenti:
A Chiara (Thilwen) che mi sostiene anche da lontano,
con il suo affetto, la sua dolcezza, la sua grande amicizia,
e a cui questa fanfiction va dedicata, con tutto il
cuore, per quanto possa valere.
A De Andrè,
alla sua poesia, alla sua immaginazione. A Jorge Amado, al suo Vadinho (precursore latino del Draco rubacuori), e a Dona Flor, la Ginny bruna che non sa decidersi, con il cuore
diviso a metà. Agli Inti-Illimani e alla loro “Carta
Al Che”, sottofondo delle mie parole e delle mie
passioni.
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Non so che sentimento sia il
puntello duro e appuntito che sento scavarmi dentro,
non so nemmeno se sia reale: una vaga
ma naturale angoscia, o una più spietata e gelida indifferenza.
Forse per me stesso.
All’improvviso mi rendo conto di quanto la polvere possa
avere un proprio destino, di quanto persino questo sia più importante del mio.
Lo percepisco nella crudele
nudità di queste pianure. Nessun inverno è mai stato tanto rigido ai miei occhi
ed al mio cuore: Hogwarts è stata per me un filtro più potente di quanto non
avessi mai immaginato.
O probabilmente, novello Napoleone, faccio finalmente i
conti con l’infrangersi dell’uomo contro una natura spigolosa e arcigna, come
può esserla solo quella dei racconti di mondi lontani dalla civiltà, o
semplicemente più vicini alla realtà della storia stessa; di certo lontana
dalla mia quotidianità racchiusa fra manieri medievali.
La campagna russa è priva di
qualsiasi umanità. È vasta, enorme, vestita di soli rimpianti, di sofferenza
sotto al ghiaccio nero e spesso, sudata di sangue. Lo si scorge nei rari occhi sepolti sotto alle rughe, che
attraversano le strade gelide e taglienti, ancora sterrate, come se il resto
del mondo sia rimasto in un punto imprecisato del mio passato e della mia
memoria.
C’è sofferenza in quegli
occhi, e il retrogusto dolciastro della rassegnazione. E c’è anche vita, come
non avrei mai potuto immaginarla.
L’unica cosa che non vi vedo è la solitudine.
Il paesaggio fuori dai finestrini si ferma improvvisamente, così come i
sobbalzi, il rollio delle ruote e il regolare, quasi conciliante, rumore degli
zoccoli dei cavalli.
Sento i muscoli intorpiditi
dal freddo e dalla mancanza di movimento.
Qualcuno bussa al vetro
accanto a me, e una voce ovattata penetra attraverso i miei pensieri col suo
spiccato e cantilenante accento slavo.
- Signor Malfoy?
Mi lascio sfuggire un ultimo opaco sbuffo di condensa entrando ed abbandonandomi
su una panca.
L’interno della stazione di
posta è tiepido e pulito; un sollievo, dopo l’aria gelida ed irrespirabile di
fuori. Il locale è vuoto, come di consueto. Nessuno percorre queste lande
quando la natura e dio si riposano, sotto la neve ed oltre le nuvole. Anche d’estate, il silenzio è il principale abitante delle
strade seccate dalla siccità, disegni infiniti che attraversano questo mondo
marginale.
Mi sfilo i guanti di pelle di
drago e soffio sulle dita intirizzite e piene di geloni.
Questo è l’ultimo di questi
stanzini accoglienti che vedrò. Non che mi mancherà questa sconfinata,
chilometrica e scomoda distanza, forse le fiamme crepitanti nel camino: amara,
lieve nostalgia.
Domani arriverò a Pietroburgo, dove il mio accompagnatore continuerà a
trascinare i propri giorni nel limbo degli scarrozzatori,
ed io nella folle attesa del viaggio, su un treno sgangherato con vista sugli
invernali villaggi fantasma di questo paese inesistente, sul bianco desolato,
fino al capolinea ai confini del mondo, del mio mondo, che i miei piedi
varcheranno per entrare nel territorio dei giganti.
