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Autore: Padme Undomiel    01/12/2010    3 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Purity 21
21.


Confronto






Era da un po’ che aveva notato quel giovane, su quella poltroncina.

Sedeva perfettamente composto, accanto a sé alcune riviste che sfogliava con attenzione, senza mai staccare gli occhi da quelle pagine.

C’era qualcosa di strano in lui, lo aveva notato subito.

Socchiuse gli occhi, scrutandolo dalla sua postazione dietro allo scaffale dei romanzi d’azione.

Probabilmente era dovuto alla sua postura così rigida, o al fatto che stesse leggendo con così tanta serietà quella che doveva essere solo una rivista sull’informatica. O ancora al fatto che sembrava non accorgersi in alcuna maniera del resto dei clienti della libreria che gli passava accanto, o del suo sguardo insistente.

Ma non poteva essere solo quello.

Hida Iori era assolutamente sicuro di aver già visto da qualche parte quella persona.

Ma dove, e in che occasione poteva essere stato?

Si concentrò, cercando di ricordare. Era sicuro che un incontro del genere lo avrebbe colpito in maniera particolare: eppure, non aveva alcuna idea del motivo per cui quel giovane dai capelli lisci scuri, la pelle chiara, l’abbigliamento quasi formale e quella strana aura che lo circondava riusciva a incuriosirlo tanto.

O, per esempio, del motivo per cui non riusciva a distogliere lo sguardo, diffidente.

Aveva la strana sensazione che non dovesse abbassare la guardia, pure se non ne conosceva il motivo.

Finse ancora di leggere, mentre lo osservava prendere appunti su un’agendina e, nello stesso tempo, ascoltava ciò che stava succedendo alla cassa.

“Vuoi che ti dia una mano con il lavoro, mamma? Mi sembri un po’ stanca”, sentì dire con tono convincentemente preoccupato, e sorrise tra sé. Lei era davvero brava a non farsi scoprire, quando ci si metteva.

“Oh no, non preoccuparti, Satsu-chan”, fu la risposta della donna alla cassa, ma nel suo tono c’era forse fin troppa naturalezza. Iori comprese che stava cercando di farle capire qualcosa. Drizzò le orecchie, e, riluttante, distolse lo sguardo dal giovane misterioso per osservare la scena di persona.

Sato Satsu era accuratamente voltata di schiena, decisa a non incontrare il suo sguardo –esattamente come avevano stabilito all’entrata della libreria. Non poteva guardarla in viso, ma sapeva perfettamente cosa poteva trovare negli occhi scuri di lei, quel giorno.

Probabilmente stava ancora osservando la postazione insolita di sua mamma, che di solito si occupava di mettere a posto i libri negli scaffali e che invece ora occupava un posto che non era il suo.

La signora Sato non aveva bisogno di occupare il posto dietro alla cassa: c’era sempre qualcuno che lo faceva al suo posto.

Lo stesso qualcuno che Iori e Satsu volevano vedere quel giorno.

Lo stesso qualcuno che quel giorno mancava.

Iori si accigliò maggiormente, reprimendo a stento la preoccupazione che sentiva crescere dentro di sé. Pregava fra sé che Satsu riuscisse a saperne di più senza dare troppo nell’occhio, ma per il momento non poteva fare nulla di più.

“Si fa quel che si può anche se non c’è tutto il personale”, stava intanto aggiungendo la signora Sato, guardandola con aria penetrante e allusiva. “Non posso sempre chiedere aiuto ad altri, questo è il mio lavoro.”

Ne era sicuro ormai. Sapeva qualcosa in più.

Il lettore silenzioso era ancora concentrato nella lettura: sembrava non accorgersi della sua espressione troppo concentrata su Satsu e sua madre.

Questo bastò a tranquillizzarlo, e a fargli dimenticare che la sua copertura richiedeva di fingere di leggere quel libro che reggeva meccanicamente nelle mani.

“Ora che ci penso … Quella commessa giovane che lavora da te non è venuta oggi?”

La presa di Iori su quelle pagine si fece più serrata.

“Oh … parli di Rumiko-chan?”

E fu a quel punto che notò un movimento quasi impercettibile alla sua destra, proprio su quella poltroncina piena di riviste di informatica. Il giovane dai capelli scuri aveva avuto uno scatto impercettibile del capo, e aveva sollevato lo sguardo, la penna a mezz’aria e una rivista aperta sulle sue ginocchia.

Cosa lo avesse smosso, dopo minuti passati quasi nella totale immobilità, non lo sapeva affatto. Eppure, anche lui ora osservava le due donne. E anche se non riusciva a coglierne l’espressione, era ben chiaro che fosse teso nello sforzo di cogliere ogni parola.

Come stava facendo anche Iori.

Si accigliò. Doveva avere un motivo ben valido per permettersi di origliare una conversazione che non aveva nulla a che fare con lui. Eppure prima ne era completamente disinteressato. Si era animato solamente quando era stato fatto il nome di …

“Mi ha chiamato stamattina, ha detto che purtroppo non se la sentiva di venire a lavoro oggi. Pare che abbia un po’ di febbre … Niente di eccessivo, ma era molto debilitata, lo si capiva anche dalla voce che aveva.” Rispose la donna, tentando invano di mascherare il lieve tremito della sua voce. “Mi ha detto che vedrà di guarire presto, tempo massimo un paio di giorni e sarà come nuova. Per intanto, lavoreremo anche senza di lei.”

Non se la sentiva di venire?

Il concetto era così strano che, per quanto se lo ripetesse continuamente, non gli riusciva di afferrarlo. Non se la sentiva di venire. Miyako detestava rimanere a casa da sola, Satsu gliel’aveva raccontato tante volte. Non se la sentiva di venire. Aveva persino tentato di andare in libreria con un piede dolorante, nonostante avesse rischiato di romperselo in un incidente stradale. Non se la sentiva di venire. E non c’era stato anche quel giorno, quando lei si era intestardita per lavorare nonostante quel brutto raffreddore che aveva preso?

Quel giorno, per un po’ di febbre, non se la sentiva di venire.

C’era qualcosa di assolutamente sbagliato in quella faccenda, nella sua assenza, nella sua chiamata alla signora Sato. A quanto pare, la situazione stava peggiorando, proprio come lui e Satsu avevano temuto.

Ma il motivo, il vero motivo, qual era?

Frustrato e agitato, voltò la testa di scatto. E incrociò improvvisamente lo sguardo del giovane sulla poltroncina.

