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Autore: Lucenera88    15/12/2010    1 recensioni
Questa fanfiction è stata scritta anni fa, per cui ad affiancare Ash saranno Misty e Brock.
Anche in merito ai Pokémon, stesso discorso: non seguo l'anime dell'ultima serie, per cui vi prego di essere clementi.
Tratta di una strana disavventura accaduta a Fire City, quando Ash e i suoi amici sono coinvolti negli oscuri accadimenti che si celano dietro un combattimento con il capo-palestra della città.
La storia comprende tutti i personaggi, ma in particolare si incentra su Jessie e James.
Spero che vi piaccia, sebbene la storia sia un po' datata.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Brock, James, Jessie | Coppie: Ash/Misty
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 11 – Starai bene, qui

A poco a poco tornò la luce. Le ci vollero un paio di secondi per rendersi conto che si trattava, però, di luce naturale.
Si trovava di fronte ad un edificio malandato, che le suscitava una sgradevole sensazione di dejà-vu. Sapeva di conoscere quelle cancellate dipinte di verde erose dal tempo e dalla ruggine, ed il giardino all’interno, polveroso come se non fosse stato curato da almeno dieci anni.
Jessie sentì che la sua mano, così piccola, era stretta in quella grossa di un uomo molto più grande di lei. Quando quella mano si mosse, lei voltò la testa verso di lui.
Indossava un’uniforme nera, anche quella così tremendamente familiare. Una coppola era calata sul volto, ma le sembrò comunque di riconoscere chi si celava sotto la visiera. Aveva il collo doppio e la mascella squadrata, e nella sua ingenuità era convinta che quell’uomo così buono con lei non potesse essere altro che un poliziotto.
“Mi dispiace, piccola” le mormorò, quasi in un sospiro. La sua voce era profonda. “Ma te lo giuro: starai bene, qui”.
Lei non sapeva precisamente perché, ma si sentì improvvisamente presa dallo sconforto. L’uomo doveva essersene accorto, perché con le dita doppie le asciugò due lacrime che ancora non erano cadute dai suoi occhi. In quel momento lei non seppe trattenere il pianto, e frignò letteralmente, cercando di asciugarsi con la manica della camicetta di raso le lacrime che sgorgavano copiose. L’uomo le abbassò dolcemente le braccia, e la guardò negli occhi. Era così buffo, accovacciato, grande e grosso com’era(1).
“Non piangere. Non mostrarti mai così davanti a nessuno, nessuno” disse, serio. Lei singhiozzò silenziosamente, incapace di smettere di guardarlo.
“Ascoltami bene: niente in questa vita ti viene dato gratis. Tutto è contro di te, e se non sei abbastanza forte non potrai sopravvivere”.
Lei sentì di aver dimenticato quelle parole. Ma ora ne aveva capito il messaggio: la mamma non avrebbe voluto che soccombesse al suo destino.

Ricordava. Ricordava una piccola lapide bianca.
Ricordava una piccola lapide bianca. Ed un uomo dai capelli bluastri che la fissava, torvo.