Dal mio angolo privilegiato
la scena degli addii ha un sapore cinematografico. Ricche signore in boa di
pelliccia e contadine sdentate, tutte donne, ed occhi di donne anche sul treno,
che scintillano spalancati come neri scarafaggi sui
visi di zingara o pallidi ed opachi, aristocratici, sfuggenti.
Riempio la mia attesa della vita altrui, e nella mia ricca immaginazione tocco
fianchi e sfioro labbra di tutte quelle esistenze a portata di mano. Cerco
sorrisi su quelle bocche malinconiche, che tornano dalla rassicurante tristezza
dell’abbandono all’incerto destino che giorno per giorno spinge ad occhi
bendati sul ciglio del precipizio. Sempre così, ed è difficile sfuggire. No?
I vagoni colmi di vite e di
vuoti partono sferragliando al seguito della locomotiva, verso la mia sinistra,
ovest, speranzoso più che altro per il nome e per convenzione. Me ne accorgo giorno per giorno.
Aspiro per l’ultima volta
dalla mia sigaretta, rassicurante e necessaria, getto
via la cicca, in una piccola pozza di cenere ai miei piedi. Spengo con un piede
le ultime braci.
Il treno è già lontano, si
perde contro l’orizzonte luminoso e decadente, tramonto, come ogni giorno, come
ogni cielo in qualunque parte del mondo, nuvole sfilacciate
e colori caldi sulla tavolozza, troppo lontani per poterne usufruire. Eh, già.
La banchina è ormai vuota.
Qualcuno si attarda a guardare il sole grande e rosso, mormorando, o in qualche
silenzio troppo pesante anche solo per essere rotto. Non c’è ansia di liberarsi
della nostalgia, o a volte ve n’è troppa; passare da un sentimento all’altro
pur di ovviare al dolore sembra la scelta più semplice.
Io lo allontano assieme a
quegli occhi, che sfiorano per un attimo la mia figura ammantata nel buio,
stessa impassibilità, stessa angoscia.
Non smetto mai di stupirmi di
quanto noi esseri umani riusciamo ad essere simili.
Il tocco di una mano sulla
mia spalla mi ridesta. L’uomo che mi strappa dai miei pensieri ha il viso ampio
e la fronte corrugata o forse riempita di rughe dalle troppe cure, dalla pelle
chiara, ma con due occhi bui ed impenetrabili.
- Signor Malfoy. – ed un cenno.
Probabilmente i miei contatti
non sanno davvero altro in inglese che la pronuncia stentata del mio nome, lo
rivela l’incerta pacatezza delle loro labbra; ma la fermezza dei gesti di
chiunque abbia incontrato svela delle istruzioni ricevute sul come trattarmi.
Mi chiedo se conoscano, e vogliano sapere, solamente
l’ufficialità del giovane rampollo Malfoy in verifica delle proprie non troppo
lontane origini russe, e contemporaneamente non trattengo una punta di stupore
nello scoprire le infinite risorse dell’Oscuro Signore, anche in un paese tanto
lontano (in tutti i sensi).
Ma in fondo non mi sono mai fatto molte domande.
Mio padre ha sempre avuto una
certa predisposizione se non a richiedere, a
impadronirsi degli incarichi di potere. Io ho seguito le sue orme con la pura
ambizione della necessità, o semplicemente per forza d’inerzia. Non mi sono mai
posto nemmeno questa questione.
Fermo i miei
passi dietro ai suoi, in una parte della stazione semi-abbandonata. Abbiamo camminato poco, ma già il
buio scende su di noi e cala le cortine della notte, portando con sé una
nebbia leggera ed umidiccia.
L’uomo indica con un altro
cenno un treno d’altri tempi, davanti a noi, vagoni piccoli, sbilenchi, da
leggende contadine. Trattengo un sospiro.
Salgo sulla scaletta e quindi
sul vagone indicato dal mio taciturno complice senza voltarmi, badando appena
ai miei passi.
Gli scompartimenti sembrano,
e sono convinto che siano, completamente vuoti, e nel corridoio aleggia un vago
sentore di ammuffito.
Faccio scorrere la porta più
vicina e mi abbandono sul sedile consumato, i bozzi sporgenti segnalano il
tentativo delle molle di schizzare via.