Fu allora che sgranò gli occhi, sconvolto.

Ichijouji Osamu?

No, si disse in fretta, sentendo i battiti cardiaci accelerare improvvisamente. Non era lui. Ma il colore e la forma dei suoi occhi, i tratti del suo viso, la serietà nell’espressione erano davvero molto simili. Persino il colore dei suoi capelli, anche se quelli del detective tanto odiato erano sicuramente più ribelli.

Era così simile a lui che, se non l’avesse guardato bene, avrebbe semplicemente affermato che fossero due gemelli con pettinature diverse.

Eppure, in tutti i suoi incontri con Ichijouji  non era mai riuscito a leggere fino in fondo le sue emozioni in quegli impenetrabili occhi azzurri.

Quelli del giovane erano diversi. Si aveva quasi la sensazione che un turbamento confuso stesse cercando di prendere il sopravvento su di lui, a dispetto della serietà del suo viso.

Lo vide distogliere lo sguardo quasi all’istante, e abbassare il capo, ma non certo sulla rivista. Piuttosto sul pavimento. E ora aveva le labbra strette in una linea sottile.

Sembrava confuso, turbato, preoccupato. Proprio come lo era lui.

Ed era impossibile non pensare che aveva assunto quelle strane espressioni proprio dopo che la signora Sato aveva accennato alla malattia di Miyako. Che aveva avuto quello scatto improvviso dopo aver sentito il nome fittizio di Miyako.

Satsu e sua madre avevano ricominciato a parlare tra loro, probabilmente di argomenti più leggeri, ma Iori non riusciva a concentrarsi su quel chiacchierare sommesso: sentiva solo il continuo battere sordo del suo cuore nelle orecchie, mentre una consapevolezza faceva rapidamente strada dentro di sé.

Quella persona, che somigliava in maniera terrificante a Ichijouji Osamu, aveva a che fare con Miyako per qualche motivo. E la cosa lo impensieriva più del previsto.

Miyako se ne sarà accorta? Ma c’è qualcosa di cui accorgersi, dopotutto? Cosa dovrei fare?

Era ancora preso dai suoi pensieri agitati quando lo vide irrigidirsi di nuovo, cercare nella tasca della sua giacca qualcosa, estrarre infine un cellulare e portarselo all’orecchio dopo aver avviato la chiamata.

“Pronto.”

Parlava con tono sommesso, neutro, ma Iori si concentrò quasi senza accorgersene su ciò che diceva. Per la prima volta il pensiero che fosse totalmente sbagliato immischiarsi nella privacy altrui lo sfiorò appena: sentiva che doveva ascoltare, che era importante seguire i movimenti di quel giovane. Era per Miyako, doveva saperne di più.

“Sono in libreria.”

Ascoltò la pausa di silenzio con la stessa espressione concentrata che aveva l’altro in quel momento. “Sì, certo. Stavo dando un’occhiata a …” Si interruppe, sgranando gli occhi. “Eh? Davvero? Cosa è successo?”

Questa volta la pausa fu più lunga, e man mano che passavano i secondi il viso dello sconosciuto si faceva sempre più attonito. Iori non poteva avere idea di ciò che stava succedendo dall’altro capo del telefono. “… Capisco. Arrivo subito.”

Chiuse in fretta la chiamata, mise da parte la rivista e raccolse in una pila le altre che aveva posato sulla poltroncina, poi si diresse svelto verso il reparto riviste, e le mise al loro posto. Poi si allontanò a grandi passi, dirigendosi verso l’uscita e chiudendosi la porta a vetro alle spalle.

Come se non fosse mai venuto. Era persino impossibile risalire alle riviste che aveva sfogliato fino a quel momento, tanto accuratamente le aveva nascoste tra le altre.

Avrebbe voluto parlare con Miyako lì, subito, sapere se sapeva se lo conoscesse, se le avesse mai parlato, se fosse implicato con Ichijouji. O avrebbe voluto sapere cosa fare per nascondere ancora più accuratamente la sua amica, sottrarla a tutti quegli sguardi sempre più insistenti, avrebbe voluto non avere le mani legate come accadeva sempre.

Non aveva mai avuto tanto potere, per quanto si sforzasse.

“Oh, sei qui, Iori-kun.”

E mentre alzava lo sguardo, tetro, quel senso di impotenza non fece che intensificarsi.

Non aveva nemmeno il potere di proteggere Satsu, lì di fronte a lui, né di cancellare quell’ombra scura che incupiva i suoi occhi sempre acuti e vivaci. Per quanto il pensiero di quell’enorme peso che portava anche lei faticosamente ogni giorno lo lacerasse, portandolo, alle volte, ad una frustrazione cieca e deleteria, non poteva nulla contro le preoccupazioni e i sacrifici di ogni giorno; nulla contro le privazioni alle quali anche lei si stava sottoponendo.

Satsu colse la sua espressione, e, se possibile, la sua fronte si aggrottò maggiormente, e la smorfia sulle sue labbra si accentuò. “Sentito, vero?”, fece, mentre, con un sospiro, si volgeva verso lo scaffale più vicino e fingeva di essere impegnata nell’osservazione dei libri. Le solite coperture necessarie per potersi parlare in pubblico. “Se volevi una conferma che stesse succedendo qualcosa di grosso, eccola qui. Malata. E io che pensavo che fosse in lotta aperta con il malessere fisico.”

Iori chiuse il volume che teneva tra le mani con un rumore secco. “Sai quand’è stata l’ultima volta che l’ho vista così fragile, Satsu-san? Sette anni fa, sulla soglia di casa mia.” Ricacciò indietro quel ricordo, quello sguardo disperato, quel pallore e tremore, mentre stringeva quel fagotto tra le braccia. Non era in grado di sopportare il senso di colpa. “Ma allora aveva solo diciotto anni … credevo si sarebbe ripresa, ma pare che, invece di migliorare, stia peggiorando.”

“Oh, no, non dire così!” Satsu replicò, sorpresa. “Ecco, mettiamola in questo modo: in questo momento è come … come una batteria sovraccarica. E’ andata in tilt per qualche motivo che ancora non conosciamo, ma si riprenderà dopo un periodo di riposo, e starà meglio di prima.”

Di solito lei riusciva, con quelle similitudini fantasiose, a rasserenarlo, qualsiasi cosa fosse successa: ma quel giorno l’ansia era troppa. Era tutto troppo labile, fragile, sul punto di rottura, e ovunque c’erano minacce contro Miyako … e, per esteso, contro di loro.

