Capitolo
11 – Starai bene, qui
A
poco a poco tornò la luce. Le ci vollero un paio di secondi
per rendersi conto
che si trattava, però, di luce naturale.
Si
trovava di fronte ad un edificio malandato, che le suscitava una
sgradevole
sensazione di dejà-vu. Sapeva di conoscere quelle cancellate
dipinte di verde
erose dal tempo e dalla ruggine, ed il giardino all’interno,
polveroso come se
non fosse stato curato da almeno dieci anni.
Jessie
sentì che la sua mano, così piccola, era stretta
in quella grossa di un uomo
molto più grande di lei. Quando quella mano si mosse, lei
voltò la testa verso
di lui.
Indossava
un’uniforme nera, anche quella così tremendamente
familiare. Una coppola era
calata sul volto, ma le sembrò comunque di riconoscere chi
si celava sotto la
visiera. Aveva il collo doppio e la mascella squadrata, e nella sua
ingenuità
era convinta che quell’uomo così buono con lei non
potesse essere altro che un poliziotto.
“Mi
dispiace, piccola” le mormorò, quasi in un
sospiro. La sua voce era profonda. “Ma
te lo giuro: starai bene, qui”.
Lei
non sapeva precisamente perché, ma si sentì
improvvisamente presa dallo
sconforto. L’uomo doveva essersene accorto, perché
con le dita doppie le
asciugò due lacrime che ancora non erano cadute dai suoi
occhi. In quel momento
lei non seppe trattenere il pianto, e frignò letteralmente,
cercando di
asciugarsi con la manica della camicetta di raso le lacrime che
sgorgavano
copiose. L’uomo le abbassò dolcemente le braccia,
e la guardò negli occhi. Era
così buffo, accovacciato, grande e grosso
com’era(1).
“Non
piangere. Non mostrarti mai così davanti a nessuno,
nessuno” disse, serio. Lei
singhiozzò silenziosamente, incapace di smettere di
guardarlo.
“Ascoltami
bene: niente in questa vita ti viene dato gratis. Tutto è
contro di te, e se
non sei abbastanza forte non potrai sopravvivere”.
Lei
sentì di aver dimenticato quelle parole. Ma ora ne aveva
capito il messaggio:
la mamma non avrebbe voluto che soccombesse al suo destino.
Ricordava
una piccola lapide bianca. Ed un uomo dai capelli bluastri che la
fissava, torvo.
Era
seduta, china a guardarsi le mani. Anche la panchina era troppo fredda.
Tutto
era troppo, e tutto le sembrava sempre troppo stretto e troppo ingiusto.
Alzò
un secondo lo sguardo, per vedere un gruppo di quattro bambine che
passavano
tenendosi per mano, e ridendo di lei. Si sistemarono sulla panchina
rossa a
sinistra, ed una di loro era riuscita a recuperare una sacca di
giocattoli da sorella
Joyeline. Ne tirò fuori una casa giocattolo visibilmente di
seconda mano a cui
mancava un pezzo, posandola sul pavimento con una certa cura
nell’evitare che
si rompesse ulteriormente. Il resto delle bambole le tirò
fuori rovesciando il
sacco per terra, ed ognuna delle bambine ne arraffò almeno
una. Lei sapeva che
quello che cadeva nelle loro manacce era esclusivamente di loro
proprietà, e
sebbene non si facesse scrupoli nello strappare cose di mano agli altri
bambini, era consapevole della superiorità numerica.
Tornò a fissarsi le mani,
crucciata.
“Ragazze,
perché non la facciamo giocare con noi?”
sentì una di loro dire.
Le
altre bambine rimasero un attimo interdette.
“Su!”
“Ma
perché?” sentì chiaramente la voce
stridula di Susie. “Jessica è cattiva!”
Jessie
si alzò in piedi, la gonna blu dell’orfanotrofio
grande una taglia in più le
ricadde al di sotto delle ginocchia. Sentiva un groppo in gola, ma mai
avrebbe
dato loro la soddisfazione; si avviò verso
l’uscita.
“E’
il suo compleanno” ribatté l’altra.
Jessie si fermò vicino all’uscita, poi
riprese a camminare fuori quando sentì Mel rispondere:
“e allora?...”
