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Autore: Ray    06/01/2004    1 recensioni
Un crossover tra Evangelion e Warhammer 40.000 (ma scritto in modo da essere comprensibile anche per chi non conosce quest'ultima ambientazione). Su di un pianeta ai confini della Galassia cade un artefatto di un'epoca remota. Ma qual è la sua natura? E chi sono i misteriosi individui che se ne vogliono impossessare? Mentre infuria la guerra, emergono echi di un remoto passato e la condanna della vecchia umanità potrebbe diventare la speranza della nuova. O forse è solo un diabolico scherzo degli Dei del Caos....
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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‘Addossatevi al vostro Imperatore se vi fa sentire al sicuro. Non può salvarvi, perché solo il Caos è eterno…’

Endemion, Warsmith degli Iron Warrior

 

Episodio 39: "che ne diresti di acquisire un potere che ti permetta di strappare Yui allo 01 con le tue sole forze?"

 

ANNO 2004

Gendo Ikari aveva un problema: faceva fatica a esternare le proprie emozioni. In realtà, lui non lo viveva come un limite: non gli importava più di tanto che gli altri capissero quello che provava. Con il tempo, era arrivato a pensare alla sua incapacità di esternare i propri sentimenti più come a un vantaggio che come a un intralcio. Lo aveva favorito in parecchie occasioni sul lavoro, consentendogli di superare dei concorrenti agguerriti. Ma, sebbene qualcuno lo negasse con forza, anche Gendo Ikari era umano e anche lui era preda di se stesso, esattamente come tutti i propri simili. O forse un po’ meno, o almeno così gli piaceva credere. Preda delle proprie emozioni. Non riusciva ancora a definire in altro modo lo stato in cui si trovava in quel momento. Solo pochi giorni prima, sua moglie Yui era rimasta vittima di un incidente durante l’esperimento di attivazione dell’unità Evangelion 01; un incidente che, con tutta probabilità, gliel’aveva tolta per sempre. Seduto alla sua scrivania alla sede del Gehirn, lo sguardo perso nel vuoto tra i giochi di luce che il sole del tramonto proiettava oltre le vetrate, gli sembrò di rivedere Fuyutsuki, ricordando il giorno in cui, in quella stessa stanza, era venuto a minacciarlo di rendere pubblica la verità sul Second Impact. Fuyutsuki! Aveva sempre avuto una predilezione per Yui, nonostante non fosse chiaro fin dove questa predilezione arrivasse. E, per dirla tutta, a Gendo Ikari non importava nemmeno granché. All’inizio, non gli era importato perché non era stato particolarmente interessato alla stessa Yui: lei era stata solo un mezzo per arrivare alla Seele, uno strumento che gli avrebbe dovuto permettere il classico "salto di qualità". Poi, non gli era importato perché la relazione con quella ragazza, tanto più giovane di lui, eppure tanto più decisa e brillante, lo aveva coinvolto oltre qualsiasi limite di guardia. Gendo Ikari pensava talvolta che essersi innamorato di Yui fosse stata una sorta di compensazione a una vita passata a tenersi dentro tutti i propri sentimenti. E il dolore, la rabbia e la frustrazione che provava ora, che sapeva di non poterla più rivedere, dovevano essere il mezzo di espiazione che una qualche dio feroce gli aveva caricato sulle spalle.

Gendo Ikari chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro sullo schienale della poltrona; si sollevò gli occhiali sulla fronte con la mano sinistra e si afferrò la base del naso con l’indice e il pollice della destra, sospirando per la stanchezza che lo aveva assalito anche se non aveva fatto assolutamente niente. Si risistemò gli occhiali, tornò ad abbassare la testa e aggrottò la fronte, cercando di guardare meglio davanti a sé. Aveva la netta impressione che ci fosse qualcuno davanti a lui. Poi, con più chiarezza, vide una sagoma umana, nascosta dalla luce che entrava dalle vetrate, era in piedi davanti alla scrivania, a circa tre metri di distanza. Curiosamente, la luce sembrava disporsi su quell’individuo come se fosse stata dotata di volontà propria, come se avesse voluto deliberatamente celarne l’aspetto.