“Dai, Iori-kun.”

Non se n’era accorto, ma Satsu aveva fatto un passo verso di lui, posandogli una mano sul braccio nel tentativo di confortarlo. E tutto esplose di nuovo dentro di lui, mentre gli occhi troppo grandi e belli di lei lo guardavano con tutta l’apprensione del mondo.

Per un istante, avvertendo il calore della sua mano sul braccio, un’ immagine passò davanti ai suoi occhi, sfocando la realtà. Vide gli occhi di Satsu pieni di un affetto diverso –amore-, la sua piccola mano sfiorargli il viso, con quella semplicità tipica di chi ama e sa di essere amato a sua volta, e sentì che non avrebbe avuto bisogno d’altro, che tutto sarebbe stato più semplice, se solo lei gli fosse stata accanto non per forza di cose, ma perché realmente disposta a vivere anche la preoccupazione con il suo ragazzo.

Sentì che sarebbe stato molto più semplice, se solo avesse potuto averla per sé, esternare i suoi sentimenti che sentiva così vivi, che si erano solo accentuati con gli anni.

E poi l’immagine svanì, e davanti a sé c’era Satsu –che non lo amava, non lo amava-, e poi c’era lui, che avrebbe fatto di tutto solo per sfiorarle le labbra per un istante …

Chiuse gli occhi di scatto, per non guardarla oltre. “Satsu-san, allontanati, per favore”, si costrinse a dire, un sussurro sofferente, ignorando i suoi sentimenti.

E la mano sparì all’istante, e Iori la rimpianse dolorosamente dopo appena un secondo.

“Oh … mi dispiace, non … scusami.”

E quando riaprì gli occhi, incerto, non poté fare a meno di notare quel rossore intenso sul viso di lei, ora rigorosamente girata dall’altra parte. Impossibile che non avesse letto nel suo sguardo cosa era sul punto di fare.

Anche Iori arrossì, guardando a terra. Si sentiva stanco, una stanchezza morale, e più vecchio che mai, nonostante avesse solo ventidue anni.

Poi Satsu si schiarì la voce, a disagio. “Una soluzione c’è sempre”, fece, una traccia di forzata serenità più che avvertibile. “Se vuoi ne ho una, ma devi fidarti di me.”

Iori sospirò, guardandola appena. Imperativo inutile, non c’era bisogno di specificare. “Basta che sai quello che fai, Satsu-san”, replicò, con un mezzo sorriso. “Hai campo libero. Se puoi fare qualcosa per Rumiko-san, ben venga.”

“Sai che devi aiutarmi anche tu, vero? Non posso fare tutto io, ha bisogno anche di te.”

E, come se niente fosse, adesso era tutto tornato alla normalità. Era spontaneo quel guizzo di ilarità nel suo sguardo, e il sollievo lo invase. Avevano superato anche quella.

“Io devo indagare su alcune cose: sarà questo il mio modo di aiutarla”, disse poi, gettando uno sguardo sulla porta d’ingresso della libreria, tremendamente serio. Indagare su Ichijouji, sulle sue mosse, su quello strano ragazzo. “Ti spiegherò appena possibile, ma non qui, per favore.”

Satsu annuì, incuriosita e perplessa, ma non fece altri commenti: tacque, chinando il capo su un ingombrante dizionario di russo e lasciandogli il tempo per riflettere.

Se conosceva bene Miyako, sapeva che ciò che la mandava in crisi non era tanto l’avere un problema, ma il non potere, per qualche motivo, parlarne agli altri. Ma se lei si ostinava tanto a non aprirsi a loro, lui e Satsu avrebbero agito di conseguenza. Era imperdonabile restare con le mani in mano a guardare mentre pian piano la situazione peggiorava invece di …

“Ah, un’altra cosa. Iori-kun, ultimamente sei stato a Praga?”

Iori sussultò, doppiamente preso alla sprovvista. “Eh? Praga? No”, rispose, perplesso.

Satsu annuì tra sé, ancora voltata di spalle. “Quindi, non essendoci stato, non potevi nemmeno inviarmi cartoline provenienti da lì.”

Più il giovane ascoltava il tono apparentemente casuale con cui lei parlava, meno ci capiva. Aggrottò le sopracciglia. “Cosa c’entrano le cartoline? Chi te l’ha-”

“E non hai ancora controllato la tua posta stamattina, vero?” Disse Satsu voltandosi, e il suo tono contrastava completamente con l’occhiata seria che aveva.

Al limite della sopportazione, Iori sospirò pesantemente. “Satsu-san, di che stai parlando?” Scandì, cercando nel suo sguardo la risposta.

Ancora una volta, quel giorno, il senso di inquietudine accelerò bruscamente i suoi battiti cardiaci, in maniera inequivocabile. Qualcosa stava andando storto, di nuovo.

Satsu si portò distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, guardandosi intorno per un momento. “Credo”, rispose sibillina, “che ci convenga parlarne a casa, Iori-kun. Le cose si complicano ancora.”


***


Ken salì le scale correndo, tenendosi ben stretto al corrimano per non scivolare. Scansò in fretta due uomini vestiti elegantemente, ed ebbe appena il tempo di scusarsi frettolosamente che era già arrivato dove voleva. La porta in cima alle scale era socchiusa, e, come sempre, nessun rumore tradiva la presenza del padrone di quello studio.

Sospirò, cercando di calmare il respiro per la corsa che aveva dovuto fare, e infine bussò, due colpi decisi e brevi.

“Avanti”, rispose lui dall’interno, apparentemente tranquillo. E Ken seppe che non avrebbe potuto indugiare oltre. Aprì.

E Osamu sembrava aspettarlo dietro quella scrivania in legno di mogano, il capo appoggiato sul palmo della mano destra, gli occhi chini su alcuni documenti che teneva aperti di fronte a sé. La stanza, solitamente scura, era ora illuminata dal sole primaverile.

Per ricevere i clienti era disposto anche a questo, si disse, osservandolo.

“Chiudi la porta, Ken”, disse poi Osamu, alzando lo sguardo verso di lui.

Ken obbedì, ancora senza dire una parola. Ascoltò, per un istante, i rumori dell’esterno, il lieve chiacchierare, prima di chiudere la porta e creare un silenzio raccolto.

Il silenzio che piaceva così tanto a Ichijouji Osamu, detective.