Senza
rendersene conto, stava correndo invece che camminare, e appena scese
le scale sbatté
contro la gamba di sorella Joyeline.
“Jessica,
dove vai? Non puoi uscire così, fa freddo fuori!”
Ma
Jessie non se ne curò, accecata dalle lacrime trattenute che
le offuscavano la
vista. Aprì la porta pesante d’entrata e si
precipitò fuori, nella neve precoce
di novembre.
Tremava,
ma non le importava. Era così in collera che nemmeno il
freddo riusciva a farla
rinsavire. Si fece strada tra i fiocchi di neve che scendevano lenti, e
trovò
rifugio sotto uno degli alberi che si trovavano nel giardino.
Si
sedette sul terreno sporco e bagnato dove la neve ancora non era
arrivata, e si
coprì il volto con le mani perché odiava la sola
idea di piangere davanti a sé
stessa, sebbene non riuscisse ad evitarlo. Era colma di rabbia, una
rabbia che
non aveva la possibilità di sfogare, e avrebbe voluto
urlare. Ma sapeva bene
che non sarebbe servito a niente.
Si
stropicciò gli occhi con le mani e guardò davanti
a sé. Una montagnola di neve
stava ai suoi piedi, sporcata dal fango. Senza pensarci due volte ne
prese
grandi manciate con le piccole mani, e se la cacciò in
bocca. Era così fredda
che le faceva un male cane ai denti, ma non le importava.
Neve,
neve per riempirsi lo stomaco di un calore che non aveva
più(2).
Afferrava
la neve dal terreno come se si stesse facendo una scorpacciata di
dolci,
noncurante delle foglie e del fango che si ficcava in bocca, convulsa
dal
dolore e dall’ira.
“Jessica,
Jessica!” Sorella Joyeline la chiamò, ma non
riuscì ad evitare che suor
Widebutterfree le mollasse un sonoro ceffone e la tirasse su come un
sacco di
patate.
“Che
ti salta in mente, piccola peste?” gridò suor
Widebutterfree, che le sembrava
così forte. “Sei fredda come il
ghiaccio!”
Se
la caricò come se fosse stato una balla di fieno, incurante
del fatto che la
piccola Jessie si dimenasse e strillasse, la faccia gonfia di pianto e
le mani
rosse di neve, che avevano ormai perso sensibilità.
“Vi
confesso di provare una certa apprensione nel lasciarvi, ma so che vi
sorveglierete a vicenda e non combinerete pasticci. Jessica?”
Guardò
di sottecchi la giovane Jessie, leggermente imbarazzata per quel
riferimento a
lei. sapeva di essere sempre stata la spina nel fianco di quelle
suorine, che
la cercavano dappertutto per farla andare a scuola, che a volte la
picchiavano
perché non voleva pregare e la lasciavano a disperarsi nella
chiesa, come invito
alla preghiera.
“Mi
stai ascoltando?”
Odiava
quelle suore con tutta sé stessa, e ricambiò alla
direttrice uno sguardo di
sfida.
“Mi
raccomando, Cassidy” si rivolse, questa volta, a lei.
“Non
si preoccupi, suor Widebutterfree” rassicurò
spavalda, e in quel momento Jessie
provò un bruciante fastidio per come lei si atteggiasse a
sua balia.
“Ci
penserò io a quella testa calda di Jessie!”
Cassidy
aveva una grande dote che giocava a sfavore di Jessie: qualunque
schifezza
combinasse, riusciva immancabilmente ad uscirne pulita. Non importava
se poi
tutto lo schifo ricadeva sulla sua presunta migliore amica.
Ma
cosa poteva farci? Dopo Austin(3), ormai, le era rimasta solo lei.
Poteva solo
accontentarsi.
Si
preparò le sue cose nella ventiquattr’ore, e
pregò che sua madre potesse
proteggerla. Si mise gli orecchini verdi, che era tutto quello che
aveva di
lei, e uscì fuori da quel posto malandato di cui conosceva
oramai ogni crepa(4).
Uscirono
l’uno dopo l’altro dal giardino, e
l’ultimo si chiuse alle spalle il cancelletto
sgangherato. Jessie restò un attimo a fissare
l’istituto.