Quell’aula era troppo piccola per contenere così tante persone. Lo pensava, pur non essendo altro che una bambina a cui ogni cosa sarebbe dovuta sembrare più grande.
Era seduta, china a guardarsi le mani. Anche la panchina era troppo fredda. Tutto era troppo, e tutto le sembrava sempre troppo stretto e troppo ingiusto.
Alzò un secondo lo sguardo, per vedere un gruppo di quattro bambine che passavano tenendosi per mano, e ridendo di lei. Si sistemarono sulla panchina rossa a sinistra, ed una di loro era riuscita a recuperare una sacca di giocattoli da sorella Joyeline. Ne tirò fuori una casa giocattolo visibilmente di seconda mano a cui mancava un pezzo, posandola sul pavimento con una certa cura nell’evitare che si rompesse ulteriormente. Il resto delle bambole le tirò fuori rovesciando il sacco per terra, ed ognuna delle bambine ne arraffò almeno una. Lei sapeva che quello che cadeva nelle loro manacce era esclusivamente di loro proprietà, e sebbene non si facesse scrupoli nello strappare cose di mano agli altri bambini, era consapevole della superiorità numerica. Tornò a fissarsi le mani, crucciata.
“Ragazze, perché non la facciamo giocare con noi?” sentì una di loro dire.
Le altre bambine rimasero un attimo interdette.
“Su!”
“Ma perché?” sentì chiaramente la voce stridula di Susie. “Jessica è cattiva!”
Jessie si alzò in piedi, la gonna blu dell’orfanotrofio grande una taglia in più le ricadde al di sotto delle ginocchia. Sentiva un groppo in gola, ma mai avrebbe dato loro la soddisfazione; si avviò verso l’uscita.
“E’ il suo compleanno” ribatté l’altra. Jessie si fermò vicino all’uscita, poi riprese a camminare fuori quando sentì Mel rispondere: “e allora?...”
Senza rendersene conto, stava correndo invece che camminare, e appena scese le scale sbatté contro la gamba di sorella Joyeline.
“Jessica, dove vai? Non puoi uscire così, fa freddo fuori!”
Ma Jessie non se ne curò, accecata dalle lacrime trattenute che le offuscavano la vista. Aprì la porta pesante d’entrata e si precipitò fuori, nella neve precoce di novembre.
Tremava, ma non le importava. Era così in collera che nemmeno il freddo riusciva a farla rinsavire. Si fece strada tra i fiocchi di neve che scendevano lenti, e trovò rifugio sotto uno degli alberi che si trovavano nel giardino.
Si sedette sul terreno sporco e bagnato dove la neve ancora non era arrivata, e si coprì il volto con le mani perché odiava la sola idea di piangere davanti a sé stessa, sebbene non riuscisse ad evitarlo. Era colma di rabbia, una rabbia che non aveva la possibilità di sfogare, e avrebbe voluto urlare. Ma sapeva bene che non sarebbe servito a niente.
Si stropicciò gli occhi con le mani e guardò davanti a sé. Una montagnola di neve stava ai suoi piedi, sporcata dal fango. Senza pensarci due volte ne prese grandi manciate con le piccole mani, e se la cacciò in bocca. Era così fredda che le faceva un male cane ai denti, ma non le importava.
Neve, neve per riempirsi lo stomaco di un calore che non aveva più(2).
Afferrava la neve dal terreno come se si stesse facendo una scorpacciata di dolci, noncurante delle foglie e del fango che si ficcava in bocca, convulsa dal dolore e dall’ira.
“Jessica, Jessica!” Sorella Joyeline la chiamò, ma non riuscì ad evitare che suor Widebutterfree le mollasse un sonoro ceffone e la tirasse su come un sacco di patate.
“Che ti salta in mente, piccola peste?” gridò suor Widebutterfree, che le sembrava così forte. “Sei fredda come il ghiaccio!”
Se la caricò come se fosse stato una balla di fieno, incurante del fatto che la piccola Jessie si dimenasse e strillasse, la faccia gonfia di pianto e le mani rosse di neve, che avevano ormai perso sensibilità.