Si avvicinò incerto alla scrivania, e prese posto sulla sedia di fronte a lui. Era impaziente, e preoccupato, e non riusciva a calmarsi da quando aveva ricevuto quella chiamata a sorpresa mentre era in libreria. Desiderava soltanto saperne di più, finalmente.

“Scusami se ho fatto tardi”, fece, chinando brevemente il capo. “La libreria è abbastanza lontana da qui.”

Vide Osamu fare una smorfia. “Vorrei avere anche io tutto il tempo libero che hai tu”, disse, e i suoi occhi seri lo scrutavano attentamente, come valutandolo. “Ma pare che il mio lavoro non conceda pace, mai.”

Rumiko avrebbe detto che non era certo il lavoro, una schiavitù fisica, a renderlo schiavo.

Ormai Ken era così abituato alle insinuazioni contro le sue indagini che nemmeno si scompose, limitandosi a stringere la mascella per non sbottare. Quel giorno era iniziato tanto male da essere il meno indicato per una lite puerile tra fratelli. “Mi dispiace. In effetti ti vedo sempre più stanco”, osservò semplicemente. “Comunque non si può chiamare davvero tempo libero, anche se può sembrarlo” aggiunse, con tono carico di sottintesi. “Stavo cercando informazioni su Royama Hideki. In quella libreria vendono anche riviste di informatica, sai.”

“Ah sì?”

E fu con stupore che Ken vide non ostilità nei suoi occhi penetranti, ma un lampo divertito, rapido ma inconfondibile, che scomparve non appena lui fece per domandargli cosa ci fosse di tanto buffo. Attonito, rimase in silenzio, aspettando che Osamu riprendesse a parlare. “Trovato nulla di interessante a riguardo?”

Più si sforzava di capirlo, meno ci riusciva. Ken sospirò, rassegnato. Forse Osamu era schiavo del suo essere sempre così controllato e imperscrutabile, che sembrava, a volte, isolarlo dal resto del mondo. “Solo qualche intervista senza alcun valore”, rispose brevemente, cercando di arrivare presto al motivo della chiamata urgente del fratello. “Ma ho potuto controllare ben poco, visto che si è presentata questa … novità. Farò del mio meglio per rimediare, appena avrò tempo.”

“Senza alcun valore”, ripeté Osamu incolore, e c’era qualcosa nel suo tono di voce che costrinse Ken a sentirsi in profondo imbarazzo e ad avvampare, impotente. “Buffo che tu definisca un dato così possibilmente importante senza alcun valore. Proprio ora, che mi hai dimostrato di avere potenzialità interessanti, non puoi permetterti cadute di stile di questo tipo.”

Ken distolse lo sguardo, sentendosi un totale incapace. Aveva letto attentamente le interviste, era sicuro di averlo fatto. Era possibile che gli fosse sfuggito qualcosa? Ma cosa poteva esserci di così importante nelle informazioni riguardo il nuovo software che aveva inventato?

Ed era successo di nuovo. Al minimo rimprovero di Osamu, si sentiva come se avesse fallito miseramente in entrambi i propositi che aveva deciso di intraprendere. Probabilmente Rumiko avrebbe riso, perché aveva parlato di schiavitù e libertà con un giovane schiavo dell’idea che suo fratello aveva di lui.

Scioccato dalla consapevolezza, strinse i pugni, costringendosi ad essere impassibile. “Mi stai dando un indizio o mi sbaglio?” Gli chiese, corrugando la fronte.

Osamu sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Fa’ un po’ tu”. Poi indicò con un dito il telefono che teneva al lato della scrivania. “E ora, alla chiamata che ho ricevuto oggi. Ricordi chi è Yamanaka Harumi, giusto?”

Non ebbe bisogno di pensarci troppo: aveva ripassato così tanto i dati che aveva alla mano che li conosceva a memoria, ormai. “Sì, la compagna di classe delle medie di Inoue Miyako”, disse, interessato. “Perché ti ha contattato? Che è successo?”

“Come ti ho già accennato, pare che si sia verificato un imprevisto”, gli spiegò Osamu, riponendo nel cassetto di fronte a lui i documenti che aveva sulla scrivania. “Ha ricevuto una cartolina particolare stamattina, proveniente da Liverpool e con mittente anonimo.”

Ken lo fissò, perplesso, mentre Osamu sembrava tutto preso dal chiudere il cassetto. Possibile fosse solo quella la grande novità? “Ma può immaginare chi sia il mittente, giusto?” Obiettò, cercando di non suonare così scettico. “Basta pensare a chi, dei suoi conoscenti, possa essere andato a Liverpool, o cercare di capirlo dal messaggio scritto sul retro della cartolina …”

“E se ti dicessi che è proprio il messaggio sul retro ad essere il reale problema?”

Osamu fece un sorrisetto obliquo, probabilmente divertito dalla smorfia incredula che si era dipinta sul suo viso. “E se ti dicessi che il messaggio sul retro, per quanto impossibile, sembra essere stato scritto proprio da Inoue Miyako?”

E per un momento non ci fu che confusione, nella mente di Ken.

Un indizio. Poteva essere uno degli indizi più importanti che avessero mai avuto in otto anni: voleva dire che Miyako era viva, che voleva mandare un messaggio, forse in codice, alla sua amica, che forse voleva farsi trovare …

Farsi trovare?

La sua mente si raffreddò all’improvviso, e la confusione scomparve nel momento in cui Ken si ricordò della razionalità, e della riflessione. Dopo otto anni di totale silenzio vuole farsi trovare?

Strinse gli occhi, osservando lo strano sorriso che increspava le labbra di suo fratello. “Ti chiederei qual è il contenuto del messaggio. E anche … il tipo di rapporto che c’era tra Miyako e Yamanaka Harumi.” Rispose. “Ci sarà un motivo per cui la cartolina apparentemente di Miyako sia indirizzata a lei, no? E poi dovremmo anche controllare che non siano arrivate cartoline sospette anche agli altri indiziati, suppongo. Non si sa mai.”

Pur concentrato sulla sua controllata impazienza, non poté ignorare il lampo negli occhi azzurri di Osamu, né evitare di sentirsene turbato. Aveva l’impressione che si stesse divertendo, come coinvolto in un gioco particolarmente allettante, e non era sicuro fosse un bene. “Precisamente quello che mi sono chiesto io”, sembrò approvare, ma era difficile dirlo con certezza. “Il contenuto del messaggio è piuttosto singolare: stando a quello che mi ha detto Yamanaka Harumi per telefono, parrebbe quasi un … frammento di diario personale.”