Ikari non disse una parola: aveva l’impressione che chiedere a quel tizio chi fosse lo avrebbe messo in una posizione di svantaggio. Ma, considerò subito, sarebbe stato molto peggio restare lì per minuti interi senza dire niente. "Sì?", domandò infine, ritenendo che quella parola non lo scoprisse troppo. Continuava a chiedersi come avesse fatto quell’uomo ad entrare senza che lui se ne fosse accorto. Sembrava essersi materializzato tra i raggi del sole.

"Sono qui per farti le mie condoglianze", disse il nuovo arrivato, una voce asciutta e inespressiva, "Deve essere difficile perdere la propria amata consorte dopo solo due anni di matrimonio".

Ikari giudicò che la situazione non permettesse più né convenevoli né comportamenti di facciata: "Chi sei? Come hai fatto a entrare nel mio ufficio senza farti annunciare?". La sua voce era rimasta impassibile, ma la minaccia dietro quelle parole era evidente.

Ma lo straniero sembrò non coglierla e rispose con tranquillità disarmante: "Quando nacqui, mi fu affibbiato un nome, ma la lingua che parlavano i miei genitori è ormai morta da tempi immemorabili. Ora uso diversi nomi a seconda delle circostanze; non è necessario che tu ne conosca uno in particolare. Quanto al sistema che ho usato per entrare… be’, non hai alcuna esperienza in merito, quindi non ti sarebbe facile comprendere una spiegazione".

"Sono un tipo aperto alle novità", replicò Ikari inespressivo, mentre faceva scivolare la mano sotto la scrivania per premere il pulsante che avrebbe richiamato gli uomini della sicurezza (che avrebbe poi provveduto a far licenziare non appena lo avessero liberato di quel fastidioso intruso).

"Diciamo che ho fatto qualcosa che mi piacerebbe chiunque potesse fare, anche se questo sarà possibile solo in un lontano futuro… Ero fuori da questo posto e ho desiderato di entrare. Per fare ciò, ho spostato il mio corpo materiale in una realtà parallela a quella che conosciamo, l’ho mosso nuotando per le correnti di quella realtà e ho trovato la marea che mi ha condotto a un punto diverso dell’universo in cui viviamo. Quello in cui mi trovo ora, per l’appunto".

"Interessante…". Stava solo cercando di prendere tempo. Ikari stava solo cercando di far parlare quell’uomo, nell’attesa che arrivassero i sorveglianti.

"Ah, giusto per chiarire un punto, lascia che ti spieghi che l’allarme che hai appena premuto non ha richiamato nessuno. Devo parlarti di argomenti troppo importanti, non posso permettere alcuna interruzione".

Stavolta Ikari deglutì, anche se cercò di non farlo notare. Doveva trovare un modo per uscire da quella situazione. Per ora, tanto valeva dare corda a quel pazzo: "Ti ascolto".

"Tua moglie non è propriamente morta, come ti ha spiegato Naoko Akagi. Ma il piano che ti ha proposto per tentarne il recupero fallirà, te lo garantisco; non avrò nemmeno bisogno di intervenire, perché la verità è che la stessa Akagi vuole che fallisca. Eppure, tu hai comunque un modo per rivedere Yui". Nessuna risposta. L’intruso giudicò di dover continuare: "Come sai, il presidente Keel non ha intenzione di rinunciare al proposito che lo ha portato a realizzare il Second Impact, ma le sue teorie necessitano di uno studio più approfondito e di strutture appropriate, che non saranno del tutto operative ancora per molto tempo. Anche se devo ammettere che il mio piano originario ha subito qualche variazione, tutto sta andando più o meno come previsto: i Rotoli del Mar Morto sono nelle mani della Seele e loro li seguiranno con diligenza. Ma questo non ti riporterà Yui".

"Vieni al punto". Gendo Ikari si stupì di se stesso: non era da lui diventare impaziente in quel modo. Che la speranza di poter rivedere Yui lo avesse reso così ansioso? Era evidente che quel tizio non era un pazzoide qualsiasi: sapeva troppe cose.

"Certo, scusa. Tendo a divagare, me lo dicono tutti. Quello che cercavo di dirti è che il Third Impact che vuole la Seele non è necessariamente l’unico possibile. Riflettici: hai Lilith praticamente nelle tue mani, intendi lasciarti sfuggire un’occasione tanto irripetibile?"

"Cosa vuoi dire esattamente?"