Sono stanco. Di Pietroburgo ho visto solo i sobborghi, bassi, docili e
smorti, come quelli di ogni grande città che si
rispetti.
Mi sono scoperto a pensare a
Londra con nostalgia. A Diagon Alley, calda e affollata per gli acquisti scolastici, con
mio padre, con mia madre, in tempi lontani e tranquilli sorvegliati dallo
spettro di un’infanzia che mi costringevo a rifiutare. Pensieri che non dovrebbero sfiorare un normale mago diciannovenne.
Un normale mago diciannovenne
a cui fosse stato permesso fare una vita normale e inglese.
Ma chi è che ha una vita normale, oggigiorno? Ognuno
trincerato dietro alle proprie posizioni, ai propri ideali. O
forse obbligato a farlo dietro a quelli attribuitigli dall’abitudine.
Ma quale Draco parla adesso dietro alle sue labbra
serrate e gli occhi socchiusi dalla spossatezza?
Dietro ai soporiferi
strascichi di nebbia che penetrano dal finestrino socchiuso fin sotto alle vesti e dentro alle membra...
C’è luce adesso. Forse è
stata questa a svegliarmi, in generosi fasci sotto alle mie
palpebre e nell’aria fresca del mattino.
O forse l’improvviso frastuono delle ruote arrugginite
in corsa sulle rotaie, perché il sole che si accinge a sovrastare la campagna
danza nel cielo sul paesaggio sfuggente ma immobile e innevato.
Quando i miei occhi si
abituano alla mancanza di oscurità come a quella del
dolce tepore soffuso dei sogni mi accorgo degli occhi che mi fissano
incuriositi, e cercano i miei.
È una vecchia, dallo sguardo
placido e sereno con cui il tempo maschera il dolore, e che stringe al petto
generoso una gallina addormentata. Occhi bruni, bianco e grigio sulla pelle
cascante ma scura, vivacità da nomade., infagottata in
più scialli, smaglianti quanto la sua pace.
Le sorrido, perché è donna, e
so che le è dovuto e necessario quanto lo è per me
liberarmi della spontaneità di questo gesto. Rara. Ma
mi sento in dovere di ricambiare la dolcezza di quello sguardo.
Sorride anche lei, e sposta
la sua attenzione sul mondo di fuori, che avrebbe bisogno di un po’ di quel
calore. Il sole è grato e generoso, ma debole; quanto ogni buona
intenzione.
A casa, anche il volto di mia
madre, donna anche lei, ha cominciato a raggrinzirsi per via dell’abitudine
alla serietà, penso.
Compostezza docile e bionda, piacere, Narcissa Malfoy.
È quando la rimembro così,
nelle nostre intimità, che mi manca. Mi mancano i suoi sorrisi, due in tutto, gli unici
che probabilmente abbia mai elargito, perché non credo che la rigidezza di mio
padre e di quel matrimonio d’interessi gliene abbia strappati altri.
Ho ricevuto il primo poco prima
che la lasciassi per Hogwarts, caramella o premio di consolazione, unica
dolcezza gratuita, stretta dentro al petto.
L’altro
quando sono tornato dal mio settimo anno. Forse l’unica cosa che mi abbia permesso di chiamare felice
l’abbandono della vita protetta della mia adolescenza.
Quando mio padre è morto non ha parlato. Non credo fosse felice. Non credo fosse
triste. S’impara ad accettare serenamente l’assenza delle cose di cui abbiamo
sempre fatto a meno.
Il primo segno di quella
maturità già incombente è arrivato alla vista dell’ampio segno nero sul mio
avambraccio. Una piccola piega all’angolo destro della bocca, stavolta
permanente.
Davanti a me non ha mai
pianto. Davanti a mio padre, credo nemmeno. Ha dovuto imparare presto il metodo
di sopravvivenza di casa Malfoy. Come me, come tutti. Distacco, indifferenza,
aristocratico egoismo, sempre.
Ma anche l’egoismo arriva a
pesare quando ci si appropria della dolcezza
necessaria alla sopravvivenza.
E ora il peso delle conseguenze del sentimento si è
lasciato andare anche sulle sue spalle.
