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Autore: Inessa    12/12/2005    9 recensioni
Recitar! Mentre presso dal delirio
non so più quel che dico e quel che faccio!
Eppur è d'uopo... sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà!
(Ruggero Leoncavallo – I Pagliacci)
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ron Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ridi, Pagliaccio!





Recitar! Mentre presso dal delirio
non so più quel che dico e quel che faccio!
Eppur è d'uopo... sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà!




-Esigo uno show che si rispetti. Altrimenti, da stasera sei fuori.-

Sbattè la porta, silenzio.

Si ritrovò finalmente solo, davanti ad uno specchio, sotto il pallido cono di una luce elettrica. Sotto il neon ronzante, fastidioso, insistente, di un vecchio e malandato camerino di cabaret.

Vecchie poltrone bordeaux, ornate in oro, decisamente di cattivo gusto, stavano ammucchiate al muro di fronte alla porta. Un vecchio sipario, dello stesso colore, bucato, divorato dalle termiti era riverso su un baule. Una parte era scivolata sul legno consunto del pavimento, come una pozza di sangue rappreso.

Cattivo odore. Stantio, vecchio, muffa.

Odiava quella stanza. Dal primo momento in cui vi aveva messo piede, aveva sentito una morbosa avversione per quell’ambiente, non totalmente giustificata dall’atmosfera terribile.

Ciò che lo infastidiva, che gli impediva di respirare, di sentirsi libero, erano quegli specchi.

Quattro specchi a muro, paralleli, adibiti al trucco.

Impossibile sfuggirvi. Appena addentratosi in quell’area illuminata, di fronte ad uno di essi, vedeva la propria immagine odiata, detestata, ripudiata riflessa infinite volte.

Sedette stancamente davanti ad uno di essi, poggiando la propria borsa su uno sgabello, malandato.

Meglio un solo riflesso.

Un ritratto odiato.

Occhiaie profonde, tracce violacee dipinte su una tela pallida. Gli occhi, un tempo azzurri, vispi, ricoperti da una patina d’amarezza, spenti…come quelli di un cieco.

Le ciocche vermiglie, troppo lunghe, gli coprivano scomposte i lati del viso, richiamando le chiazze rossastre delle sue lentiggini, fin troppo in risalto sul pallore spettrale della pelle.

Un respiro di differenza da un cadavere.

Aprì la cassetta del trucco, troppo stanco per liberare quel sospiro sospeso tra i polmoni ed il petto. Con gesti lenti, fiacchi, incipriò la spugnetta nel contenitore, donandosi un momento di masochismo, mentre indugiava ancora su quel riflesso marmoreo.

Poi cancellò ogni traccia. Efelidi, occhiaie, distruzione e disperazione dal volto, seppellendole sotto un velo bianco. Nascose le sue debolezze, come nascondeva la sua persona da mesi.

Troppo debole per affrontare il mondo, schiacciato sotto l’insostenibile peso del rimorso, della solitudine, della paura, aveva abbandonato una vita, o ciò che ne restava, alle spalle. Troppo stanco per affrontare i fantasmi del passato, scacciarli via, aveva finito col raggiungerli, unirsi a loro, nella danza macabra di una vita non vissuta.

Dei passi riempirono il silenzio, disturbando il ronzare del neon, si spalancò la porta.

-Tra cinque minuti tocca a te, mago da strapazzo.-

Ancora un tonfo, di nuovo il silenzio.

Si sollevò in piedi, raccogliendo la giacca scura, piena di toppe. Un frac, un cilindro, un bastone. Un abbigliamento perfetto per un mago fallito.

E lui mago lo era stato davvero, un tempo. Prima di evadere dalla vita, o prima che la vita evadesse da lui. Prima di distruggere la sua bacchetta. Prima di seppellire, con le proprie mani un amore e un amico. Un padre ed una madre. Un fratello.

Prima di lavare le loro lapidi con le proprie lacrime.

Ha ancora un senso quest’esistenza?

Aprì ancora la borsa, rovistando tra i vestiti di ricambio e gli asciugamani. Tirò fuori la sua ossessione, il suo gioco pericoloso. Lo aprì, contandone le rimanenze.

Una, due, tre, quattro, cinque.

Cinque sferette colorate. Abbastanza per morire, tutte insieme.

Agitò il contenitore con la mano, indugiando, lasciando che il battere dell’una contro l’altra gli rimbombasse nella testa. Sollevò lo sguardo, incrociando quello morto dello specchio.

Ne ingoiò due. Abbastanza per sopravvivere, non per abbastanza per vivere.

Le mandò giù, senz’acqua.

-Ehi, lì dentro! E’ il tuo turno!- urlò ancora infuriata, la voce del padrone del locale, fuori dalla porta.

Ne ingoiò una terza, di riflesso. Abbastanza per non morire?

Fuggì finalmente gli specchi, uscì dal camerino, senza portare con sé nient’altro. Era un vero mago, dopotutto.