Ken sussultò, e Osamu parve cogliere la sua reazione: il sorriso scomparve dalle sue labbra, rapido com’era affiorato. “Pare che questo diario segreto si stia manifestando solo adesso. E’ buffo …” Ma non c’era alcuna nota divertita nella sua voce. “Quanto al rapporto con Miyako … bisognerebbe accertarsene di persona, non credi? Anche perché avevo già assicurato che una visita a casa sua sarebbe stata d’obbligo, per mandare avanti le indagini.”

Al di là della confusione e dell’impazienza, Ken ricordò che era compito suo occuparsene, e che ancora una volta era chiamato ad essere sottoposto a quell’ennesima prova: annuì, sentendosi più pronto che mai. Non poteva tirarsi indietro, non ora che la passione per l’indagine e la voglia di ritrovare quella ragazza si facevano sentire più forti che mai. “Hai ragione, posso occuparmene subito, se vuoi”, disse, la voce carica di nuovo impeto. “Ho lezioni nel pomeriggio, stamattina non …” Esitò, e per un istante ricordò i programmi che aveva per quella mattina, e il motivo per cui erano andati in fumo. Era sempre più difficile vedere Rumiko, sempre più difficile sapere perché stesse male, praticamente impossibile accertarsi delle sue condizioni fisiche ora che era malata. Strinse i denti, ricacciando il pensiero al sicuro dentro di sé. “Non ho impegni di nessun tipo.”

Eppure, da qualche parte, trincerate dalla sua barriera di imperscrutabilità, l’amarezza e la preoccupazione incontrollabile rimasero intatte.

Osamu parve non accorgersi dei suoi occhi bassi, né del suo stato d’animo incupito. Si limitò ad alzarsi, invece, con una semplice scrollata di spalle. “Meglio così: risparmiare tempo è sempre la cosa migliore”, ribatté tranquillo. “E non guasta nemmeno che l’appartamento non sia molto distante dal mio studio: ci si può arrivare in pochi minuti.”

Ken si alzò a sua volta, comprendendo che quello doveva essere il momento di congedarsi. Ancora Osamu, come sempre, a dettare le regole di quel gioco che lui non capiva. “D’accordo”, disse, neutro. “E l’indirizzo qual è?”

“Te lo farò vedere appena ci arriveremo, Ken. Non serve che te lo dica.”

Sulle prime, Ken credette di aver capito male. Lo fissò, aspettandosi un sorriso, una risata di scherno, qualsiasi cosa che gli mostrasse che non parlava sul serio, perché era impossibile che parlasse sul serio.

Lo fissò, e Osamu ricambiò l’occhiata, con un sopracciglio inarcato.

Quello, e il fatto che aveva messo mano alla sua giacca, resero palese il fatto che doveva essere serio.

“Come … vieni anche tu?” Balbettò, guardando ora lui, ora la sua giacca. “Con me?”

Osamu sorrise ancora. “E’ il mio caso, sai”, ribadì, sottolineando l’aggettivo possessivo. “Naturale che sia anche compito tuo, visto che ti ho coinvolto, ma è pur sempre un caso sottoposto a Ichijouji Osamu: posso decidere di farne quello che voglio. Finora mi sono limitato ad osservare il tuo lavoro su dati che avevo quasi interamente, ma ora si è presentata una pista nuova. Vuoi che non mi ci dedichi?”

Ammutolito, Ken lo vide infilarsi la giacca con gesto tranquillo. “Impara questo, Ken: io non faccio il detective, io sono un detective. Per questo non posso pensare di essere libero dal lavoro, mai.”

 “Scusa, non ci avevo pensato.”

Tutto questo era privo di senso, si disse Ken, imitando il fratello in silenzio. Totalmente privo di senso. Iniziava a considerare il caso come un qualcosa di suo, e solo suo, e non era un bene. Come poteva essere diventato così egoista?

Schiavo, schiavo anche lui come Osamu. Schiavo di quella competizione, e di quel sentirsi sempre in allerta, a disagio … inferiore.

“Allora, vieni o no?”

Osamu lo aspettava sulla porta, e ancora lo osservava, cercando di capirlo con un solo sguardo. Era impari, quel confronto: Ken non lo capiva, non più. O forse non l’aveva mai fatto.

“Posso … farti una domanda?” Fece, incerto, e non sapeva cosa lo stesse spingendo a parlare in quel momento. “Cosa pensi che sia la schiavitù, Osamu?”

E, per la prima volta dopo chissà quanto tempo, lo vide genuinamente colto di sorpresa.

La visione lo riempì di un sollievo inimmaginato, e solo allora comprese. Voleva solo vedere del sentimento al di là di quella barriera, nient’altro. Solo rendersi conto che suo fratello non era così schiavo del cinismo come temeva.

Perché, effettivamente, non era la risposta in sé ad interessarlo: la indovinò nel momento in cui lo vide aprire la bocca per parlare.

“Allora è questo che fai nel tempo libero? Pensare a domande filosofiche che non ti portano da nessuna parte?” Fece, scettico, per poi scuotere la testa e voltarsi. “Non è interrogandoti su sentimenti e passioni umane che diventerai un perfetto investigatore, Ken. Cose del genere ti portano solo alla deriva.”

Lo precedette, uscendo dallo studio, e nel breve momento in cui rimase solo Ken lasciò che quelle parole risuonassero nella sua mente.

Cose del genere ti portano solo alla deriva.

Risposta perfettamente degna di Ichijouji Osamu, solitario e deciso, razionale e irremovibile sulle sue convinzioni.

Ma lui?

“Non sei uno sciocco, sei umano. Gli vuoi bene … Si vede quanto.”

Qualcosa dentro di lui si contrasse dolorosamente, e Ken scosse la testa, disposto, nonostante tutto, a seguire Osamu come aveva sempre fatto.

Davvero non è da sciocchi lasciarsi coinvolgere dai sentimenti, Rumiko-san?


***


“E dove hai detto che è andato? A Kyoto?”

“No, a Osaka. Suo fratello vive lì, sai.”

C’era un gran frastuono per le strade, un frastuono che lei era abituata ad ascoltare solo nel tragitto per andare a lavoro e tornare all’orfanotrofio. Era sempre così legata al suo piccolo ambiente raccolto che tutto quel viavai di persone e mezzi la scombussolava.

Dato indicativo per quanto riguardava il tempo libero che aveva a disposizione da quando sua madre si era ammalata: praticamente pari a zero.