"Molto semplice: che ne diresti di acquisire un potere che ti permetta di strappare Yui allo 01 con le tue sole forze? Se Yui è diventata LCL e si è fusa con il nucleo dell’Eva, per riportarla indietro non ti resta che riuscire a controllare qualcuno che possa creare l’LCL e dominarlo a piacimento. Qualcuno come Lilith, per esempio. Non ti nascondo che sarà un procedimento lungo e difficile. Ma un sistema c’è". L’uomo uscì dalla luce e si avvicinò alla scrivania. Poggiò le mani sul bordo e si allungò verso il proprio interlocutore. Ikari fu infastidito nel vedere che, anche ora, che la faccia dell’intruso si trovava a pochi centimetri dalla sua, non riusciva a distinguerla assolutamente. "Un tramite!", continuò l’uomo, "Ti serve un tramite che faccia da mezzo di comunicazione tra te e Lilith, innanzitutto. Poi ti serve Adam, perché solo per mezzo del suo potere avrai la facoltà di controllare direttamente la madre dell’umanità. Ma avrai Adam al momento opportuno: per ora, preoccupati del tramite. Ti serve una creatura abbastanza umana da obbedirti e abbastanza demoniaca da poter entrare in sintonia con Lilith. Ti serve un ibrido, in altre parole. Io ti spiegherò come ottenerlo".

"Perché mi vuoi aiutare? Cosa ci guadagni?".

L’uomo tornò a mettersi in piedi, ritto davanti alla scrivania: "Non sono solo io a guadagnarci, ma tutta l’umanità. In questo universo, e nell’altro di cui ti parlavo prima, ci sono delle minacce che non puoi nemmeno immaginare e, ora come ora, la razza umana non è preparata ad affrontarle. L’umanità deve evolversi. Deve acquisire poteri simili ai miei, o perirà. Quello che voglio è che Lilith scateni il Third Impact, ma questo Third Impact deve fallire. Gli uomini devono diventare LCL per entrare in comunione con il Caos, ma poi devono tornare a essere uomini. A quel punto, il loro codice genetico sarà contaminato e, con il passare delle generazioni, si evolveranno per diventare psyker. Ma il fatto è che Keel vuole che l’umanità resti per sempre fusa con se stessa, quindi mi serve qualcuno che faccia fallire il suo piano. Adesso sto facendo leva sulle tue motivazioni perché voglio che sia tu questo qualcuno. Ma nemmeno quello che ti sto proponendo è ciò che voglio: al momento opportuno, farò in modo che tu sia tradito".

"Non è molto intelligente da parte tua dirmi in anticipo che mi vuoi tradire"

"Non ti preoccupare: ricorderai solo ciò che voglio tu ricordi. Prima di andarmene, provvederò a cancellare dalla tua memoria tutto ciò che non mi serve tu sappia, compreso il ricordo di avermi incontrato".

"Se sei tanto abile a manipolare la mente delle persone, perché non fai direttamente quello che ti sei proposto? Ti sarebbe così difficile ottenere tutto ciò che ti serve?".

"Ci sono tre motivi per cui non posso fare come dici. Innanzitutto, non è ancora tempo che l’umanità sappia della mia esistenza. Se mi rivelassi al mondo, sarei preso per pazzo e nessuno crederebbe alle mie parole, perché nessuno immagina l’esistenza di certe cose. In secondo luogo, il combattimento contro Adam che ho sostenuto quattro anni fa ha prosciugato completamente i miei poteri. Mi ci vorranno altri anni per riprendermi completamente. Devo risparmiare energie, quindi ho deciso di agire solo sulle persone che possono avere un ruolo importante nel mio progetto, anche perché ritengo che mi servirà tutta la mia forza per resistere al Third Impact. Infine, come ti dicevo, sono necessarie diverse strutture apposite per ottenere quello che voglio e servirà molto tempo perché siano completamente operative. Ma adesso basta divagare: sto per spiegarti come ottenere il tuo ibrido, quindi ascoltami bene…".

