Ecco, ecco. E’
la prima volta che scrivo qualcosa nel fandom di Harry Potter e beh, spero il
risultato non sia una mezza stupidaggine o una completa schifezza. Ho sempre
sognato di poter realizzare qualcosa su questi personaggi, Narcissa e Andromeda
in particolare. Mi affascinano i loro caratteri, della seconda appena accennato
e l’idea del loro rapporto, di come potesse evolversi dopo la fine della guerra,
la realizzazione di tutti questi elementi uniti era una sfida che mi sono
imposta. E’ una shot semplice, una trama piuttosto banale credo, ma spero ugualmente
possa piacervi ;).
Come
un giorno di neve
Andromeda
per poco non si era scottata dietro ai fornelli preparando la colazione e
Remus, complice al pari suo in quello stupore e pur così pacato di solito,
aveva strabuzzato gli occhi e tossicchiato il caffè che stava bevendo, con
sommo divertimento del figlio che aveva dovuto credere il papà fosse diventato blu
come i suoi capelli per farlo ridere e battuto allegramente le manine.
«Dora…» l’aveva richiamata col suo tono più
esterrefatto, quello che un tempo aveva conservato ai tempi di Hogwarts, nei
momenti in cui mantenere un aspetto dignitoso davanti alla Mcgranitt spettava a
lui solo in qualità di caposcuola, maledicendo però in cuor suo la vena comica
dei due Malandrini per eccellenza che li avrebbe portati all’ennesima,
inevitabile punizione.
Lei
si era voltata, un’espressione truce nell’indignazione –non buffa, o forse solo
un pochino- e le ciocche rosa le cui le punte viravano pericolosamente a una
tinta di viola scuro come i vestiti che sua madre aveva iniziato ad indossare
dalla morte del padre, le labbra sottili serrate in una smorfia senza sorrisi
storti ad arricciarle gli angoli.
Gli
occhi – che Merlino ce ne scampi, aveva pensato!- con l’identica sfumatura di
feroce ostinazione che li aveva animati quando gli aveva riferito senza mezzi
termini che sarebbe diventata sua moglie un giorno, con o priva del suo
consenso.
«Trovi
tanto bizzarro il fatto che io desideri nostro figlio conosca suo zio?» aveva chiesto arcuando un sopracciglio
minacciosa. Remus aveva inghiottito a vuoto e trattenuto un mugolio che temeva sarebbe
suonato disperato oltre che patetico, le lunghe dita intrecciate sul tavolo
della cucina tra il bricco di latte e la ciotola della marmellata.
«E’
tuo cugino Dora. Tecnicamente è anche suo, ma di secondo grado» l’aveva
corretta paziente.
Aveva
tentato di intercettare lo sguardo della suocera, ma Andromeda fissava il
nipote seduto sul seggiolone, tutto concentrato nell’intento di gettare pezzi
di muffin attorno, una strana aria cupa ad adombrarle i lineamenti del volto e
renderla tanto simile alla sorella maggiore che avrebbe potuto farlo
rabbrividire o fremere d’odio.
«Inoltre
non credo quella parte della tua famiglia sarebbe propensa come te all’incontro» aveva aggiunto. Lei non era sembrata
scandalizzata né presa contropiede a quella prospettiva.
Il cipiglio all’Hermione si era fatto più marcato – e buffo-.
«Draco
ha l’età di Harry, non conosce ancora la differenza tra ciò che è giusto e ciò
che non lo è. Si è solo trovato dalla parte sbagliata della linea, tutto qui».
Tutto qui. Sua moglie
aveva così semplicisticamente perdonato al cugino i pluri-tentati-omicidi
preparati a danno di Silente e l’inequivocabile posizione rivestita all’interno
delle file nemiche proselite a Voldemort. E l’aveva guardato senza distogliere
gli occhi dai suoi, quella famosa luce determinata e sfacciata nelle iridi
scure.
Aveva
annuito stancamente allora Remus, pensando tra sé che quando – se- quella guerra avesse visto
conclusione, Draco forse avrebbe potuto anche accettare l’idea di avere un
cugino mezzosangue, figlio di un licantropo ed una metamorfomagus dall’improbabile
capigliatura color gomma da masticare. L’eventualità che il ragazzino dall’aria
apatica e gli occhi grigi di Sirius appartenente ai suoi ricordi d’insegnante prendesse
in braccio suo figlio, gli era apparsa così irreale al momento che aveva
preferito accantonarla in un angolo della mente senza neppure prenderla troppo
sul serio.
Ninfadora
era tornata al proprio the. Aveva girato il cucchiaino sbattendolo contro i
bordi della tazza con violenza goffa producendo un tintinnio ritmico, lo zucchero
aggiunto poco prima tutto raggruppato sul fondo e ora a vorticare furiosamente
nel centro come cristalli di ghiaccio in una bufera.
«In
fin dei conti è quello che Sirius è stato per me, una specie di zio
attaccabrighe» aveva aggiunto incolore con
una strana smorfia.
Remus
le aveva preso la mano stringendogliela nelle sue congiunte; l’aveva scoperta
gelida e tremante.
«Anche
se a volte non risponde esattamente alle nostre aspettative» corrugò
la fronte nello sforzo di non esprimere opinioni riguardo le citate posizioni, «rimane sempre parte di quel che siamo.
Rappresenta quello da cui proveniamo, il punto da cui partiamo prima di
dimostrare quanto valiamo. E’ sangue del mio sangue e spero diventi parte della
nostra –sua- famiglia nel futuro che
stiamo lottando per costruire. Che Draco sia un bravo zio attaccabrighe e gli
insegni a rimorchiare professori che preferiscono far la maglia come zitelle
piuttosto che uscire con eteree fanciulle».