I suoi occhi erano lucidi
quando l’ho salutata. Mi ha lasciato a malincuore con un gesto spossato delle
dita.
La porta a vetri smerigliati
dello scompartimento si schiude, il fragore silenzioso di
un’altra vita riempie lo spazio inscatolato. Un uomo alto, imponente,
chiaro e severo mi si siede accanto.
Ed ora a riempire l’aria è il risucchio della serenità
che fugge via dal finestrino.
Il viaggio è lungo, e con
poche soste, quante gli sparuti paesini che costellano questo
est sconfinato. Gli occhi e l’attenzione della famiglia che occupa i
sedili di fronte ai miei sono per il pavimento o per
il soffitto. Ognuno è silenzioso è rinchiuso nella ripida fortezza dei propri
pensieri, o almeno per me che fisso e lascio scivolare l’altrui in calmo
silenzio.
Ho le gambe doloranti per il
poco movimento, mi accorgo con un smorfia, mentre mi
sollevo e lascio i miei vicini a ponderare sulla scala delle loro importanze,
attraversando l’uscio e chiudendolo dietro di me assieme alla carica quiete
dello scompartimento.
Non credo ci sia molto da
camminare attraverso il corridoio striminzito ed ingrigito, ma del resto uno
dei pochi svaghi concessi al viaggiatore è
l’esplorazione.
Esplorazione e osservazione
dell’umanità che deborda da dietro alle porte chiuse, ferma ma viva, palpabile. È la visione di questa a portata di braccio, dei sentimenti uniformi e contrastanti che
popolano l’uomo in genere a farmi dimenticare la mia solitudine.
Non specificatamente inerente
alla mia missione, in realtà. Lo so che è colpa mia. Non m’interessa. È il
destino di chi cerca la sopravvivenza senza compromessi. Di
chi fugge e ama farlo, per non affrontare più che ciò che lo circonda, se
stesso. Me stesso. Il peso delle azioni che ho
compiuto trascinandomi.
Non so quanti vantaggi vi siano nel riconoscersi colpevoli. A volte preferirei avere
il fatalismo tipico dell’ingenuità, un’idea da perseguire o almeno a cui
rinunciare. Una ragione di abnegazione. Qualcosa che
mi strappi dalla condanna a questo universo senza
passioni, se non la vita e l’uomo stesso.
Ma mi chiedo cosa mi rimanga a parte il mero interesse
sociologico.
Questo è
l’ultimo vagone, penso, calcando i passi nel tentativo di dare più
spessore all’insignificante. Faccio per tornare indietro, quando l’acuto
fischio che annuncia una fermata del treno mi blocca dopo un lieve capogiro.
No, probabilmente il mio scompartimento si riempirà, essendo uno dei primi. Ed io sento di aver bisogno di pace. Non ne vale la pena.
Mi accosto allo
scompartimento alla mia sinistra. Sembra vuoto e, soprattutto, silenzioso.
Spingo la porta scorrevole e sbircio dentro, per assicurarmi della veridicità
delle mie supposizioni.
Resto
perplesso per un attimo scrutandomi attorno, finché non individuo la causa
della mia inquietudine. Che mi spiazza. E mi lascia senza
fiato per qualche secondo.
C’è qualcuno dentro.
Rannicchiato ed infagottato in un mantello nero sull’ultimo sedile, un viso
roseo e cosparso di efelidi, ciglia ramate, una
cascata sanguinante sulla macchia scura.
Il suo capo reclinato sulla
spalla ha un che di familiare, d’infanzia, di sapori dimenticati. Chiudo la
porta dietro di me, con uno scatto, perché mi sento a disagio, e so che non mi
piacerebbe essere sorpreso dagli occhi incuriositi di qualche avventore in
cerca di posto a sedere. La sottile angoscia che mi serpeggia nello stomaco mi
dice che non mi piace neanche l’essermi lasciato sorprendere da me stesso.
Non c’è bisogno che mi sforzi
di ricordare quel volto e ciò che esso porta e può portare con sé, come sto
fingendo di fare adesso, per rendermi meno biasimevole di fronte al Draco
Malfoy che avevo dimenticato. Anche se ho la
tentazione di recuperare da qualche parte quel sorrisetto
sprezzante che tanto amavo di me.