Ognuno
di loro iniziava il tirocinio per un lavoro “di
strada”, come veniva chiamato:
la scuola dell’obbligo, per loro della classe professionale,
era finito. Finalmente.
“Hey,
allora? Hai finito di contemplare il panorama?” Cassidy
sbuffò, pettinandosi i
capelli mentre parlava. Jessie non sapeva da dove le venisse tutta
quella
pazienza: oramai, solo il suono della sua voce le dava fastidio.
“Possiamo
andare, Cassidy” ribatté seccata.
“Sempre che tu sappia dove
andare”.
Cassidy
ridacchiò, facendo svolazzare la sua bionda chioma.
“Io so sempre dove andare,
non dimenticarlo mai!”
“Se
non avete idee, potete unirvi a noi” propose Jacob. Lui e
Brad si trovavano
nelle loro stesse condizioni, ma sembrava avessero già un
itinerario
prestabilito.
“Ho
sentito dire che ad est ci sono molte opportunità di trovare
lavoro” incalzò
Brad.
Jessie
non aveva molta voglia di unirsi a nessuno. Oltre Cassidy, non aveva
confidenza
con i suoi compagni di orfanotrofio. Anche lei, però, aveva
sentito dell’est, e
ipotizzò che l’unione non potesse che fare la
forza: magari avrebbero potuto,
lei e Cassidy, approfittare della piccola somma di denaro di cui i due
ragazzi
disponevano per iniziare il viaggio, parimenti a quella che avevano
ricevuto
loro, per scopi personali.
“Io
e Jessie andiamo a nord” fece prontamente Cassidy.
“Cassidy!”
Jessie la tirò di lato e le spiegò le sue ragioni.
“Ci
facciamo offrire un pasto e poi li molliamo non appena arriviamo nella
prima
città!”
Cassidy
se la scrollò di dosso.
“Tu
sei proprio sciocca, Jessie! Stare con loro significa condividere, e
non
trarremo nulla di buono da quei due!” Jessie
immaginò che Cassidy stesse
parlando solo perché non le andava giù che lei
avesse avuto un’idea migliore
della sua.
“Lascia
fare a me e evita di usare il cervello, cara!”
Ma
era solo una bambina, senza mamma… e senza più
nessuno.
“Cassidy,
e ora mi spieghi come facciamo?” sbuffò, seccata.
“Siamo a Virdinian da tre
giorni e ancora non abbiamo risolto niente!”
“Non
ti lamentare e sgobba, carina” sorrise beffarda Cassidy,
“Se riesci a produrre
un po’ di più forse oggi ti aggiudicherai il
pranzo!”
Jessie
la odiava. Era per colpa sua che era costretta ad adescare dei
ragazzini
incoscienti, cosicché la sua amica potesse ripulirli di
quello che si portavano
dietro. Ma i guadagni erano sempre relativamente magri: pochi spiccioli
e nulla
più. Ed ora doveva anche fare bamboline di pezza, giochetti
acrobatici (in
queste cose era sempre stata piuttosto brava) e inventarsi altre
diavolerie da
vendere per racimolare qualche spicciolo, mentre lei passava gran parte
del
tempo a pettinarsi i capelli e a curare il suo aspetto. E poteva
giurare che la
nuova maglietta che aveva comprato era al di sopra di quelle che erano
le loro
possibilità.
Meno
male che le aveva promesso di aiutarla a trovare un modo per studiare
da
infermiera Pokémon. A lei sembrava piuttosto che la stesse
portando sempre più
lontano dalla meta(*).
Avevano
rapinato da poco un ragazzetto, che le era parso meno sprovveduto degli
altri.
Era stato facile: Jessie lo aveva convinto che potevano uscire insieme,
e
mentre lo intratteneva facendo smancerie, Cassidy gli aveva fregato lo
zainetto.
Quindi Jessie, con una scusa, si era dileguata lasciando il tipo a
disperarsi
per la perdita di tutti i suoi averi.
“Almeno
potresti farmi la cortesia di mostrare anche a me quel poco che
ho… cioè, abbiamo
guadagnato, no?”