Suor Widebutterfree, la preside dell’istituto, le sorrideva davanti nel modo più falso che avesse potuto tirar fuori.
“Vi confesso di provare una certa apprensione nel lasciarvi, ma so che vi sorveglierete a vicenda e non combinerete pasticci. Jessica?”
Guardò di sottecchi la giovane Jessie, leggermente imbarazzata per quel riferimento a lei. sapeva di essere sempre stata la spina nel fianco di quelle suorine, che la cercavano dappertutto per farla andare a scuola, che a volte la picchiavano perché non voleva pregare e la lasciavano a disperarsi nella chiesa, come invito alla preghiera.
“Mi stai ascoltando?”
Odiava quelle suore con tutta sé stessa, e ricambiò alla direttrice uno sguardo di sfida.
“Mi raccomando, Cassidy” si rivolse, questa volta, a lei.
“Non si preoccupi, suor Widebutterfree” rassicurò spavalda, e in quel momento Jessie provò un bruciante fastidio per come lei si atteggiasse a sua balia.
“Ci penserò io a quella testa calda di Jessie!”
Cassidy aveva una grande dote che giocava a sfavore di Jessie: qualunque schifezza combinasse, riusciva immancabilmente ad uscirne pulita. Non importava se poi tutto lo schifo ricadeva sulla sua presunta migliore amica.
Ma cosa poteva farci? Dopo Austin(3), ormai, le era rimasta solo lei. Poteva solo accontentarsi.
Si preparò le sue cose nella ventiquattr’ore, e pregò che sua madre potesse proteggerla. Si mise gli orecchini verdi, che era tutto quello che aveva di lei, e uscì fuori da quel posto malandato di cui conosceva oramai ogni crepa(4).
Uscirono l’uno dopo l’altro dal giardino, e l’ultimo si chiuse alle spalle il cancelletto sgangherato. Jessie restò un attimo a fissare l’istituto.
Ognuno di loro iniziava il tirocinio per un lavoro “di strada”, come veniva chiamato: la scuola dell’obbligo, per loro della classe professionale, era finito. Finalmente.
“Hey, allora? Hai finito di contemplare il panorama?” Cassidy sbuffò, pettinandosi i capelli mentre parlava. Jessie non sapeva da dove le venisse tutta quella pazienza: oramai, solo il suono della sua voce le dava fastidio.
“Possiamo andare, Cassidy” ribatté seccata. “Sempre che tu sappia dove andare”.
Cassidy ridacchiò, facendo svolazzare la sua bionda chioma. “Io so sempre dove andare, non dimenticarlo mai!”
“Se non avete idee, potete unirvi a noi” propose Jacob. Lui e Brad si trovavano nelle loro stesse condizioni, ma sembrava avessero già un itinerario prestabilito.
“Ho sentito dire che ad est ci sono molte opportunità di trovare lavoro” incalzò Brad.
Jessie non aveva molta voglia di unirsi a nessuno. Oltre Cassidy, non aveva confidenza con i suoi compagni di orfanotrofio. Anche lei, però, aveva sentito dell’est, e ipotizzò che l’unione non potesse che fare la forza: magari avrebbero potuto, lei e Cassidy, approfittare della piccola somma di denaro di cui i due ragazzi disponevano per iniziare il viaggio, parimenti a quella che avevano ricevuto loro, per scopi personali.
“Io e Jessie andiamo a nord” fece prontamente Cassidy.
“Cassidy!” Jessie la tirò di lato e le spiegò le sue ragioni.
“Ci facciamo offrire un pasto e poi li molliamo non appena arriviamo nella prima città!”
Cassidy se la scrollò di dosso.
“Tu sei proprio sciocca, Jessie! Stare con loro significa condividere, e non trarremo nulla di buono da quei due!” Jessie immaginò che Cassidy stesse parlando solo perché non le andava giù che lei avesse avuto un’idea migliore della sua.
“Lascia fare a me e evita di usare il cervello, cara!”

Quell’uomo la fissava. E non prometteva niente di buono.
Ma era solo una bambina, senza mamma… e senza più nessuno.

Stava morendo di fame.
“Cassidy, e ora mi spieghi come facciamo?” sbuffò, seccata. “Siamo a Virdinian da tre giorni e ancora non abbiamo risolto niente!”
“Non ti lamentare e sgobba, carina” sorrise beffarda Cassidy, “Se riesci a produrre un po’ di più forse oggi ti aggiudicherai il pranzo!”
Jessie la odiava. Era per colpa sua che era costretta ad adescare dei ragazzini incoscienti, cosicché la sua amica potesse ripulirli di quello che si portavano dietro. Ma i guadagni erano sempre relativamente magri: pochi spiccioli e nulla più. Ed ora doveva anche fare bamboline di pezza, giochetti acrobatici (in queste cose era sempre stata piuttosto brava) e inventarsi altre diavolerie da vendere per racimolare qualche spicciolo, mentre lei passava gran parte del tempo a pettinarsi i capelli e a curare il suo aspetto. E poteva giurare che la nuova maglietta che aveva comprato era al di sopra di quelle che erano le loro possibilità.
Meno male che le aveva promesso di aiutarla a trovare un modo per studiare da infermiera Pokémon. A lei sembrava piuttosto che la stesse portando sempre più lontano dalla meta(*).
Avevano rapinato da poco un ragazzetto, che le era parso meno sprovveduto degli altri. Era stato facile: Jessie lo aveva convinto che potevano uscire insieme, e mentre lo intratteneva facendo smancerie, Cassidy gli aveva fregato lo zainetto. Quindi Jessie, con una scusa, si era dileguata lasciando il tipo a disperarsi per la perdita di tutti i suoi averi.
“Almeno potresti farmi la cortesia di mostrare anche a me quel poco che ho… cioè, abbiamo guadagnato, no?”
Cassidy la guardò con quella occhiata, quasi impercettibile tuttavia inconfondibile, che faceva quando qualcosa non andava come lei aveva sperato.
“Non c’è niente, solo biancheria intima e cianfrusaglie”.
Ma Jessie era sicura – anzi, sicurissima - che le stava mentendo.
Bella migliore amica.