 

ANNO 2016

Rei Ayanami aprì la porta ed entrò nel suo appartamento. Era la prima volta che lo vedeva, ma ci era già stata. Lo ricordava chiaramente. Una sensazione strana, come non aveva mai provata prima. Ma non faticava a capire cosa le stesse succedendo: lei era la terza. Aveva ereditato i ricordi della seconda. Erano quei ricordi che ora vedeva come proprie esperienze. Erano quei ricordi che costituivano la sua intera vita, benché non l’avesse mai vissuta. Sapeva di essere stata confinata per anni in una vasca colma di LCL, insieme a decine di altre sue copie, o meglio, copie dell’originale. Ma non ricordava niente di quel periodo: le memorie di Rei Ayanami, che era un’unica entità, avevano completamente preso il sopravvento su quelle che ci sarebbero dovute essere nel suo cervello. I ricordi di Rei Ayanami. Rei Ayanami si fermò davanti allo specchio che c’era vicino al suo letto e lentamente, quasi gustando ogni attimo con un bizzarro senso di masochismo, si tolse le medicazioni una per una. Dalla testa e dalle braccia. Medicazioni che non avevano ragione d’essere: non c’era alcuna ferita. Poi, girò lentamente la testa verso sinistra. I ricordi di Rei Ayanami. Un paio di occhiali con una crepa che attraversava una lente. Appoggiati sul comodino. Quelli erano un ricordo di Rei Ayanami. Uno dei più vividi, per la verità: le riportavano alla mente un uomo. Un uomo che era stato importante. Un uomo che l’aveva creata per uno scopo. Che le aveva risparmiato la seccatura di dare un senso alla propria vita, fornendole un motivo per continuare a esistere. Anche oltre la propria morte. Fornendole l’obbligo di continuare a esistere. Rei si girò completamente e mosse qualche passo verso il comodino. Ancor prima di poter raggiungere gli occhiali, tese la mano, come per afferrarli. E li prese.

Davanti a lei c’era un uomo che glieli stava passando. Non riusciva a vederlo bene, era come un’immagine sfocata, era come se si fosse trovato dietro un vetro sporco, come se fosse stato dipinto su di una tela strappata.

Rei prese gli occhiali. Di una sola cosa era certa: quell’uomo non era la persona a cui appartenevano. "Sei stata creata per uno scopo", disse lui. Nessuna risposta. "Ti hanno detto che il tuo scopo è permettere l’evoluzione dell’umanità,", continuò l’uomo, "e io ti dico che è vero. Il motivo per cui ho fornito a Rokubungi le tecniche necessarie per generare una creatura come te è proprio questo. Ora, adempi al tuo compito. C’è un solo modo in cui tu possa farlo. Ed è il modo che io ho stabilito". L’uomo indicò gli occhiali che la ragazza teneva in mano: "Pensavo che avrei dovuto manipolare la tua mente per indurti ad agire in questo modo. Ma i ricordi dell’altra te stessa sono ancora vivi in te. Agirai come io voglio, ma lo farai di tua volontà. Hai trovato qualcosa di più importante dello scopo che ti era stato assegnato e, sostenendo questo, farai ciò che io avevo prefissato. Lilith è stata la madre dell’umanità che sta per finire: tu, carne e sangue di Lilith, sarai la madre dell’umanità che rinascerà dal Third Impact".

Rei portò lo sguardo sugli occhiali. Nessuno glieli aveva passati, li aveva presi lei stessa dal comodino. Nel suo appartamento non c’era nessun altro. Era completamente sola. Nessuno le aveva parlato. Il suo scopo, prefissato dal proprietario di quegli occhiali, non era cambiato. La sensazione che quegli occhiali le procuravano non era cambiata. Sicurezza. Supporto. Approvazione. Cura. Interesse. Solitudine. Abbandono. Sensazione di avere perso qualcosa di importante. Sensazione di non aver mai deciso niente nella propria vita. Di essere stata deliberatamente isolata da tutto ciò che avrebbe potuto dissuaderla dallo scopo prefissato. I ricordi di Rei Ayanami.

Rei strinse gli occhiali. Sempre più forte. Quasi senza rendersene conto. Poi, vide qualcosa macchiare le lenti. "Queste sono lacrime?", si chiese sbalordita. "Dovrebbe essere la prima volta che le verso… eppure, ho la sensazione che non sia la prima volta… Io sto… Io sto piangendo? Perché sto piangendo?".

Gli occhiali si spezzarono.

 

Episode 39: "I’ll take you with me. What’s your name?"

 

ANNO 992M41 (forse)

Erin stava camminando. Era in una pianura immensa, ma non riusciva a vedere nemmeno un centimetro quadrato di terreno. Perché tutto il terreno era coperto di cadaveri. Uomini dilaniati da proiettili, esplosioni, colpi di spada e da una serie di altri danni che non potevano essere immaginati, giacevano davanti a lei, formando un macabro tappeto, una testimonianza alla loro stessa follia.