Remus
aveva alzato gli occhi al cielo, intimamente divertito- possibile fosse tanto
astrusa la possibilità di riuscire a fare un discorso serio con lei?- prima di
scoppiare in una risata franca.
«Fammi
capire bene. Da quando in qua io sono diventato una precoce zitella e tu
un’eterea fanciulla? Credo sia piuttosto confusa per quanto concerne la realtà,
Dora cara. Quella che hai appena descritto in un impeto celebrativo è la storia
di Bill e Fleur».
Ninfadora
gli aveva elargito una generosa donazione del proprio amore, sotto forma di un
pugno al braccio.
Andromeda
alle loro spalle, invece, era rimasta in silenzio tutto il tempo, soppesando le
parole appena sentite con la precisione di un pozionista nel misurare gli
ingredienti.
Quando la guerra
sarà finita voglio che Teddy conosca Draco, mamma.
Mamma,
non Remus. Perché, perché dirle una cosa del genere? La richiesta di Dora
ricordava terribilmente quelle che da bambina Ted era solito prometterle di
accontentare. Aveva lo stesso sapore di quella che lui le aveva fatto poco
prima di partire, l’ultima volta che l’aveva visto. Vivo.
Le
provocava la stessa sensazione di paura e nostalgia, veleno rancido alla bocca
dello stomaco.
Quando finirà la
guerra io e te ci prenderemo una bella vacanza, Meda eh?
E
aveva riso, la risata che anni e anni prima l’aveva fatta innamorare e spinta a
disconoscere la sua stessa famiglia e un’intera esistenza, un’infanzia spesa
nell’indecisione che l’incomprensione genera e sentimenti aboliti
nell’adolescenza.
La
risata di Ted uguale alla loro, in quell’istante lungo una vita intera che
precede la fine.
Aveva
ascoltato con crescente ed indicibile orrore le risate della figlia e del
genero, quella spensierata di Ninfadora intrecciarsi a quella roca di Remus e
qualcosa di amaro le aveva ostruito la gola salendole direttamente dal centro
del petto ed espandendosi a macchia d’olio come una bolla di paura.
La
voce di Dora che rispondeva ad un impulso che poi lei avrebbe definito
lungimirante, sovrapposta a quella del padre in un’eco trascinato di morte,
quella che non poteva sapere sarebbe presto giunta, ma che sentiva ugualmente
vicina, di fianco a sé paziente ed immobile.
Il brutto delle
cose è che tendono a ripetersi, sempre.
Mamma, capelli rosa e
sorriso sbarazzino. Meda, occhi
limpidi e risata rumorosa.
Ninfadora… Ted…-
Dio
mio, perché era successo?
*
Eccola
lì dunque. A mantenere una promessa mai fatta alla figlia morta, ad un anno
esatto dalla fine della guerra e dalla sua –loro-
scomparsa.
Strinse
più forte le braccia intorno a Ted sotto il mantello, ascoltandone rapita il
respirare lieve nel sonno contro il collo. Indugiò ancora una volta con gli
occhi, spaziando con lo sguardo serrato per via del vento freddo sugli alti abeti
che costeggiavano entrambi i lati del viale d’accesso a Malfoy Manor.
Si
calò il cappuccio sul viso, sentendolo ghiacciato ed immaginandolo inespressivo
come la tenuta che le si presentava dinnanzi, simile ad un’antica roccaforte di
pietra levigata e finestre gotiche.
Il
portone di quercia a due battenti sotto un arco traforato e portici sormontati
da balconcini con capitelli a trifoglio. Chiuse le palpebre per qualche
istante, sentendo il torpore invadere il lato destro del corpo e percependolo
come qualcosa di benefico.
Il
dolore le era consono, le apparteneva quanto la vita non sua che sentiva
premere in palpiti di sangue e battiti di cuore contro il petto. Una vita la
cui libertà aveva richiesto come prezzo il versamento di altre, spezzate nella
caducità della loro fragile essenza tutta umana.
La
debolezza di uomini e donne nati per sognare e nell’avverarsi di quei labili
incanti sfumati sparire. Figli strappati alle madri e madri strappate ai figli:
il macabro gioco della guerra e gli strascichi amari della sua tarda
conclusione.
Non
servì che bussasse. Un elfo domestico le aprì inchinandosi al suo cospetto in
un gesto servile che lei sapeva non fosse dovuto ad un particolare rispetto nei
suoi riguardi, ma solo a quello provato verso la signora che così doveva avergli
ordinato di comportarsi.
«La
padrona vi attende in salotto» l’accolse con
voce gracchiante facendole strada e Andromeda lo seguì in silenzio, la presa
salda, il mantello indosso ad ondeggiarle intorno all’abito da lutto in uno
strofinio sommesso. Non prestò attenzione all’eleganza per nulla opulente degli
interni e dell’arredamento, un agitarsi teso di viscere ad ogni passo sui
pavimenti sontuosi delle anticamere che le mozzò il fiato.
Merlino, era come
immergersi nel passato che credeva di essersi lasciata alle spalle e dove nulla
pareva essere mutato nel corso degli anni. Tutto era come allora, ogni cosa,
ogni sensazione: la stessa claustrofobia a soffocarla.
Fumo
bruciante a schiacciarle i polmoni, una tossina corrosiva nelle vene,
perniciosa.
Arrivarono
di fronte ad una piccola porta nera, alla fine di un lungo corridoio di
ritratti che avevano storto il naso alla sua vista e a cui lei non aveva
badato.