“Cosa c’è, amore? Perché piangi?”
Quella voce, quella voce era talmente familiare.

Era ormai un po’ di tempo che faceva parte della gang di cilisti-teppisti. Era riuscita ad ottenere una certa popolarità, e per questo, e per il rispetto che incuteva, veniva chiamata Grande Jessie. Più fiera così, della sua posizione nella banda – seppure non di capo – non sarebbe potuta essere.
Era pomeriggio inoltrato, il sole stava calando trasformando la città con tinte aranciate e violacee. In sella alla bici rubata ad una povera idiota che era entrata un attimo in un minimarket, pedalava allegramente sul marciapiede dei pedoni, lo sguardo lontano sulla pista ciclabile in costruzione al di sopra  del mare(**).
Costeggiò il litorale, la catena arrotolata attorno al polso quasi fosse un grosso bracciale. Come faceva sempre per noia – e per attestare la propria superiorità su un mondo crudele di cui si faceva totalmente beffa - srotolò con una scrollata la catena e la alzò velocemente, pronto a farla roteare sopra la sua testa. Nel momento in cui la catena si agitò nell’aria, finì con un rumore sordo su qualcosa, Jessie per girarsi perse il controllo della bici e nello stesso tempo qualcosa di molto pesante finì a peso morto su di lei e sulla bicicletta, lei rotolò sull’asfalto cadendo dal marciapiedi, la bicicletta volata via e una cosa pesante che la opprimeva.
“Ahio…” aprì gli occhi, e si accorse che un testone color lavanda era piantato sul suo petto. Trasalì sbalzandolo per aria, rossa in viso di rabbia e vergogna.
“MA SI PUO’ SAPERE CHE TI VIENE IN MENTE?” strillò, mentre un ragazzino veniva praticamente fatto saltare in aria ricadendo con il sedere per terra.
“Ahia!…Ahia ahia ahia ahia…” il ragazzino si alzò dolorante in piedi, stringendosi con il pollice e l’indice il naso alla francese, le lacrime agli occhi.
A quel punto, Jessie avrebbe dovuto chiedergli se si fosse fatto male, ma invece ritenne che la cosa migliore da dire in quel momento fosse un secco: "La prossima volta guarda dove cammini!"
L’altro si tolse la mano dal naso sporco di sangue.
"Io? Ma se è stata la tua stupida catena che mi è arrivata in faccia!" In quel momento, un rivolo rosso colò dalla narice come l’acqua di una fontanella, entrambi se ne accorsero disgustati, e il ragazzino si affrettò a ritapparsi il naso come prima.
“Hai visto? Mi hai rotto anche il naso! E ora come faccio, avrai rovinato il mio aspetto!” frignò.
A quel punto, Jessie si diede un’occhiata al petto, e vide che due macchie di sangue brillavano sulla stoffa della blusa.
Montò in bestia.
“Pagherai per avermi insozzato il vestito! Vieni qua!” cominciò a rincorrere il tipetto che filava a gambe levate tenendo la mano occupata a tapparsi il naso, e Jessie, presa dall’ira, gli tirò contro la sua bicicletta centrandolo in pieno. Il ragazzino stramazzò finalmente a terra.
“Adesso mi ripaghi, intesi?” lo afferrò per la maglietta nera, tirandolo da terra.
“E con quali soldi?”
“Vorresti farmi credere che non hai nulla? Se è così, vediamo se hai qualche Pokémon da regalarmi”.
“Non ho niente, ti dico!”
Jessie lo guardò. Era piuttosto malconcio, aveva anche la maglietta nera bucata. Si decise a mollare la presa. Lui tirò un sospiro di sollievo. Il ragazzino si portava piccolo, sarebbe potuto passare perfino per un dodicenne. La maglietta bucata ed i pantaloni neri lo proteggevano ben poco dall’autunno che stava avanzando. Per di più, aveva l’aria di aver passato un brutto guaio. Forse, un paio di brutti guai.
“Ci sarà pur un modo per ripagarmi” continuò Jessie, ostinandosi a non togliersi la faccia da dura. “Dove alloggi?”
“Da nessuna parte” farfugliò lui spolverandosi i pantaloni, “non alloggio e non vado da nessuna parte”.
“In che senso?”
“In nessun senso!” si ostinò lui, cercando di pulirsi il naso sporco con le mani – una cosa che ripugnò Jessie.
“Non ti seguo” disse lei mentre alzava la bici da terra. Era proprio tocco o era stata la catena?
Lo guardò ancora, e sbuffò. “Senti, bimbetto, per stavolta sarò buona: dimmi dove abiti e ti riporto al sicuro da mamma e papà”.
A quelle parole il ragazzino sembrò rabbrividire da capo a piedi, e scattò sull’attenti come un soldatino:
“No!”
Ok, era decisamente fuori.
“Ehm, voglio dire… Non ho una casa, anzi, non ho una mamma o un papà, non ho…”
“Ah… sei solo?”
Lui interruppe il suo blaterare sconclusionato.
“Sì”.
Jessie provò antipatia per quel poppante, eppure non se la sentì di lasciarlo al suo destino. Prese la bici con la mano destra, e afferrò il braccio del ragazzino con la sinistra facendo dietro-front.
“Ehi, ma dove andiamo?”
“Ti conviene saper usare la bicicletta, bimbetto” rispose Jessie trascinandolo per il polso, “oppure io e te finiremo in guai molto grossi”(5).