Hikari sospirò di nuovo, rassettandosi i capelli scompigliati dal vento lieve di quel giorno. Non sapeva cosa le prendesse, quella mattina: aveva la testa fra le nuvole, si sentiva malinconica, di umore incerto. E aveva sperato di riuscire a star meglio prendendo un po’ d’aria fresca, ma evidentemente si sbagliava.

Avrebbe tanto voluto sapere cosa avesse, ma non sapeva da che parte iniziare a cercare la risposta dentro di sé.

Taichi, al suo fianco, la osservò con espressione attenta. “Ma tornerà presto, giusto? Voglio dire …” Si interruppe, incerto, passandosi una mano tra i capelli perennemente scompigliati. Poi sospirò, come arrendendosi. “Voglio dire che non mi riesce di capire fino in fondo Takaishi-kun. Certo, è logico che abbia dei problemi con se stesso e con quello che davvero vuole dalla vita, ma si comporta in maniera imprevedibile.”

“Come mai lo pensi?” Fece Hikari, inconsciamente irrigidendosi. Non aveva più sentito Taichi parlare di Takeru davanti a lei dopo il primo giorno in cui lei lo aveva fatto entrare nell’orfanotrofio: era curioso che lui decidesse di introdurre l’argomento proprio in quel momento, proprio quella mattina, quando il pensiero e la lontananza di lui avevano avuto un effetto tanto strano sul suo umore.

Taichi sembrava esitante, e continuava a lanciarle occhiate di sottecchi, come preoccupato per la sua reazione. “Non voglio dire che sia un cattivo ragazzo, tutt’altro!” si affrettò ad anticipare, alzando le mani. “Ho visto che ha molta voglia di mettersi in gioco, e una capacità non indifferente di inventare fiabe stimolanti per i bambini quando io contribuisco alla perdita di una di queste proprio nell’ora di lettura. E d’altra parte, tutti quanti abbiamo passato un momento di dubbi e incertezza riguardo l’orfanotrofio, quindi sarebbe comprensibile il suo atteggiamento.”

“Ma?” Insistette lei, se possibile ancora più inquieta. Preamboli, troppi preamboli: parlando di Taichi, che di solito non si faceva alcun problema nell’esprimere le proprie considerazioni in maniera spontanea, era davvero preoccupante.

Lo vide perdere la pazienza, probabilmente stufo anche lui di quei preamboli inutili. “Ma mi chiedo se riuscirà mai a liberarsi di quel tormento che porta negli occhi come un fardello! Insomma, non è preoccupante? E poi”, aggiunse, mentre lei lo fissava, pallida e muta. “Mi chiedo se non si sia andato lì a Osaka per restarci, come se volesse dirci che non possiamo contare su una sua possibile presenza fissa da noi.”

Hikari fu colta da un’ondata di gelo, e non poté far altro che riprendere a camminare, turbata. Ora capiva perché Taichi era stato così incerto se parlarle o no. Ora capiva persino perché lui le avesse chiesto di camminare un po’: aveva già deciso di voler sapere informazioni su Takeru. La fiducia di suo fratello iniziava a vacillare, per quanto fosse triste pensarci.

Era la sola? La sola ad aspettarlo per tutto il tempo necessario, la sola a guardare il lampo di serenità e non quello di tristezza nei suoi occhi così azzurri? La sola a sapere che sarebbe tornato?

Perché sarebbe tornato, giusto?

Sussultò, presa alla sprovvista dai suoi stessi pensieri, i suoi stessi timori repressi. Che cosa le prendeva, tutt’a un tratto? “Takeru-kun voleva semplicemente parlare con suo fratello, non ha alcuna intenzione lasciare definitivamente Tokyo. E io credo che, per liberarsi di quel tormento che dici, sia necessario che lo incontri e parli con lui.”

Aveva di nuovo il cuore pesante, sembrava battere pigramente e rumorosamente contro la sua gabbia toracica. Sembrava braccato dalla sua malinconia, dalla sua paura, causata da quell’irrazionale volgersi a destra e sinistra cercando quei capelli biondi, quegli occhi azzurri, e non trovarli mai.

C’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel suo continuo rimuginare sulle parole che aveva ascoltato il pomeriggio prima, subito dopo il discorso riguardo la precarietà dell’orfanotrofio, quando Takeru, lo sguardo assente, le aveva annunciato che voleva andare a parlare con Ishida Yamato, suo fratello.

Probabilmente era sbagliato anche il fatto che ricordasse ogni sua espressione, ogni sua parola, con una minuzia che dava dell’incredibile.


“Lui mi ha detto delle cose prima che io tornassi a Tokyo: ha cercato di farmi capire cosa dovrei fare della mia vita.” Aveva giocherellato con un filo d’erba, pensieroso, e probabilmente desideroso di farle capire esattamente il motivo di quella decisione. “E io vorrei discuterne con lui. Tutte queste novità …”

Si era interrotto, a corto di parole, limitandosi a scuotere la testa, sconfitto.

Hikari aveva lasciato che la morsa del senso di colpa la tormentasse ancora un po’. “Non volevo confonderti tanto, Takeru-kun. Mi dispiace …”

“E’ tutto a posto, tranquilla.” Sembrava davvero fosse così, dopo quel sorriso. “Non hai fatto niente, sono io il problema. Devo sapere come reagire a questa novità sconvolgente, devo sapere cosa fare. Se posso esservi utile dovrei capire in che modo, no? E se sono solo un peso per voi dovrei capire come allontanarmi totalmente da voi e dai bambini: non avrebbe alcun senso questa sorta di tirocinio, a questo punto.”

Aveva provato a protestare, scandalizzata. “Peso? Ma cosa …”

“Ti prego, Hikari-chan. Non aggiungere altro.” Il tormento era riaffiorato sul suo viso all’istante, e Hikari si era zittita, pur non approvando in nessun modo. “Non voglio più crearvi tutti questi problemi, non lo sopporto. Sono stato peggio di un bambino capriccioso ed egoista per tutto il tempo, pretendendo che quella che io credevo fosse la vostra perfetta felicità dovesse essere insegnata anche a me. Me ne vergogno profondamente, Hikari-chan, e se davvero so solamente a complicarvi la vita preferisco lasciarvi in pace.”

Aveva avuto paura, all’improvviso, perché lui sembrava determinato, sincero, profondamente deciso. Non c’era più alcuna esitazione nei suoi occhi.