All’interno
della stanza, un salotto accogliente e luminoso come non appariva il resto
della casa, Narcissa alzò la testa dalle mani che aveva tenuto intrecciate tra
loro così strettamente da avere le nocche imbiancate come lo stucco alle mura,
qualcosa che lei sapeva – ricordava con dolorosa consapevolezza- da piccola facesse
quando particolarmente nervosa o angustiata.
on fu quello quanto la vista del viso della sorella, lasciata bambina e
ritrovata donna, la presa di coscienza dei cambiamenti avvenuti in entrambe,
delle perdite comuni, a lacerarla in fitte di sofferenza penetranti. I capelli
chiari come la luce che filtrava dalle finestre, di un biondo un tempo dorato e
ora di una tonalità meno decisa, più sensibile al grigiore che intercorreva tra
un filo e l’altro di quelle spighe di grano appassite. Una crocchia severa e
una piega quella stropicciata delle labbra, che le rammentò il modo in cui Ninfadora
era solita stirarle per mascherare un sorriso colpevole nella sua innocenza.
Ma
gli occhi, gli occhi erano uguali, grandi polle d’acqua specchiante avvallate nei
tratti scavati di cui ancora serbava memoria quand’erano gonfi, le guance rosse
nell’acerba pienezza dell’infanzia.
Lampi
azzurri di fiori d’acciaio, screziati nel biancore e nell’assenza di un colore definito
in quel pulviscolo cenere che le volava attorno sotto i raggi del sole
mattutino.
Entrambe
si studiarono guardinghe, prendendo atto della presenza dell’altra e di ciò che
essa presupponeva. Sorelle in un terrore comune mai domato, ma solo assopito
alla vista altrui, divise da sentieri che avevano percorso direzioni
differenti, ma parallele e che ora si rincontravano.
«Suppongo
ti sia pervenuto il mio biglietto» iniziò
con ovvietà Andromeda, infrangendo quel silenzio inquieto come gli animi che
l’avevano mantenuto tale.
«Ammetto
di esserne rimasta alquanto stupita».
«Io
stessa lo sono stata nel mandartelo, ma ci sono cose di cui volevo discutere
che ho ritenuto non fosse il caso trattare via gufo»
Fece un passo in avanti spostando il
mantello e mostrando ciò che aveva celato. Teddy continuò a dormire
placidamente sul suo seno, gli occhi chiusi in una posa serena e la testa
piegata contro la spalla, quel giorno piena di ricci scuri della stessa
sfumatura dei suoi.
Narcissa
non diede segni di sorpresa o protestò per quel piccolo inganno. Si avvicinò
allungando il collo sottile e fissò attentamente i lineamenti del bambino. «Questo è…».
«Mio
nipote».
Sulle
labbra della sorella si dipinse un sorriso piccolo increspato di rughe sottili
come carta di pergamena.
«Sei
invecchiata» notò senza traccia di ironia.
«Tu
sei solo cresciuta invece» Andromeda
incrociò il suo sguardo, lo stesso di
allora, pensò Narcissa, quella dolcezza che si era scoperta tante volte a
cercare in Bella senza mai trovarla, ma arricchita da un velo di durezza rivolto
a nessuno in particolare a renderla più fragile e preziosa.
«Sei
diventata una moglie e una madre» osservò fissandola con l’affettuosità che era
stata propria nei loro rapporti fino al momento dell’addio.
«Ho
saputo da membri dell’Ordine di alcuni risvolti curiosi cui tu e la tua
famiglia sembrereste aver preso parte durante l’ultima battaglia. Spero Lucius
e Draco stiano bene» concluse con premura
sincera.
Era tutto vero. Sua sorella era
lì, dopo decenni di lontananza a separarle in modo irrimediabile, a domandarle
della sua vita senza tracce percepibili d’imbarazzo o disagio.
Socchiuse
gli occhi alla luce più forte, quasi accecante e con un colpo deciso di polso e
bacchetta Andromeda mosse le tende chiudendole.
Non
sorrise. Da quando era entrata non c’era stata occasione in cui lo avesse
fatto, tranne che guardando il nipote da cui non riusciva nemmeno a staccarsi.
Era
la stessa Andromeda gentile dei suoi ricordi, solo con una patina di tristezza
maggiore, una malinconia palpabile, una sorta di caligine annebbiata intorno ai
suoi occhi provocata da una vecchiaia prematura e una smorfia che le
strangolava le labbra in un perenne vezzo imbronciato.
Le
sarebbe piaciuto dirle che le dispiaceva, che si rammaricava per quel silenzio
cui l’aveva abbandonata per anni, ma sarebbe stato mentire.
Le
era mancata, ma nel combattere senza sosta contro il pericolo della morte che
incombeva sulla sua famiglia non c’era stato spazio per il rimpianto o qualsiasi
altro tipo di pensieri.
La
sopravvivenza era stata una realtà, qualcosa cui assurgere con faticoso impegno
ed aver raggiunto quel piano di sicurezza in cui da parola vuota e mera essere
liberi dal terrore, liberi, libera,
-la libertà di amare e vivere- era divenuta tangibile e terribilmente vicina,
la rendeva piena di una soddisfazione agrodolce.
Rifletteva
su quanto la finzione l’avesse intaccata e fosse costata ai fini di quella
sopravvivenza, quanto fingere non fosse diventato più autentico e semplice
dell’essere se stessa, della verità.
«Certamente» mormorò.
Andromeda
inclinò il capo da un lato, dischiudendo le labbra come per un sospiro lieve.
«Devo
andare» disse invece e Narcissa sgranò
quello sguardo da bambina solo un po’ più adulta.
Non
le chiese di restare, non le domandò di tornare. Aveva menzionato argomenti di
cui avrebbe voluto discutere con lei, ma non avevano parlato d’altro che della
sua famiglia; domande riguardose, quasi banali. Si chiese che significato
avesse quel comportamento.