Talmente familiare, che le venne da piangere sul serio.

“Sul serio, non ti ricordi di me?” James sorrise, beffardo.
Jessie distolse lo sguardo dal ramen. Come lo detestava! Peggio degli altri dodici.
“Per me tu sei solo uno dei tanti pomposi palloni gonfiati che girano in questa accademia” si limitò a dire, tornando a concentrarsi sul suo piatto di ramen. Ingoiò una manciata di spaghetti, puntando con le bacchette un pezzo di carne che le sfuggì dalla mira, navigando nel brodo.
“Non… alla… mia… altezza…”
“Già, come del resto nessun altro” commentò James.
Jessie cercò nuovamente di acchiappare quel pezzo di carne.
“Com’è che ti chiamano?” continuò, “Qualcosa tipo La Frigida…(6)”
Il pezzo di carne sfuggì nuovamente dalle sue bacchette, facendo schizzare il brodo da tutte le parti.
“Maledizione!”
“Ah, ho fatto centro!”
“Vuoi stare zitto, sottospecie di zecca?” sbraitò. “Vai a succhiare il sangue a qualcun altro, e non scocciare!”
Lui sogghignò. “Che c’è, Grande Jessie? Non riesci a stare due secondi con qualcuno che già ti saltano i nervi?”
“Sei tu che mi fai saltare i nervi, idiota!”
Si accorse solo allora del ghigno stampato sulla faccia da schiaffi di James, e di diverse altre persone che la fissavano ridacchiando. E realizzò: era alzata in piedi, tenendo la ciotola di ramen in alto su James, pronta a sferrargliela in testa. Vide un paio di sue conoscenti sghignazzare e parlarsi all’orecchio.
Si impose di calmarsi: se avesse mandato al diavolo anche il numero tredici, questa volta non l’avrebbe passata liscia.
Posò la ciotola sul bancone.
“Ehi, ma dove te ne vai adesso?” James le si avvicinò, mentre lei si allontanava.
 “Volevo solo che ti aprissi un po’, non intendevo…” le toccò un braccio nel tentativo di fermarla, ma lei se lo scrollò di dosso con una gomitata.
“Ci vediamo domani sul campo, e vedremo se ti viene ancora voglia di fare amicizia!” strillò, quindi si girò e continuò a camminare.
Lo giurò, Piccolo Jim l’avrebbe pagata cara. (7)

Non devo piangere. Non devo.
Sono sola al mondo, e nessuno comprenderà mai le mie lacrime.