Cassidy
la guardò con quella occhiata, quasi impercettibile tuttavia
inconfondibile,
che faceva quando qualcosa non andava come lei aveva sperato.
“Non
c’è niente, solo biancheria intima e
cianfrusaglie”.
Ma
Jessie era sicura – anzi, sicurissima - che le stava
mentendo.
Bella
migliore amica.
Quella
voce, quella voce era talmente familiare.
Era
pomeriggio inoltrato, il sole stava calando trasformando la
città con tinte
aranciate e violacee. In sella alla bici rubata ad una povera idiota
che era
entrata un attimo in un minimarket, pedalava allegramente sul
marciapiede dei pedoni,
lo sguardo lontano sulla pista ciclabile in costruzione al di sopra del mare(**).
Costeggiò
il litorale, la catena arrotolata attorno al polso quasi fosse un
grosso
bracciale. Come faceva sempre per noia – e per attestare la
propria superiorità
su un mondo crudele di cui si faceva totalmente beffa -
srotolò con una scrollata
la catena e la alzò velocemente, pronto a farla roteare
sopra la sua testa. Nel
momento in cui la catena si agitò nell’aria,
finì con un rumore sordo su
qualcosa, Jessie per girarsi perse il controllo della bici e nello
stesso tempo
qualcosa di molto pesante finì a peso morto su di lei e
sulla bicicletta, lei
rotolò sull’asfalto cadendo dal marciapiedi, la
bicicletta volata via e una
cosa pesante che la opprimeva.
“Ahio…”
aprì gli occhi, e si accorse che un testone color lavanda
era piantato sul suo
petto. Trasalì sbalzandolo per aria, rossa in viso di rabbia
e vergogna.
“MA
SI PUO’ SAPERE CHE TI VIENE IN MENTE?”
strillò, mentre un ragazzino veniva
praticamente fatto saltare in aria ricadendo con il sedere per terra.
“Ahia!…Ahia
ahia ahia ahia…” il ragazzino si alzò
dolorante in piedi, stringendosi con il
pollice e l’indice il naso alla francese, le lacrime agli
occhi.
A
quel punto, Jessie avrebbe dovuto chiedergli se si fosse fatto male, ma
invece
ritenne che la cosa migliore da dire in quel momento fosse un secco:
"La
prossima volta guarda dove cammini!"
L’altro
si tolse la mano dal naso sporco di sangue.
"Io?
Ma se è stata la tua stupida catena che mi è
arrivata in faccia!" In
quel momento, un rivolo rosso colò dalla narice come
l’acqua di una fontanella,
entrambi se ne accorsero disgustati, e il ragazzino si
affrettò a ritapparsi il
naso come prima.
“Hai
visto? Mi hai rotto anche il naso! E ora come faccio, avrai rovinato il
mio
aspetto!” frignò.
A
quel punto, Jessie si diede un’occhiata al petto, e vide che
due macchie di
sangue brillavano sulla stoffa della blusa.
Montò
in bestia.
“Pagherai
per avermi insozzato il vestito! Vieni qua!”
cominciò a rincorrere il tipetto
che filava a gambe levate tenendo la mano occupata a tapparsi il naso,
e
Jessie, presa dall’ira, gli tirò contro la sua
bicicletta centrandolo in pieno.
Il ragazzino stramazzò finalmente a terra.
“Adesso
mi ripaghi, intesi?” lo afferrò per la maglietta
nera, tirandolo da terra.
“E
con quali soldi?”
“Vorresti
farmi credere che non hai nulla? Se è così,
vediamo se hai qualche Pokémon da
regalarmi”.
“Non
ho niente, ti dico!”
Jessie
lo guardò. Era piuttosto malconcio, aveva anche la maglietta
nera bucata. Si
decise a mollare la presa. Lui tirò un sospiro di sollievo.
Il ragazzino si
portava piccolo, sarebbe potuto passare perfino per un dodicenne. La
maglietta
bucata ed i pantaloni neri lo proteggevano ben poco
dall’autunno che stava avanzando.
Per di più, aveva l’aria di aver passato un brutto
guaio. Forse, un paio di
brutti guai.