Teddy
mugolò qualcosa stringendo i pugni minuscoli contro i bottoni che le chiudevano
la veste alla gola e la tenerezza ammansì gli occhi di Andromeda, mitigando il
dolore che urlavano in ogni momento tranne che posandosi su di lui, una
tranquillità lenta e affossatrice.
Andromeda
aveva fatto il primo passo, toccava a lei fare il secondo. Scansò con il palmo aperto
l’elfo già accorso e accompagnò personalmente la sorella.
Tornerai?- avrebbe voluto
chiedere. Perdonerai mai?- ma rimase
zitta.
Sulla
soglia Andromeda si voltò verso di lei. A differenza sua il
tempo non aveva
mostrato comprensioni di sorta. Aveva i capelli striati da più
scriminature
bianche di quante l’età non prevedesse, vecchia nella sua
disperazione, nell’angoscia che le sprofondava le palpebre
–gli occhi dolci di Andromeda
scuri come non mai e simili a quelli neri di Bella prima che la follia
se la
portasse via, prima che tutto la
rendesse fuori di sé-. Troppe cose da sopportare, troppa infelicità,
insoddisfazione, desideri calpestati e infranti, c’era troppo nella figura
scarna di Andromeda che le fece desiderare di poter ritrarsi, allontanare la
vista dalla sua. Faceva male vederla così.
Aveva
pensato che nella sua fuga sarebbe stata felice, si era consolata in quel sogno,
cullandosi in quella visione bella come buona era stata lei, quella favola da
principessa troppo meravigliosa per essere reale.
Fece
per dire qualcosa, voleva dire qualcosa, non sapeva neppure lei, ma Meda la
precedette, come sempre. Era lei la maggiore tra loro, la più grande e matura...
«Tu
sei stata migliore di me». C’era una nota
orgogliosa di fondo che le scaldò il cuore, prima che le parole successive di
lei glielo accoltellassero.
«Sei
riuscita lì dove io ho fallito» la elogiò
stringendo appena i pugni, le falangi irrigidite in una postura resa dolorosa da
una pressione troppo forte. «Hai protetto
chi amavi».
Non
era pena no, quella che la divorava come un cancro dall’interno, pezzetto dopo
pezzetto con lentezza atroce. Sarebbe stato crudele e lei odiava la
compassione. Era un supplizio maggiore del peso stesso della croce che ognuno
riceveva nella sua esistenza. Prenderle la mano e abbracciarla come aveva
desiderato fare vedendola diventare bruciatura in casa Black, sentendola così
lontana da lei da odiarla, così coraggiosa da volerne seguire le orme. L’amore
era coraggio e pianto, l’aveva imparato osservandola scappare e confondersi tra
le ombre della notte per inseguirne il profumo. Cos’era rimasto ora del
coraggio in quel lamento pieno di strazio?
Teddy
si mosse ancora e Narcissa fu sicura di aver intravisto un lampo grigio -come
Draco e Sirius- tra le palpebre abbassate, frementi di sogni che vi si accavallavano
in punta di ciglia.
Andromeda
le diede le spalle incamminandosi sul selciato. Fruscio della gonna a
spazzolare la polvere e ticchettio di stivali, rumori di pioggia in un giorno
invernale, ma lei fu altrettanto certa nel vederla scomparire sotto la cascata
di foglie secche e ramate, che le avesse rivolto un cenno con la mano: una
promessa. Sarebbe tornata.
*
Era
tornata un anno dopo. In novembre, quando le foglie erano già tutte cadute e
dell’autunno non restava che il bruciato dei colori, stemperato in un marrone-
nero in cui tutto convergeva come in un vortice risucchiante. Tra le pieghe del
mantello, non più nascosto, non più in braccio né addormentato, Ted Lupin
l’aveva studiata sfacciatamente prima di rivolgerle un sorriso che gli aveva
riempito metà della faccina pallida. Aveva gli occhi marroni quella volta, come
il terreno umido di fango e melma che avevano calpestato e gli aveva sporcato
la punta delle scarpe da ginnastica prima che Meda gliele ripulisse con un
incantesimo, del colore che –lui questo non poteva saperlo- aveva fatto
ricredere Ninfadora sull’essere noioso di un certo professore a caso.
Marrone
castagna affogato nel miele e nell’ambra, pagliuzze d’oro al sole, ocra e
bronzo al buio, nelle notti più lugubri e misteriose con lune sanguigne ad azzannare
il cielo scuro.
La
zazzera indomabile di un’eccentrica tonalità blu elettrica, una goffa marcia tra
un passo e l’altro e smorfie strane.
Andromeda
aveva lasciato la sua mano, indulgente, permettendogli di precederle nel
corridoio dai pannelli in legno, con i quadri che brontolavano per il chiasso.
Le aveva sorriso discreta e in quel sorriso nuovo che ancora non arrivava a sfiorarle
l’iride spenta, Narcissa aveva visto un frammento dell’Andromeda gentile che
continuava ad amare e sperare di riavere indietro.
E
poi ancora. Visite sempre più lunghe e con pause sempre meno distanti l’una
dall’altra.
Quando
Andromeda le aveva scritto la sua prima lettera, Narcissa aveva dovuto rassicurare
più volte Lucius di stare bene e che la sua fosse una semplice allergia causata
dal cambio di stagione. La seconda aveva finto le fosse finito qualcosa in un
occhio, alla terza lui non le aveva creduto più.