Aprì gli occhi a fatica, insonnoliti.
Com’era confortevole il tepore della coperta! Stava bene, anche se le punte dei piedi erano comunque ghiacciate.
Vide la penombra del soggiorno, in un pomeriggio buio dell’inverno, e poco a poco realizzò di essersi appena svegliata da un sogno confuso. Sentiva un calore nell’incavo del ginocchio; si accorse così del suo Glameow che stava accoccolato sul piumone facendo le fusa, il musetto poggiato sulla sua gamba ed i morbidi occhi felini che ricambiavano lo sguardo della padrona.
Un Glameow.
Un momento.
Non aveva nessun Glameow.
Cercò di alzarsi di scatto, ma era come se fosse stata bloccata. Si sforzò con tutta sé stessa e finalmente riuscì a muoversi, facendo scomodare il Pokémon felino.
Non è possibile.
Si alzò con un balzo dal divanetto, lasciando gatto e piumone, e si affannò a correre verso lo specchio che si trovava – come stranamente ben sapeva – immediatamente a destra del sofà.
Quando vide la sua immagine riflessa nello specchio, il cuore sussultò come se fosse stata per morire.
Un urlo agghiacciante e totalmente fuori dal controllo uscì dalla sua bocca.

Note:
Questo capitolo è stato molto lungo, ma anche molto studiato. Ci ho messo molto nei ricordi di Jessie, anche perché li ho totalmente dovuti riscrivere quando ho ripreso in mano la FF. Spero che sia piaciuto, e vi ringrazio per l’attenzione. Alla prossima!

(1) Era il sergente Viper: nella FF presuppongo che lui conoscesse Miyamoto, e quindi anche Jessie.

(2) Riferimento alla puntata della seconda stagione Pokémon “Snow way out” (episodio 66) in cui Jessie ricorda che sua madre era così povera da non riuscire nemmeno a procurarsi da mangiare. Per questo, le preparava dei pranzetti con la neve (effettivamente prendeva della neve e la modellava a mo’ di piatti succulenti, condendoli con salsa di soia). Qui Jessie sta cercando di colmare il suo vuoto, per la mancanza della madre in una situazione difficile.

(3) Austin è un ragazzo di cui Jessie era innamorata. Le aveva chiesto di venire via con lui nel suo viaggio da allenatore, ma Jessie si stava impegnando duramente per un provino, e rifiutò. Alla fine non fu presa al provino, e, come si suol dire a Napoli, “ha perso Filippo e o’ panaro”  (Diamond & Pearl - 541 - Crossing Paths!) Evidentemente ciò deve accadere prima del suo viaggio e prima che entrasse nella gang di biciclette o nella scuola di infermiere Pokémon, perché era evidentemente molto più piccola. Nella revisione della Fanfic, questa frase ci è entrata a pennello, perché sia lei che Austin indossavano uniformi: nei vari ricordi di Jessie disseminati per l’anime, lei ha quasi sempre indossato abiti simili ad uniformi, e ciò rende plausibile la sua appartenenza ad una scuola o ad un orfanotrofio.

(4) Miyamoto porta gli stessi orecchini di Jessie, solo arancioni. Ho ipotizzato che quelli che portava Jessie fossero un paio di quelli che sua madre aveva – non necessariamente quelli che indossava quando scomparve, altrimenti sarebbe stato improbabile che potesse indossarli.

(5) Riferimento alla traduzione della famosa frase di apertura di Jessie e James: “なんだかんだと聞かれ たら。。。答えてあげるが世の情け” (“se ci chiedi questo o quello, la risposta sarà la compassione del mondo!”), che in inglese è stata tradotta come “prepare for trouble! And make it double!” (“preparatevi per i guai! E fateli doppi!”). In italiano, nelle prime stagioni la frase fu tradotta come “preparatevi a passare dei guai! Dei guai molto grossi!”, sempre in maniera fedele alla versione inglese della 4Kids (le doppie traduzioni, un orrore per chi studia lingue come me!!!!), eliminando la rima. Una seconda versione dell’apertura è stata quindi, in italiano: “Ma che bel guaio! Fanne un paio!”, che cercava di ricalcare meglio l’apertura originale inglese della 4Kids.