Ma in fondo a che serve? La Weasley, proprio lei, la
stracciona, Lenticchia junior junior junior, l’ammiratrice numero uno
di Potter, parente, amica, aspirante ragazza delle mie nemesi, adesso dorme
immersa in chissà quale sonno da ragazzina sognatrice, non potrebbe vedermi,
non può spaventarsi, fatica sprecata per il mio antico orgoglio.
Un alito di vita le sfugge
spontaneo dalle labbra socchiuse, vermiglie e spesse. Non oso chiedermi cosa ci
faccia qui. Non oso rispondermi. È evidente che anche l’Ordine abbia scoperto
degli ultimi giganti ribelli che indecisi cercano un motivo per lasciare le
montagne. È evidente quanto il loro aiuto sia
importante sia per noi che per loro. È evidente il motivo per
cui il Signore Oscuro abbia scelto me, privo di qualsiasi ragione né
intenzionato a cercarla per rifiutare, per questa delicatissima missione. È
meno evidente del perché fra tutti i coraggiosi/orgogliosi grifondoro del “gruppo
dei buoni” sia stata mandata proprio la Weasley a morire lontana da casa.
Sola. E
donna, mi viene da pensare. Come mia madre, e come la vecchia di prima, e le
bambine scure che giocano negli scompartimenti a pochi passi da qui, allegre,
impenitenti, smaliziate e gioiose. Sotto la cortina
rossa dei suoi capelli, del resto, anche lei ha un broncio da bimba, quasi da
bambola nel suo candore delicato e in quelle lentiggini tanto dense quanto
sembrano fittizie.
Mi abbandono sul sedile di
fronte al suo, a pochi centimetri dalle sue gambe scomposte dal sonno.
E mi ritrovo a rimpiangere il tempo in cui ciò che
facevo aveva per me un valore, come per gli altri, e in cui la Weasley si
rintanava nell’ombra di Potter con tutte le sue fattezze minute di bambina.
Ripenso con nostalgia, più
che ad Hogwarts, a tutto ciò che essa comportava. Ciò
che avevo ed ero allora. Il valore che ciò che mi circondava aveva ai miei occhi. La
sicurezza imprescindibile delle mie certezze, che credevo nessuno avrebbe mai
potuto strapparmi. Beh, è stato così, in fondo.
Ciò che c’è riuscito è stato
il tempo, e gli eventi che ha portato. E non so cosa
darei per riavere la dolce abitudine garantitami dalla mia innocenza.
Ecco ciò che mi è stato
strappato.
Lei si agita nel suo angolo
ristretto, la fronte corrugata, appena un gemito. Strizza le palpebre, ed apre
gli occhi.
Apre gli occhi.
Credo sia solo in quel
momento che mi accorgo di ciò che ho pensato finora. Quando il suo sguardo sperduto ma evidentemente
basito si posa su di me. E penso che sia solo adesso che realizzi
pienamente che anche volendo non riuscirei più ad essere quello di una volta,
non dopo ciò che ho scoperto di non essere mai arrivato a sopportare: una vita
senza certezze, come adesso.
E ora lo capisco, finalmente. Proprio
ora. Nel momento in cui il suo stupore diventa timore, ed io le sorrido.
- Tu. – il monosillabo che
sfugge dalle sue labbra è praticamente un sussurro.
Annuisco. I suoi occhi
spalancati sono del colore dell’ambra fusa, liquidi e limpidi, ma pieni di
stanchezza, mi accorgo, come ogni suo gesto. Lo noto
mentre si solleva per mettersi a sedere. Si ricompone, riavviandosi con una
mano i capelli. Mi fissa. E non fa nient’altro.
- Pensavo che a quest’ora avresti già uscito fuori la bacchetta. – affermo, senza
smettere di sorridere, come non potendone farne a meno. Ed in
effetti sento quanto, come prima, ciò sia per me esorcizzante.
Si stringe nelle spalle.
- Pensavo che a quest’ora mi
avresti già fatto fuori. – mormora, piano. La sua voce
in questo silenzio è un rintocco cristallino.