Teddy
aveva detto la sua prima parola – non nonna né Harry come alcuni si erano
aspettati con trepidazione-. Aveva pronunciato solo Vic che era la figlia di Bill e rappresentava già il più grande
amore di lui, anche più grande della venerazione che nutriva per il suo lupetto
di peluche e la coperta di lana rosa che era appartenuta alla mamma. La
chiamava zia Cissy ormai e quando la vedeva le si buttava sulle ginocchia
stringendogliele come a non volerle più lasciare. Era un bambino espansivo, sorrideva
sempre a tutti e perfino Lucius ritrovandoselo nello studio per caso si era
riscoperto colpito “dalle doti
linguistiche del moccioso”, beninteso dopo scontati dubbi e sospetti al
riguardo.
«Che tu sappia
esiste la recondita possibilità Draco abbia un figlio?» le
aveva domandato con sconcerto incredulo e titubante. Lei aveva alzato di poco
gli occhi da una lettera appena ricevuta da Andromeda, premunendosi però di
nascondere al marito la vista del sorriso che le aveva gualcito le labbra come
grinze in un tessuto di seta.
«Se ti riferisci
al bambino biondo nel tuo studio, Lucius, si chiama Teddy è sì, è tuo nipote. Il
figlio di Ninfadora»
aveva sottolineato dopo essersi concessa in
regalo una pausa di troppo.
Lucius
aveva presto imparato a ritrovarselo tra i piedi ad ogni sua visita e per
distrarlo aveva altresì compreso fosse utile ad entrambi preparargli qualcosa
da fare, così da occupargli il tempo in modo proficuo e non lasciarlo libero di
bighellonare nelle sale vuote, a crear scompiglio a sua giustificazione.
*
A
tre anni da allora, Andromeda tornò. Era sola e alla sua espressione
interrogativa scrollò le spalle.
«Finale
di quidditch» bofonchiò in tono pregno di
disapprovazione e lei si ritrovò ad annuire compartecipe. Lo stesso Lucius non
l’aveva forse costretta per anni a recarsi a quelle barbose partite d’altronde?
Percorsero
l’usuale corridoio sentendo il silenzio pesante che l’assenza di Teddy e del
suo correre festoso provocasse. Più di un quadro prese a mormorare infastidito
al loro passaggio e una voce si levò tra le altre, sprezzante e arrogante. «Finalmente si avrà un po’ di pace. Niente
moccioso fra i piedi oggi».
«Già,
Phineas. Oggi potrai riposare senza che nessuno disturbi il tuo quotidiano
riposino di diciotto ore. Ti pregherei però di fare lo stesso cercando di non allietarci
con la tua voce soave» ribatté in tono denso
di sarcasmo Andromeda. Non si fermò ai richiami oltraggiati che sovvennero dal
quadro dello zio né a quelli di molti altri. Solo la voce burbera di uomo dalla
cornice dorata e un insolito sfondo urbano riuscì ad attirare la sua
attenzione.
«Mi
pareva di aver sentito la deliziosa verve della piccola Andromeda ed ora eccola
qui».
Andromeda
si ritrovò ad osservare la folta barba di Alphard Black con affetto. «E’ un piacere vederti zio Alphard, ma ho smesso
di essere piccola da tempo oramai» replicò
con gentilezza.
«Questo
lo vedo da me» rise lui soppesando la sua
figura con approvazione.
Gli
occhi grigi dello zio erano di una tonalità troppo familiare e dolorosa perché
lei potesse scrutarvi dentro tanto facilmente. Sirius aveva posseduto la stessa
malizia nello sguardo antracite dal sapore di rugiada, la stessa impetuosa
forza bruciante, lo stesso sorriso malandrino. Sentì le spalle irrigidirsi e
Narcissa accostarsi.
«E
dimmi nipote è vero che sei già diventata nonna? Che il simpatico monello che
gironzola qui di tanto in tanto è il figlio di Ninfadora?»
Dora. Un’altra
fitta, più forte delle altre. Si costrinse a rispondere con una disinvoltura
che era ben lontana dal provare. « Sì, si
chiama Teddy».
Lo
zio le rivolse una lunga occhiata indagatrice prima di aggiungere: «In onore di tuo marito, immagino».
Già,
Ted. Ted e le sue mani grandi. Ted e il
suo abbraccio soffocante. Ted e il suo senso dell’umorismo, la mania per le
barzellette sconce che non la facevano ridere. Ted che adorava prenderla in
giro e chiamarla perfettina e lasciava una scia di disordine ovunque andasse.
Ted e quella sua risata profonda che sgorgava dritta dal petto facendolo
gorgogliare e tremare sotto le sue dita.
Narcissa
le artigliò il braccio e Andromeda non si accorse della lacrime che le rigavano
le guance. Non si accorse neppure dell’espressione colpevole dello zio e colma
di dispiacere. Seguì la sorella minore e quella presa intorno al gomito, i
polpastrelli affondati nella piega morbida dell’avambraccio con fermezza che
nulla aveva di delicato. Narcissa era sempre stata ben lontana
dall’assomigliare al debole e capriccioso fiore da cui prendeva nome, forse
simile solo nell’essenza mera di un’esteriorità fallace.
Alta
per svettare con l’alterigia e la boria che solo un Black dal sangue nero
poteva vantarsi di avere, l’illusoria gracilità di spalle e ossa cave come
quelle di un uccellino e l’insospettata caparbietà delle sue idee, bianca e
azzurra come un pallido giorno d’inverno al suo stoico splendore.
«Devi
calmarti» sussurrò con asprezza, le pupille dilatate e i
lineamenti esili contratti nel condurla, un passo dopo l’altro. «Non dar loro questa soddisfazione e non privare
te di quella data dal saperli invidiosi della tua forza».