-La gente paga per entrare qui, ragazzo! Falla ridere.- sussurrò, dandogli una pacca sulla spalla. Primo gesto di comprensione, apparentemente, dalla prima volta in cui lo aveva visto. Asserì chiudendo gli occhi, cacciando indietro un conato di vomito.

Il velluto pesante del sipario gli riempì la vista, mentre la luce dell’occhio di bue, che trapelava dai piccoli fori, gli lacerava gli occhi.

Una soubrette, vestita di blu, pesantemente truccata, uscì ancheggiando dal palcoscenico, accompagnata dallo scroscio di un applauso. La parrucca nera, fino all’orecchio, le lunghissime ciglia finte. Strizzò l’occhio verso di lui, mentre lo superava, provocante.

Attese immobile che la voce fuoricampo lo annunciasse, poi si ritrovò, le luci puntate sul viso, faccia a faccia con il suo pubblico. Niente emozione, niente tremori. Atarassia pura.

Riusciva a scorgere solo i primi tavoli, ai piedi del palco. Facce accalorate, esaltate dallo spettacolo precedente. Espressioni che pian piano si deludevano alla sua vista.

Fece pressione su se stesso, per vincere la voglia di sdraiarsi sulle vecchie assi scricchiolanti e lasciarsi morire. Iniziò lo spettacolo.

Come una marionetta, lasciava che le sue mani si muovessero al ritmo della musica, afferrassero oggetti apparsi dal nulla. Che le sue labbra si piegassero in sorrisi incapaci di sbrinare gli occhi, esordissero in risate che gelavano il cuore.

Distratto, troppo goffo. Le mani, addestrate a combattere, troppo grossolane per maneggiare trucchi artistici. Un mazzo di carte gli scivolò dalle mani, si chinò a raccoglierle, mentre quel legno logoro appariva sempre più invitante.

Una risata dal fondo della sala, da un punto a cui la luce accecante impediva ai suoi occhi di arrivare. Il pubblico rideva di lui, se ne beffava.

Le espressioni in prima fila divenute scettiche, ciniche, fredde, respingenti.

Innumerevoli forme astratte gli balenarono davanti agli occhi, offuscandogli i sensi.

Abbastanza per morire?

Cadde sulle ginocchia, nel tentativo di recuperare qualche altro oggetto sfuggito a quelle mani da Auror.

Suscitò altre risa di scherno, demolì definitivamente la sua dignità, sepolta dalla polvere, abbagliata dalle luci di un cabaret di periferia, scenografia di una vita mai vissuta, sempre attesa, troppo ormai.*

Concluse ciò che restava del suo show, senza più reggersi sulle ginocchia. Uscì di scena, accompagnato dall’occhio di bue e dalla derisione, raccogliendo il cilindro e posizionandolo in bilico sulla testa.

Dimenticò il bastone, abbandonato sul pavimento.

Uscì di scena, raggiungendo i camerini, riparandosi tra quegli specchi sempre più insostenibili. Vecchio Auror fallito.

La voce del padrone non si fece attendere a lungo, infervorata, dimentica della compassione provata solo poco tempo prima.

-Sei fuori! Mai visto un mago più incompetente. Una vergogna…-

Mille aghi nel petto, lacrime che lottavano per uscire. Un mazzo esiguo di banconote scaraventatogli davanti al viso.

-Eccoti il benservito!-

Attese di essere solo, prima di riprendere in mano il suo giocattolo. Restavano solo due sfere, le ingoiò senza pensarci, fissando il muro scabro, privo di carta da parati, piuttosto che quegli specchi. Sollevò la borsa, ponendola sul baule, lontana dal pavimento, dai topi, dagli scarafaggi, per non trovarla consumata, quando sarebbe tornato.

Abbandonò il locale senza struccarsi, senza nemmeno spogliarsi degli abiti di scena, mentre le immagini davanti ai suoi occhi sfocavano sempre più. Raggiunse appena, barcollante, la strada passante di quella squallida periferia londinese, attirando gli insulti dei passanti. Incassando gli sguardi sprezzanti della gente per bene.

Della gente per cui aveva combattuto, rischiato la vita.

Vecchio Auror derubato dalla guerra.

Si fermò sotto un lampione, poggiandovi la testa, senza trattenere i gemiti di dolore che avevano preso a scuoterlo. Si accasciò sotto quell’occhio di bue personale, con un lungo lamento.

Percepì la fuga dei passanti accanto a lui, pronti a scrollarsi dalla coscienza la sua morte.

Abbandonò le braccia pesanti lungo il corpo, le tempie pulsavano sempre più piano. Quel viso amato che aveva sepolto, mero triste miraggio, riempì la sua visuale, oscurandosi pian piano, prima dell’ultima esalazione.

Pochi secondi di convulsioni scossero le sue membra.

Buffo a volte il destino, Ronald Weasley: vita da eroe, morte da pagliaccio.

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e'l dolor...
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore in franto!
Ridi del duol t'avvelena il cor!

(Ruggero Leoncavallo – I Pagliacci)


The End





* Verso tratto da Eleonora, mia madre dei Pooh.
   
 
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