“Ci
sarà pur un modo per ripagarmi”
continuò Jessie, ostinandosi a non togliersi la
faccia da dura. “Dove alloggi?”
“Da
nessuna parte” farfugliò lui spolverandosi i
pantaloni, “non alloggio e non
vado da nessuna parte”.
“In
che senso?”
“In
nessun senso!” si ostinò lui, cercando di pulirsi
il naso sporco con le mani –
una cosa che ripugnò Jessie.
“Non
ti seguo” disse lei mentre alzava la bici da terra. Era
proprio tocco o era
stata la catena?
Lo
guardò ancora, e sbuffò. “Senti,
bimbetto, per stavolta sarò buona: dimmi dove
abiti e ti riporto al sicuro da mamma e papà”.
A
quelle parole il ragazzino sembrò rabbrividire da capo a
piedi, e scattò
sull’attenti come un soldatino:
“No!”
Ok,
era decisamente fuori.
“Ehm,
voglio dire… Non ho una casa, anzi, non ho una mamma o un
papà, non ho…”
“Ah…
sei solo?”
Lui
interruppe il suo blaterare sconclusionato.
“Sì”.
Jessie
provò antipatia per quel poppante, eppure non se la
sentì di lasciarlo al suo
destino. Prese la bici con la mano destra, e afferrò il
braccio del ragazzino
con la sinistra facendo dietro-front.
“Ehi,
ma dove andiamo?”
“Ti
conviene saper usare la bicicletta, bimbetto” rispose Jessie
trascinandolo per
il polso, “oppure io e te finiremo in guai molto
grossi”(5).
Jessie
distolse lo sguardo dal ramen. Come lo detestava! Peggio degli altri
dodici.
“Per
me tu sei solo uno dei tanti pomposi palloni gonfiati che girano in
questa
accademia” si limitò a dire, tornando a
concentrarsi sul suo piatto di ramen.
Ingoiò una manciata di spaghetti, puntando con le bacchette
un pezzo di carne
che le sfuggì dalla mira, navigando nel brodo.
“Non…
alla… mia… altezza…”
“Già,
come del resto nessun altro” commentò James.
Jessie
cercò nuovamente di acchiappare quel pezzo di carne.
“Com’è
che ti chiamano?” continuò, “Qualcosa
tipo La Frigida…(6)”
Il
pezzo di carne sfuggì nuovamente dalle sue bacchette,
facendo schizzare il
brodo da tutte le parti.
“Maledizione!”
“Ah,
ho fatto centro!”
“Vuoi
stare zitto, sottospecie di zecca?” sbraitò.
“Vai a succhiare il sangue a
qualcun altro, e non scocciare!”
Lui
sogghignò. “Che c’è, Grande
Jessie? Non riesci a stare due secondi con qualcuno
che già ti saltano i nervi?”
“Sei
tu che mi fai saltare i nervi, idiota!”
Si
accorse solo allora del ghigno stampato sulla faccia da schiaffi di
James, e di
diverse altre persone che la fissavano ridacchiando. E
realizzò: era alzata in
piedi, tenendo la ciotola di ramen in alto su James, pronta a
sferrargliela in
testa. Vide un paio di sue conoscenti sghignazzare e parlarsi
all’orecchio.
Si
impose di calmarsi: se avesse mandato al diavolo anche il numero
tredici,
questa volta non l’avrebbe passata liscia.
Posò
la ciotola sul bancone.
“Ehi,
ma dove te ne vai adesso?” James le si avvicinò,
mentre lei si allontanava. “Volevo
solo che ti
aprissi un po’, non intendevo…” le
toccò un braccio nel tentativo di fermarla,
ma lei se lo scrollò di dosso con una gomitata.
“Ci
vediamo domani sul campo, e vedremo se ti viene ancora voglia di fare
amicizia!” strillò, quindi si girò e
continuò a camminare.
Lo
giurò, Piccolo Jim l’avrebbe pagata cara. (7)
Sono
sola al mondo, e nessuno comprenderà mai le mie lacrime.
Com’era
confortevole il tepore della coperta! Stava bene, anche se le punte dei
piedi
erano comunque ghiacciate.