La
poltrona era vicino alla finestra, il fuoco nel camino acceso e riverberato da
grandi fiamme verdastre, le lunghe code biforcute che spandevano nell’aria un
piacevole tepore e un vago sentore fragrante di bosco ed erbe.
La
luce non era abbagliante o forse era lei che non riusciva a scorgere nella
spessa cortina di tenebre che le annebbiava lo sguardo, altro che non fossero i
loro tratti evanescenti.
Li
vedeva susseguirsi come in una processione e sentiva risuonare tra le pareti
del cranio la perpetua scia ripetuta delle loro risate fragorose.
«Per
carità Meda». Il bisbiglio dolente di Narcissa e quel Meda carico di apprensione.
Sbatté
le ciglia una, due, tre volte. Rughe d’impotenza a solcarle la fronte e le due
estremità delle labbra arcuate verso il basso. Le falangi sovrapposte sul
grembo insolitamente vuoto e freddo.
«A
volte…» Aveva la gola e il palato impastato,
l’esofago reso stretto da un nodo aggrovigliato di buchi inconsolabili. «Sì, a volte penso avrei preferito non fare quello
che ho fatto, non scegliere il cuore. Mi sarei risparmiata tutto questo dolore». Quella confessione probabilmente provocava più
dolore di tutto il resto. Le faceva pensare che loro non avrebbero approvato ascoltandola parlare a quel modo, che
ci sarebbe stato biasimo nei loro occhi, che quelle parole avrebbero suscitato
scalpore e sorpresa riprovevole. L’avrebbero criticata, considerandola indegna
della vita che a loro era stata negata?
«Non
sarebbe stato da te». La voce di Narcissa non era garbata né
melliflua: una stoccata che nella doverosa durezza di cui era forgiata, la
riportava a riaffacciarsi alla realtà che troppo spesso si era ritrovata in
condizione di desiderare scomparisse sotto i cumuli di menzogne con cui la
farciva. «L’amore è sempre doloroso, in ogni
sua forma». Sembrava davvero capirla e lei anche
se per poco se ne fece cullare e trascinare, come in una corrente di fiume.
«Rivedo
tutti quanti in Teddy sai? C’è un po’ di ognuno di loro nei suoi occhi». Ma quel vuoto, quello squarcio insanabile che
neppure Teddy -il sorriso di Dora sul
viso di Remus e le mani di Ted con l’espressione birbante di Sirius-
riusciva a colmare e risanare, era così
tormentoso.
Narcissa
allungò le mani, in un gesto abbozzato pregno di un riserbo cauto, impacciato
nell’esitazione che lo motivava. Quelle candide e lunghe di lei strinsero i
pugni stretti di Meda aprendoglieli con risoluzione umile. Non avevano calli né
cicatrici, al contrario palmi morbidi e lisci, unghie corte, ma curate. Linee
appena accennate e dorsi con venature bluastre ad interrompere l’armoniosità di
un rosa perla giovane come non lo era più la proprietaria. Erano mani da
guerriera pur non conservando visibili le loro ferite da battaglia. Si chiese
quante altre volte le avesse strette tanto da imprimere incisioni graffiate
nella carne tenera come in quell’istante, quante volte ancora avesse morso
l’interno delle guance ed evitato di dare giusto posto al grido che aveva a
raschiarle la gola e non trovava mai suono.
«Forse
è il cuore a mostrarti quel che desideri vedere».
La
felicità, l’infelicità… erano tutte opzioni vane, contorte. Colme di trappole
ingegnose a macchiarle irrimediabilmente ed offuscarle come vetri appannati
sotto gli aliti tremuli di una tempesta in arrivo. Trent’anni prima Andromeda
aveva rinnegato il proprio sangue, la famiglia e il buon nome e tutto questo per
una visione che le si era prospettata migliore, un anelito ingioiellato di
mille promesse e aspettative. Ed era stata felice Andromeda, glielo si leggeva
in viso, in ogni crepa che la perdita di quella gioia paga e completa le aveva
causato. Non avrebbe sofferto a quel modo altrimenti, non così a lungo e tanto
profondamente.
Era stata felice e la felicità non poteva essere dimenticata né
insabbiata al contrario della sua nemesi per eccellenza. Ogni sentimento felice
arrecava un quantitativo non indifferente di pena e questo per renderlo più
umano e bello alla fine della sua ricerca nonché al sospirato conseguimento.
Erano
fredde nelle sue quelle mani, come lo era stata la mattina che era arrivata lì
per la prima volta col piccolo Teddy addormentato tra le braccia. «Suppongo tu abbia ragione».
Andromeda
levò lo sguardo che aveva tenuto puntato sul bracciolo di velluto della
poltrona, lucido, ma in qualche modo più sereno ora. Sembrava così simile a
quello che lei aveva gelosamente conservato nelle sue memorie che Narcissa
pensò potesse non essere tutto perduto, che esistesse sempre la possibilità le
cose andassero al loro giusto posto, si accomodassero.
*
Era
sopraggiunta la primavera del quarto anno. Era mezzodì di una nuvolosa giornata
di fine aprile e Teddy era steso sul tappeto a pancia in giù a giocare con un
Grattastinchi piuttosto vecchio e malconcio. Aveva i capelli di un rosso acceso
e violento, gli occhi scuri e rare efelidi sparse qua e là. Lucius aveva storto
il naso al vedere quello scempio e alzato gli occhi al cielo ringhiando
qualcosa di incomprensibile, ma assai poco lusinghiero riguardo al fatto che quei
dannati Weasley avrebbero finito col deviarlo.
«Hai
fatto un buon lavoro con Draco».
Narcissa,
impegnata a rispondere ad alcune missive alla scrivania, sorrise moderatamente
all’indirizzo del barbagianni di fianco a lei e appose la sua firma in fondo alla
lettera.