Lui l’aveva guardata, fermo e vibrante di emozione, e le aveva sfiorato una guancia in maniera così delicata che Hikari si era sentita arrossire, pur incapace di distogliere lo sguardo da lui.

“Ma preferisco chiarire il dubbio da subito. Conoscersi meglio potrebbe essere dannoso, se tutto … insomma … andasse nel peggiore dei casi.”

Lui esitò, e lei sembrò rendersi conto solo in quel momento che Takeru era lì, che la guardava, che le parlava e sorrideva in quel modo, e che lo faceva solo in sua presenza.

Era curioso: il fatto che fosse accanto a lei sembrava più concreto proprio nel momento in cui si affacciava il rischio di doversi allontanare l’uno dall’altra.

Cadere nell’angoscia fu facile quanto respirare.


“Avrò contato almeno un centinaio di sospiri, Hikari: mi stai preoccupando. Cosa c’è che non va?”

La voce apprensiva e seria di Taichi la riportò con i piedi per terra. Si riscosse, alzando lo sguardo smarrita. “Come? Non ho niente che non va.”

Se possibile, Taichi si accigliò ancora di più. Si fermò di botto, le mise le mani sulle spalle e la costrinse a guardarla, preoccupato. “E’ da quando eri piccola che provi a negare di avere problemi: sai che per fortuna me ne accorgo, sorellina”, le disse con calore. “Non farmi stare in pensiero, lo odio. Dimmi cosa c’è che ti preoccupa, così te ne liberi e non ne parliamo più, d’accordo?”

Era preoccupato per lei, voleva aiutarla ad ogni costo. E ancora una volta lui era lì, pronto a darle il suo affetto, la sua grinta, la sua voglia di sistemare i problemi, come quando erano più piccoli.

E non sapeva quanto fosse stata condizionata da quella visione, ma Hikari si sentì gli occhi bruciare, prima che la sua vista fosse offuscata dalle lacrime.

“Oh, no … che fai? Sono stato io?” Fece Taichi, con puro terrore, ma Hikari non aveva una risposta da dargli. Spaventata da se stessa e dalle sue reazioni, non poté far altro che scuotere la testa e nascondersi il viso tra le mani, impotente.

Si sentì abbracciare forte, e accarezzare i capelli, e un momento dopo Taichi sembrò comprendere esattamente quali fossero i suoi pensieri. “E’ per lui? Per Takeru?”

Non aveva la risposta a quella domanda, ma c’era una cosa che le premeva di dirgli assolutamente, ora che era riuscita a trattenersi dal piangere scioccamente. “Taichi, devi aver fiducia in Takeru”, gli disse, con voce soffocata, ma ci credeva davvero. “Non so … non so se ci aiuterà con l’orfanotrofio, se sceglierà di seguirci in questo progetto, ma comunque vada io so che troverà la sua strada e la sua gioia. Lo so … io lo so.”

Lo sentì irrigidirsi leggermente, sorpreso, prima che si rilassasse ancora, con un sospiro colpevole. “Accidenti … sono stato davvero io.” Commentò, a disagio. “Scusami. Non avrei dovuto dire certe cose sul conto di quel ragazzo: anche Koushiro e Jyou avevano qualche dubbio prima, e ora guarda dove sono finiti! Che stupido. Perdonami, sorellina: è che è un brutto periodo, lo sai … no?”

Non sapeva se Taichi stesse solo cercando di consolarla o se se ne fosse convinto davvero: sapeva solo che lui le era accanto, che cercava di aiutarla, che le voleva bene. Hikari lo strinse forte, annuendo, e cercò conforto nelle sue braccia.

Oh, certo che sapeva era un brutto periodo. Era così brutto che l’aveva costretta a piangere davanti a Takeru, stretta da Takeru, confortata da Takeru.

E ora, le pareva quasi di sentire ancora il suo profumo nelle narici, per quanto Taichi ne avesse uno totalmente diverso.

Quello non poteva essere un bene. Aveva paura, paura di quei segnali, perché le sembrava di essere coinvolta in un processo irreversibile.

E proprio nel momento più sbagliato del mondo.

Respirò profondamente per calmarsi, per poi sciogliere l’abbraccio. Taichi la guardava, preoccupato e in colpa, probabilmente cercando di capire goffamente se il problema fosse passato, se l’avesse perdonato del suo misfatto.

Come ai vecchi tempi. Anche se questa volta non era colpa sua, e il problema non poteva essere risolto con una semplice richiesta di pace.

Eppure,  la visione era così tenera che la costrinse a sorridere. Non poteva non farlo.

Takeru non era lì, forse non ci sarebbe più stato, con il suo sorriso, la sua amarezza, la sua dolcezza.  Ma suo fratello era con lei, e non se ne sarebbe mai andato, fornendole aiuto ogni volta lei avesse avuto paura di dare un nome a quel bisogno di Takeru, come in quel momento. “Sto bene adesso, tranquillo”, gli disse, e gli strinse le mani. “Grazie. Non so cosa farei se non ci fossi tu.”

Lui le sorrise in risposta, in modo solo un po’ più luminoso e sereno di lei. “Prego! E’ un piacere per me essere considerato indispensabile da almeno una ragazza. Dovresti convincere Sora di questo: ultimamente è sempre suscettibile quando è con me.”

Hikari annuì distrattamente, e forse avrebbe anche fatto cadere il discorso, troppo spossata per interessarsene a dovere, se non avesse sentito il tono di lui incupirsi in modo strano. Incuriosita, si soffermò a studiarlo.“Magari è solo un brutto periodo anche per lei”, suggerì .

“Non ne sono convinto.” Commentò suo fratello con una scrollata di spalle. E probabilmente avrebbe aggiunto altro, se non si fosse voltato sulla destra e non avesse scorto qualcosa di nuovo. Si illuminò. “Ehi, ho appena avuto un’idea! E se lavorassi in una gelateria? Comincio a stufarmi di puzzare di fritto ogni volta che ritorno dal ristorante.”

Forse era ancora confusa da ciò che temeva e ciò che aveva scorto nel suo animo, ma i cambiamenti di discorsi di Taichi la confondevano. “Credevo ti piacesse il ristorante”, fece lentamente. “E che il titolare ti avesse preso in simpatia. Che motivo hai per cambiare mestiere?”

Taichi fece una smorfia, grattandosi la nuca ed evitando di guardarla. “Te l’ho detto, puzzo di fritto. Credo di essere repellente.”