(6) Jessie (Musashi in giapponese) nella puntata di Pokémon Chronicles “Training Daze!” (In italiano “L’Accademia del Team Rocket”, episodio 13) viene chiamata da Cassidy “shinihani Musashi”, dove shini sta per shinu, “morire”, hani non ne ho capito bene l’origine ma fatto sta che il suo nickname è collegato con la morte. Ciò perché non riesce a stare con nessuno. Questo particolare, come molte altre parti nella puntata, è stato eliminato e completamente riscritto nel doppiaggio inglese, da cui noi prendiamo riferimento per il doppiaggio italiano. Yamato (ovvero Cassidy) dice chiaramente, nello spogliatoio: “ne, shitteru? Minna anata no koto wo Shinihani musashi to yonderu wa”, cioè “lo sai? Ti chiamano tutti Musashi la Shinihani”. In italiano, Cassidy dice solamente: “forse non lo sai, ma ti sei fatta la reputazione di essere una ragazza scontrosa”. Ho voluto tradurre questo nickname, che le aveva segnato l’esistenza all’accademia, come “Jessie la Frigida”. Inoltre, l’episodio originale giapponese di “Training Daze!” dichiara che Jessie ha cambiato non dieci, bensì dodici compagni. Qui alcuni link per gli interessati:
Training Daze in giapponese:
http://www.youtube.com/watch?v=1BhBp0bxEUY
http://www.youtube.com/watch?v=efl0k42_Rjo&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=kzfq0zRtTO0&feature=related
pagina dedicata alla puntata (attenzione alla parte a destra per le cose che sono state cambiate):
http://www.pokezam.com/anime/episodes/chronicles/013.php

 (7) questo pezzo si riferisce anche alla puntata DP 585 (“Noodles: Roamin' Off”, in italiano “Gli Spaghetti della Discordia!”), in cui si mostra che Jessie e James durante il periodo in accademia spesso andavano a mangiare ramen con un loro amico – che dopo lasciò la malavita per diventare un cuoco di ramen.

(*) riferimento all’episodio “Ignorance is Blissey”: Jessie ricorda il periodo in cui studiava in una scuola di infermiere Pokémon. Purtroppo quella scuola era esclusivamente per Chansey e quindi lei, in qualità di essere umano, non riuscì a stare al passo con gli studi. Quello, per quanto ne so, è stato il più importante dei suoi sogni a finire in frantumi.

(**) riferimento alla puntata 36 della prima stagione Pokémon – “The Bridge Bike Gang”. Questa puntata contrasta fortemente con l’episodio di Pokémon Chronicles “Training Daze”, uscito postumo: secondo l’episodio 36, Jessie e James si conoscevano già da prima di entrare nel Team Rocket, avendo fatto entrambi parte di una gang di ciclisti che faceva scorrerie in una città (di cui non viene detto il nome), collegata a Sunny Town tramite un ponte. In “Training Daze”, episodio della serie spin-off “Pokémon Chronicles”, Jessie e James si incontrano invece nell’accademia del Team Rocket, creando una forte contraddizione con l’episodio della bike gang.
Tornando all’episodio 36: del ponte, quando Ash, Misty e Brock giungono lì, è stata appena completata la pista ciclabile, ma non ancora quella automobilistica. Quindi è lecito pensare che qualche anno prima nemmeno la pista ciclabile fosse ultimata, e non ci fosse quel tipo di collegamento a Sunny Town. Tuttavia, la bike gang esisteva già, e come i due capi Taira e Chopper affermano, Jessie e James godevano di una certa popolarità come “Grande Jessie (Big Jess) e Piccolo Jim (Li’l Jim), detti anche “Chainer Jessie” per la sua abilità con la catena e “Trainer Jim” per la sua incapacità di usare la bici senza rotelline (training wheels). Jessie, nei suoi ricordi, indossa un completino alla marinara (le uniformi sono una costante nei ricordi di Jessie, ad eccezione di quelli in cui era molto piccola) con blusa blu scuro dal colletto azzurro e ampia gonna lunga pieghettata azzurro chiaro. James, invece, indossa un completo nero con forse di una taglia più grande, in più portava una coppola nera. Tuttavia, è ignoto cosa sia accaduto a James prima di entrare nella bike gang: solo nell’episodio in cui incontra Jessiebell, accenna al fatto che era stato espulso dal Pokémon Tech e che era poi entrato in una banda. Quindi è lecito pensare che si sia cacciato in qualche altro guaio, dopo essere fuggito di casa e prima di congiungersi alla bike gang. Per tale motivo non l’ho vestito alla maniera ricordata nell’episodio 36.

 

   
 
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