Vide
la penombra del soggiorno, in un pomeriggio buio
dell’inverno, e poco a poco
realizzò di essersi appena svegliata da un sogno confuso.
Sentiva un calore
nell’incavo del ginocchio; si accorse così del suo
Glameow che stava
accoccolato sul piumone facendo le fusa, il musetto poggiato sulla sua
gamba ed
i morbidi occhi felini che ricambiavano lo sguardo della padrona.
Un
Glameow.
Un
momento.
Non
aveva nessun Glameow.
Cercò
di alzarsi di scatto, ma era come se fosse stata bloccata. Si
sforzò con tutta
sé stessa e finalmente riuscì a muoversi, facendo
scomodare il Pokémon felino.
Non
è possibile.
Si
alzò con un balzo dal divanetto, lasciando gatto e piumone,
e si affannò a
correre verso lo specchio che si trovava – come stranamente
ben sapeva –
immediatamente a destra del sofà.
Quando
vide la sua immagine riflessa nello specchio, il cuore
sussultò come se fosse
stata per morire.
Un
urlo agghiacciante e totalmente fuori dal controllo uscì
dalla sua bocca.
Questo capitolo
è stato molto lungo, ma anche molto studiato. Ci ho messo
molto nei ricordi di
Jessie, anche perché li ho totalmente dovuti riscrivere
quando ho ripreso in
mano
(2) Riferimento alla
puntata della seconda
stagione Pokémon “Snow way out”
(episodio 66) in cui Jessie ricorda che sua
madre era così povera da non riuscire nemmeno a procurarsi
da mangiare. Per
questo, le preparava dei pranzetti con la neve (effettivamente prendeva
della
neve e la modellava a mo’ di piatti succulenti, condendoli
con salsa di soia).
Qui Jessie sta cercando di colmare il suo vuoto, per la mancanza della
madre in
una situazione difficile.
(3) Austin
è un ragazzo di cui Jessie era
innamorata. Le aveva chiesto di venire via con lui nel suo viaggio da
allenatore, ma Jessie si stava impegnando duramente per un provino, e
rifiutò.
Alla fine non fu presa al provino, e, come si suol dire a Napoli,
“ha perso
Filippo e o’ panaro”
(Diamond & Pearl - 541 -
Crossing Paths!)
Evidentemente ciò deve accadere prima del suo viaggio e
prima che entrasse
nella gang di biciclette o nella scuola di infermiere
Pokémon, perché era
evidentemente molto più piccola. Nella revisione della
Fanfic, questa frase ci
è entrata a pennello, perché sia lei che Austin
indossavano uniformi: nei vari
ricordi di Jessie disseminati per l’anime, lei ha quasi
sempre indossato abiti
simili ad uniformi, e ciò rende plausibile la sua
appartenenza ad una scuola o
ad un orfanotrofio.
(4) Miyamoto porta gli
stessi orecchini di
Jessie, solo arancioni. Ho ipotizzato che quelli che portava Jessie
fossero un
paio di quelli che sua madre aveva – non necessariamente
quelli che indossava
quando scomparve, altrimenti sarebbe stato improbabile che potesse
indossarli.
(5) Riferimento alla
traduzione della
famosa frase di apertura di Jessie e James: “なんだかんだと聞かれ
たら。。。答えてあげるが世の情け”
(“se ci chiedi questo o quello, la risposta sarà
la
compassione del mondo!”), che in inglese è stata
tradotta come “prepare for
trouble! And make it double!” (“preparatevi per i
guai! E fateli doppi!”). In
italiano, nelle prime stagioni la frase fu tradotta come
“preparatevi a passare
dei guai! Dei guai molto grossi!”, sempre in maniera fedele
alla versione
inglese della 4Kids (le doppie traduzioni, un orrore per chi studia
lingue come
me!!!!), eliminando la rima. Una seconda versione
dell’apertura è stata quindi,
in italiano: “Ma che bel guaio! Fanne un paio!”,
che cercava di ricalcare
meglio l’apertura originale inglese della 4Kids.
(6)
Jessie (Musashi in giapponese) nella puntata di Pokémon
Chronicles “Training
Daze!” (In italiano “L’Accademia del Team
Rocket”, episodio 13) viene chiamata
da Cassidy “shinihani Musashi”, dove shini
sta per shinu, “morire”, hani
non ne
ho capito bene l’origine ma fatto sta che il suo nickname
è collegato con la
morte. Ciò perché non riesce a stare con nessuno.