«Ho
cercato di fare il possibile» si schernì,
nella fierezza che quel complimento le portava.
Il
gufo volò alla finestra, aperta dal movimento aggraziato di una bacchetta non
sua e poi subito richiusa; lei l’osservò trasformarsi in un puntino nero nel
cielo fumoso e infine scomparire.
«Ho
sentito del fidanzamento».
La
voce di Andromeda era allegra, ma costellata di un’ironia soffusa e trionfante che
ritenne fuori luogo in quella determinata occasione. Era logico pensare ne
avesse sentito parlare, soprattutto in considerazione del soggetto del
pettegolezzo e visti i rapporti amichevoli che ne intratteneva, come era oltremodo
logico anche ritenere arrivasse a comprendere che di quell’argomento fosse vietata
la discussione in modo esplicitamente implicito tra quelle mura.
E
la guardò, come a chiederle silenziosamente cosa di preciso in quella notizia
inaspettata per tutti riuscisse a trovare motivo di letizia. Andromeda scoppiò
a ridere, sfoggiando quella sua nuova risata dal retrogusto antico e un poco
amarognolo. «Non dovrei dunque mostrarmi
lieta all’idea che mio nipote sposi una ragazza brillante come Hermione
Granger?»
«Andromeda» la riprese lei, come ammonendola. L’altra sbuffò
senza darsi però pena di nasconderlo. «Cosa
c’è? Lucius deve ancora riprendersi dal trauma procurato dalla novella? O forse
è il particolare delle origini non magiche della futura nuora a scuotere le
fondamenta del suo fragile ego?» insinuò scoccandole un’occhiata in sordina.
Narcissa
nascose con prudenza riflessa il sorriso che le era spuntato involontario. «Trovo sia troppo impegnato nel programmare come
sventare la sciagura per rendersi pienamente conto del resto e a quel genere di
cose ha comunque finito con il soprassedere da tempo a suo modo».
Lo
sguardo era scivolato sulle gambette in movimento di Teddy ed il sorriso si era
mostrato in tutta la sua limpidezza. «Mi
stavo domandando piuttosto» riprese, procedendo
con la lettura di una nuova pergamena, «cosa
di preciso ti abbia convinto a portare quel mezzo Kneazle con voi» concluse, alludendo all’oggetto di giochi che
soffiava in sua direzione con fare bellicoso e ostile.
«Una
richiesta di Draco. Sembra tuo figlio quest’oggi avesse l’intenzione di rendere
a parte del suo ambizioso progetto di matrimonio anche la sposa e non volesse
elementi d’intralcio ad ostacolarlo».
Narcissa
alzò di scatto il capo, sgranando gli occhi, di un celeste quasi trasparente
nella luminosità bluastra di quella giornata uggiosa. «Vuoi
forse dirmi che non gliel’ha ancora chiesto? Per Salazar!- cosa aspetta? Non si
parla d’altro ed è sulla bocca di tutta la comunità magica oramai».
Andromeda
scrollò le spalle e le dita continuarono a far passare l’ago con abilità nei
punti della stoffa di lino. Era qualcosa la passione per il cucito, la
tranquillità del sentire i fili unirsi e assumere una forma definitiva sotto
gli incroci esperti dei ferri non incantati, che aveva abbandonato da anni e
solo da poco riscoperto.
«Suppongo
temesse un suo rifiuto e abbia preferito strapparle il sì per sfinimento» replicò, scatenando il disappunto della sorella.
«Draco non ha certo bisogno di trincerarsi
dietro simili trucchi perché lei accetti la sua proposta» obiettò con orgoglio tutto materno, benché giustificato.
«Sembra
tu stia dimenticando chi è la lei in
questione. C’è un decennio di odio reciproco e un’ascia di guerra da
sotterrare, è chiaro il perché fosse tanto agitato all’idea di domandarglielo
direttamente».
Narcissa
sospirò stringendo le mani affusolate davanti a sé, fissando i petali schiusi
delle primule sul tavolino nell’angolo della stanza e immaginando come sarebbe
stato immergevi il viso, sentirne l’inebriante fragranza inondarle le narici.
«Credi
esista…» inghiottì a vuoto prendendo un
respiro profondo, «la remota possibilità che
riceva un no in risposta?». Mascherava così
anche il timore segreto che il pensiero di quella coppia le cagionava. Potevano
individui tanto diversi ottenere la serenità che altri più assortiti e con meno
problemi alle spalle non avevano saputo trovare nel loro cammino insieme?
Andromeda
si prese del tempo, ponderando con calma prima di darle una risposta.
«Si
tratta di un connubio improbabile quello tra grifoni e serpi, ma non
impossibile. E d’altronde sono tra le quattro case sicuramente le più vicine nell’avversione
che le accomuna e con la distinzione più acuta da cogliere; l’orgoglio è
qualcosa di molto simile alla perspicacia dell’astuzia in fondo. Inoltre conosco
entrambi abbastanza da credere non vi sia nulla di male assortito nella logica
di Hermione che non possa combaciare e trovar riparo nella mente sofistica di
Draco. Posso quindi dire a mio avviso che se la caveranno egregiamente».
Dava
per scontato che lei avrebbe risposto positivamente ovvio, ma non aveva parlato
di amore né di frivolezze come i sentimenti. Era stata un’analisi ingegnosa e
accurata dei caratteri dei due ragazzi, nulla tuttavia che facesse trasparire
vi fosse qualcos’altro che le permettesse di supporre cosa esattamente li
avrebbe resi capaci di cavarsela
egregiamente.