Alzo le spalle anch’io. Ed in effetti sembra che non ci sia davvero niente da dire,
perché tutto sta sospeso nell’aria, scritto a grandi parole, concrete e plasmabili.
Approfittando del silenzio
volge lo sguardo oltre il finestrino, verso il paesaggio tortuoso ma sempre
uguale, immacolato e diafano.
- È bello. – dico, senza
neanche pensarci, accarezzando con la mente le montagne che si profilano sullo
sfondo di questa realtà che ci attende.
Non parla, ma i suoi occhi si
fermano sul mio volto, si allargano, ed io vi leggo la gravità di una tristezza
profonda, che fa male al solo sfiorarla col pensiero.
- Chissà a quanto hai
rinunciato per arrivare su questo treno. – tento, in un impeto di solidarietà,
anche se mi rendo conto che io ho lasciato ben poco, a parte l’attesa di mia
madre, che probabilmente alleggerisco con la mia stessa lontananza,
permettendole un suo mondo più sereno fra le mura deserte di Malfoy Manor.
Vedo le sue labbra
stringersi, trattenendo il fiume di sconforto che avverto
pulsarle dentro.
- All’ineluttabile. –
risponde, portando una mano ai capelli, abbassando lo sguardo.
La replica mi sorprende più
della mia stessa affermazione, ma poi annuisco di nuovo, perché, qualunque cosa
l’abbia portata qui, so di capire. Capire il peso della
fatica che pervade i suoi lineamenti. Dell’incertezza
di un futuro migliore, di quella di un passato dove l’ignoto è il quotidiano.
E comprendere quanto la speranza della speranza stessa
prema e spinga le nostre decisioni.
- Chissà che tempo fa sulle
montagne. – penso, guardando il sole sempre più alto nel cielo, sentendone già
la mancanza.
Mi volto verso di lei e
sorride, con un piccolo sospiro, sbattendo le palpebre.
- Chissà se
nevica ad Ottery St.Catchpole.
Io rido,
e non so nemmeno perché. Lei si unisce a me, e una lacrima le sfugge
dall’occhio sinistro per correre giù verso le labbra, affannata ed umida come
la nostra allegria scaturita dal nulla.
- Signor Malfoy? – solito
tocco discreto ed inguantato, solito accento cantilenante.
Butto la mia cicca per terra,
la pesto con un piede, lasciando morire l’ultimo calore nell’aria gelida della
sera. Il tramonto è dietro di me, sempre ad ovest, come in qualunque parte del
mondo.
Faccio un passo avanti
automaticamente per iniziare a seguirlo, ma poi mi volto indietro. E sorrido, spontaneamente, irreparabilmente. Due luminosi
occhi ambra mi rispondono, caldi, indispensabili sul
mio volto, sul mio cuore.
Tendo la
mano, cerco la sua con gli occhi.
Ed insieme ed in silenzio, voltiamo le spalle al sole
per andare verso est.
Un ultimissimo ringraziamento ai lettori, e
soprattutto recensori di “Mi fido di te” (anche se
dubito che leggeranno queste righe, in quanto il target di Ron/Hermione e
Draco/Ginny è spesso diverso). In particolare, un grazie enorme a Briseide ed Izumi (oltre che
a Chiara, ovviamente): i loro
bellissimi commenti mi stimolano ogni giorno a far meglio.
Vorrei però ricordare a tutti gli altri che le note
che un autore inserisce nella propria fanfiction,
raramente sono capricci, ma anzi, il loro intento è
prettamente chiarificatore e didascalico nei confronti della comprensione del
lettore. Quindi, capite quanto sia frustrante impegnarsi per
rendere la fanfiction il più fruibile possibile, ed
evincere poi dai commenti che nessuno si è preso la briga di leggere
spiegazioni ed argomentazioni. Credo sia un atto di serietà e di
rispetto nei confronti dell’autore leggere ogni parte del lavoro, ovvero fanfiction, citazioni, note e correlazioni varie. Fiduciosa
del fatto di essere ascoltata, chiudo qui. Grazie quindi a chiunque sia
arrivato fino in fondo.
Alla prossima!