Questo particolare, come
molte altre parti nella puntata, è stato eliminato e
completamente riscritto
nel doppiaggio inglese, da cui noi prendiamo riferimento per il
doppiaggio
italiano. Yamato (ovvero Cassidy) dice chiaramente, nello spogliatoio:
“ne,
shitteru? Minna anata no koto wo Shinihani musashi to yonderu
wa”, cioè “lo
sai? Ti chiamano tutti Musashi
Training
Daze in giapponese:
http://www.youtube.com/watch?v=1BhBp0bxEUY
http://www.youtube.com/watch?v=efl0k42_Rjo&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=kzfq0zRtTO0&feature=related
pagina dedicata alla puntata (attenzione
alla parte a destra per le cose che sono state cambiate):
http://www.pokezam.com/anime/episodes/chronicles/013.php
(7)
questo pezzo si riferisce anche alla puntata DP 585 (“Noodles: Roamin'
Off”, in italiano “Gli
Spaghetti della Discordia!”), in cui si mostra
che Jessie e James
durante il periodo in accademia spesso andavano a mangiare ramen con un
loro
amico – che dopo lasciò la malavita per diventare
un cuoco di ramen.
(*) riferimento
all’episodio “Ignorance is Blissey”:
Jessie ricorda il periodo in cui studiava
in una scuola di infermiere Pokémon. Purtroppo quella scuola
era esclusivamente
per Chansey e quindi lei, in qualità di essere umano, non
riuscì a stare al
passo con gli studi. Quello, per quanto ne so, è stato il
più importante dei
suoi sogni a finire in frantumi.
(**) riferimento
alla puntata 36 della prima stagione Pokémon –
“The Bridge Bike Gang”. Questa
puntata contrasta fortemente con l’episodio di
Pokémon Chronicles “Training
Daze”, uscito postumo: secondo l’episodio 36,
Jessie e James si conoscevano già
da prima di entrare nel Team Rocket, avendo fatto entrambi parte di una
gang di
ciclisti che faceva scorrerie in una città (di cui non viene
detto il nome),
collegata a Sunny Town tramite un ponte. In “Training
Daze”, episodio della
serie spin-off “Pokémon Chronicles”,
Jessie e James si incontrano invece
nell’accademia del Team Rocket, creando una forte
contraddizione con l’episodio
della bike gang.
Tornando
all’episodio 36: del ponte, quando Ash, Misty e Brock
giungono lì, è stata
appena completata la pista ciclabile, ma non ancora quella
automobilistica.
Quindi è lecito pensare che qualche anno prima nemmeno la
pista ciclabile fosse
ultimata, e non ci fosse quel tipo di collegamento a Sunny Town.
Tuttavia, la
bike gang esisteva già, e come i due capi Taira e Chopper
affermano, Jessie e
James godevano di una certa popolarità come
“Grande Jessie (Big Jess) e Piccolo
Jim (Li’l Jim), detti anche “Chainer
Jessie” per la sua abilità con la catena e
“Trainer Jim” per la sua incapacità di
usare la bici senza rotelline (training
wheels). Jessie, nei suoi ricordi, indossa un completino alla marinara
(le
uniformi sono una costante nei ricordi di Jessie, ad eccezione di
quelli in cui
era molto piccola) con blusa blu scuro dal colletto azzurro e ampia
gonna lunga
pieghettata azzurro chiaro. James, invece, indossa un completo nero con
forse
di una taglia più grande, in più portava una
coppola nera. Tuttavia, è ignoto
cosa sia accaduto a James prima di entrare nella bike gang: solo
nell’episodio
in cui incontra Jessiebell, accenna al fatto che era stato espulso dal
Pokémon
Tech e che era poi entrato in una banda. Quindi è lecito
pensare che si sia
cacciato in qualche altro guaio, dopo essere fuggito di casa e prima di
congiungersi alla bike gang. Per tale motivo non l’ho vestito
alla maniera
ricordata nell’episodio 36.