La
piuma di pavone grattò contro la carta, la cera smeraldo della candela, lo
stoppino ardente e sul punto di liquefarsi e il timbro di ferro pronto a marchiarne
la chiusura una volta completata la stesura a poca distanza, di fronte alla
boccetta trasparente d’inchiostro nero.
Prima
potesse fare alcunché però venne distratta nuovamente dalla risata di
Andromeda. Ne incontrò il viso, meno segnato e con occhiaie poco pronunciate
pur se visibili, e non le sfuggì la scintilla di divertimento con cui le indicò
un allocco sul davanzale. La voce curiosa ed eccitata di Teddy a ragguagliarla
su un’informazione già in suo possesso: «Quello
è l’allocco di zio Draco!».
Pregando
in una notizia che neppure lei sapeva decidere a scegliersi tra le due sole
possibili alternative, Narcissa si apprestò ad aprirla: poche, concise parole
vergate nell’inconfondibile grafia spigolosa del figlio. «A quanto pare il tuo intuito non sbagliava, Meda.
Presto avremo un’altra aggiunta in famiglia».
I
trilli festosi di Teddy impegnato in un buffo valzer approssimativo con il
gatto dal muso alla McGranitt e quella risata che nonostante tutto riusciva
sempre e comunque a scaldarla.
*
Nel
treppiedi tra loro tazzine da the e dolci di Mielanda che Draco non mancava mai
di mandare loro ogni settimana, insieme ad un biglietto di scuse circa un
imprevisto tale che avrebbe impedito a lui e ad Hermione di essere presenti al consueto
pranzo domenicale.
In
effetti era la quarta settimana che le veniva recapitato lo stesso messaggio:
scuse evasive e prevedibilmente diverse, medesimo l’intento. Ne aveva letto quindi
il breve contenuto corrucciando la fronte, ma non aveva aggiunto niente a
quell’espressione che parlava da sé sulla reazione che esso avesse ottenuto e riscontrato.
Solo qualche anno dopo al loro fidanzamento, Narcissa era stata costretta a
concordare con la descrizione che Andromeda le avesse fornito del figlio e
della nuora. Superate le barriere create da pregiudizi antichi, poco amichevoli
primi incontri e differenze difficili da sormontare, Hermione si era rivelata
la moglie che lei stessa avrebbe scelto per Draco.
C’erano
a volte pensieri ad offuscare la gioia di quella riflessione – ombre e spettri
che niente riusciva a cacciare-, ma Narcissa aveva dato prova di essere una
donna energica oltre che testarda e di quella nuora vedeva solo i pregi di un
carattere determinato e non i difetti di un sangue che la magia doveva
possederla per costrizione viste le innegabili doti della sua bacchetta
nell’incantare questo e quello o trasmutare gli oggetti in furetti dal candido
pelo bianco, cosa che -si era scoperta ad osservare con un certo susseguo
perplesso- provocava non poca avversione tediata in Draco il cui colorito
pareva virare misteriosamente dal rosa al terreo e viceversa.
«Mi
auguro vada tutto bene. Non è ormai un mese che disertano i tuoi pranzi in un
modo o nell’altro, Cissy?».
Andromeda
aveva impietosamente girato il dito nella piaga, ma Narcissa non era stata
troppo occupata ad afferrare il suono di quell’appellativo mai più usato prima
di allora per rendersi conto dello sprazzo furbesco insito nella sua domanda.
Aveva
sospirato lievemente allora e fissato con recriminazione la firma imputata.
Qual era il motivo reale di quelle defezioni? Andromeda aveva riso sotto i
baffi.
«Gradirei
essere messa a parte del motivo che ti porta a ridere della sottoscritta, Meda.
C’è forse qualcosa che sai e di cui io non sono ancora a conoscenza che vuoi
dirmi?» aveva chiesto lei risentita.
«Mi
stavo soltanto domandando se sarà possibile questa volta che sia io a dare la
notizia a Lucius».
La
comprensione farsi largo in lei prima della rassicurazione finale. «Sembra che Teddy presto avrà un altro cugino».
La
risata limpida anche nelle ombre di Andromeda come condanna – la più
meravigliosa riuscisse a immaginare- e quella che sarebbe stata per contro la
reazione di suo marito.
Sorrise
arricciando appena gli angoli della bocca, qualcosa che le sbocciava in petto
come un fiore di felicità le cui corolle aveva timore di sfiorare e vedere
sfiorire, come le ali di una farfalla che appena violate da goffe dita umane perdono
il dono magico di volare.
«Ti
ringrazio, ma no. Preferirei evitare a Lucius un altro collasso. Ricordi vero
che l’ultima volta hai rischiato di mandarlo al San Mungo per esaurimento
nervoso?» domandò in un rimprovero per nulla
sottointeso.
Le
parole di Ninfadora si era rivelate da tempo nella sua mente rivolte a lei per
un motivo preciso.
Che
avesse voluto sin dall’inizio fosse soprattutto lei a ritrovare parte di quella
famiglia perduta in nome di una altrettanto cara?
Andromeda
sorrise con una dolcezza soffusa d’ironia e riprese a sferruzzare.
«Come
potevo sapere che soffrisse di pressione alta?».
Narcissa
scosse la testa in un diniego accennato e divertito, una risata muta come il
cadere soffice di fiocchi di neve, ma che mise definitivamente a tacere il
rimbombare di altre, frammenti di ricordi e squarci di cuore aperti, frenando
il flusso irrequieto di sangue. Ghiaccio su ferite in via di guarigione, balsamo
dal retrogusto sciroppato su croste irrobustite dall’abituarsi di un inverno
temperato in vece di una primavera soleggiata.
Era anche quella
la famiglia per cui aveva sempre lottato.