Era abituata da ventiquattro anni alle sue stranezze, ma quella volta capire di cosa stesse parlando andava ben oltre le sue capacità intuitive. Perplessa, aggrottò la fronte. “Non sei affatto repellente. E da quando in qua questo ti preoccupa?”

“Beh, dimmi se ti sembra normale. Ultimamente provo ad avvicinarmi a Sora –non so: un abbraccio, un buffetto sulla fronte, qualsiasi cosa- e lei mi spinge via, e trova sempre una scusa per allontanarsi da me.” Taichi si infervorò, indignato, ma quello strano rossore che aveva colorato il suo viso quando aveva accennato ai tentativi di avvicinamento a Sora non le erano sfuggiti. Hikari sgranò gli occhi, intuendo che c’era qualcosa di nuovo che si agitava in suo fratello, chissà da quanto. “Una volta l’ho seguita dappertutto per costringerla a spiegarmi, ed ero così distrutto che sono arrivata a supporre, ironicamente, che dovevo puzzare davvero troppo di oli e fritti perché si avvicinasse a me. E lei cosa mi dice? Può darsi. Che è una risposta che non vuol dire niente, giusto? Ma come pretende che io possa capire cos'ha che non va se non me ne parla chiaramente? Va bene, mettiamo il caso che io sia davvero insopportabile quando esco dal ristorante, ma in nome della nostra amicizia può fare uno strappo alla regola, no? E invece scappa sempre ogni volta che le vengo vicino, rifiutandosi di guardarmi!”

Nel momento in cui Taichi finì di parlare, Hikari comprese che c’era qualcosa che non andava anche in Sora. I due non avevano mai avuto problemi ad avere contatti: erano migliori amici da sempre, non era mai stato un problema. E allora perché allontanarlo adesso? Perché dargli corda e inventare certe scuse pur di non dirgli la verità, essere così suscettibile, evitarlo?

E ora che ci pensava, Sora si era mai rifiutata di guardarlo? Solitamente succedeva soltanto quando era in imbarazzo …

In imbarazzo per un abbraccio di Taichi?

Prima che potesse accorgersene lei stessa, scoppiò a ridere, tenendosi la pancia. Rise, e rise, e rise, perché il racconto e ciò che aveva intuito era così buffo da rendere impossibile crogiolarsi nella malinconia, nella paura, nella tristezza, nei confusi ricordi di abbracci e profumi.

Rise finché non ebbe le lacrime agli occhi, e non sentì Taichi protestare: “Cosa c’è da ridere, adesso?” E allora si zittì, e si rese conto con quanto sollievo sentiva le labbra tirare per aver ripreso a sorridere tutt’a un tratto.

Si rese conto che Taichi aveva cercato fin dall’inizio di portarla a questo, che aveva fatto di tutto per ridarle quella luce che la scoperta di quanto avesse bisogno di avere Takeru accanto a sé aveva spento nei suoi occhi. Si rese conto che non poteva più permettersi di vivere quell’attesa sempre sul punto di scoppiare in lacrime.

E forse, non aveva mai voluto tanto bene a suo fratello, mai.

Gli mise una mano sulla spalla, scuotendo piano la testa. “Non sei costretto a cambiare lavoro: non puzzi di fritto. Parlane meglio con Sora, cerca di capire, ma non dare niente per scontato. Le cose possono cambiare, se lo volete.”

Tutto poteva cambiare, in effetti. Tutto quanto.

Ascoltò distrattamente le richieste di spiegazione del suo compagno, persa a guardare il cielo terso di quella mattina. Da qualche parte, un aereo stava volando sopra le loro teste, lo stesso aereo che trasportava un ragazzo dalle mille potenzialità e dal destino incerto verso un confronto con se stesso che avrebbe, probabilmente, stravolto tutto.

Lo stesso che trasportava le sue speranze, e le sottraeva certezze, mettendole in discussione.

Il suo sorriso si smorzò, mentre riprendeva a camminare, Taichi al suo fianco e il frastuono del traffico e dei passanti come attutito nelle sue orecchie.

Non era una sciocca: in cuor suo aveva intuito da qualche tempo che qualcosa le stava accadendo, che qualche speranza riguardante Takeru si andava creando, e che quelle stesse speranze erano così fragili da essere sul punto di infrangersi miseramente.

Lo sapeva: doveva essere forte, e serena, così che potesse aspettarlo il tempo necessario.

Eppure, sarebbe stata davvero pronta se Takeru avesse deciso di cedere ai suoi tormenti interiori, e dire loro addio?

Sarebbe davvero stata pronta a lasciarlo andare?






Ben trovati :) avrete notato la novità, giusto? Da adesso in poi userò sempre -o quasi- più punti di vista in un solo capitolo! Ho fatto un piccolo ragionamento: ci sono un sacco di cose da trattare ancora, il ritmo deve essere abbastanza celere perché qui siamo nella parte più importante della storia... Come altro avrei potuto fare per trattare così tante situazioni? E così, mi sono decisa ^^' spero che questo nuovo ordine non vi dispiaccia! Da parte mia la novità mi ha un po' scombussolata, per questo ci ho messo tanto a finire il capitolo. xD Ma naturalmente sta a voi giudicare ;)

Che Iori si accorgesse del possibile pericolo costituito da Ken è un passo fondamentale per proseguire le vicende u.u da adesso in poi un indagato inizierà ad indagare su chi lo indaga xD è abbastanza ingarbugliata la faccenda, me ne rendo conto! Resta da sapere cosa ne pensa Miyako della decisione di Iori ... resta anche da sapere che fine ha fatto Miyako, in effetti, e cosa ha pianificato Satsu a riguardo! Ma per questo, vi rimando al prossimo capitolo :)

L'idea delle cartoline è un'improvvisata, lo ammetto xD avevo intenzione di complicare le cose, ma non sapevo esattamente il mezzo migliore per farlo ... fortuna che ci sono le amiche che te le spediscono ;) se avete qualche supposizione in merito alle due ricevute finora, dite pure, vi ascolto volentieri :D

E... sì, alla fine ho optato per il Taiora :P è inutile, mi riesce molto più facilmente!

Non rispondo qui alle recensioni, perché da adesso in poi utilizzerò la nuova opzione di questo sito, che permette di rispondere direttamente sulla pagina delle recensioni. Mi impegno a mandarvi una risposta alle prossime recensioni al più presto :)

Grazie a chi segue e a chi commenterà, è sempre un piacere sentirvi dire la vostra ^^

Padme Undomiel

   
 
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