Per niente intimidita da quella vista, come se ci fosse stata abituata, avanzava con passo lento ma sicuro, calpestando carni e ossa sotto i propri piedi, percorrendo a grandi falcate quelle terre tormentate.

Grandi falcate? Erin si fermò un attimo a pensare… Lei non era così alta… Guardò verso il basso. La prima cosa che attirò la sua attenzione fu la posizione della sua stessa testa: giudicò che dovessero esserci più di due metri tra i propri occhi e il terreno. Il secondo elemento strano di quella situazione era, Erin notò, che le sue gambe erano avvolte negli schinieri metallici di una Power armour bianco sporco. Non è che lei avesse visto molti Space Marine in vita sua: alcuni su Camarina, poi Fabius Bile e altri con cui questi aveva avuto a che fare. Però, ne sapeva abbastanza da riconoscere una Power armour quando ne vedeva una. Istintivamente, si portò la mano destra davanti agli occhi. Come aveva pensato, calzava un guanto metallico che non poteva che appartenere a una corazza dell’Adeptus Astartes. Con suo stesso stupore, la cosa non la sorprese molto. Riprese a camminare.

Si fermò.

Davanti a lei c’era qualcuno. Vivo. Un ragazzino dai capelli neri e corti, vestito con abiti sporchi e strappati, sdraiato tra i cadaveri come se la sua massima ambizione fosse stata essere uno di loro, fissava il cielo con i suoi occhi spalancati.

Erin sospirò. Guardò lungamente il giovane: ci vedeva qualcosa di familiare, percepiva con lui una bizzarra affinità istintiva, ma non avrebbe saputo dire da cosa derivasse. Forse aveva l’impressione che le loro esperienze coincidessero in qualche modo, ma non riusciva a focalizzare bene come. Anzi, non riusciva a focalizzare nemmeno quali fossero le esperienze che glielo facevano sentire vicino. Le aveva vissute, ma non le conosceva. O forse le conosceva ma non le aveva vissute.

Poi, Erin parlò: "Chi sei?". Si stupì di sé stessa: aveva pronunciato quelle parole con una voce maschile. Non particolarmente profonda o possente, ma era indubbiamente una voce maschile.

"Ha importanza?" rispose il ragazzo senza distogliere i suoi occhi neri dalle grigie nuvole che si andavano ammassando in cielo. "Non siamo forse quello che facciamo?" aggiunse poi con rassegnazione.

"No, se non siamo noi a volerlo" replicò Erin, sempre con la stessa voce maschile.

Il ragazzo sbuffò: "Troppo facile. Questo significa che possiamo fare qualsiasi cosa e poi assumerci solo la responsabilità di quello che ci piace o che ci è andato bene?".

"Non ho detto questo. Intendevo semplicemente che ci sono molte cose che siamo costretti a fare. Dobbiamo comunque assumercene la responsabilità, ma abbiamo il diritto di affermare il nostro disaccordo. Esistono fin troppe circostanze in cui non siamo noi a decidere quello che va fatto".

"Io ho deciso tutto. Sono stato io a decidere che tutte queste persone morissero. E sai perché adesso sono qui? Sai perché vorrei morire anch’io? Non perché io provi rimorso. No, assolutamente. Né sono dispiaciuto per la fine di questa gente. Non rimpiango minimamente quello che ho fatto. Sto aspettando di morire solo perché, dopo tutto questo, ho capito di non aver fatto niente. Ho causato la morte di migliaia di persone, eppure non provo niente. Non mi sento triste, non mi sento in colpa, non mi sento solo. Anche dopo ciò che ho provocato, non riesco a provare alcunché. Se non sono capace di avere emozioni, significa che non sono vivo, quindi tanto vale che io muoia qui".

"È solo questo il tuo problema?".

"Solo…?".

"Ti lamenti per il fatto di non provare emozioni? Hai idea di quanta gente vorrebbe essere al tuo posto? Sai quante persone vorrebbero poter fare quello che fanno senza esserne tormentate?".

Il ragazzo balzò a sedere e, per la prima volta, volse gli occhi su Erin, fulminandola con uno sguardo carico di rabbia: "E cosa vuoi che me ne importi degli altri? Tutti abbiamo dei problemi! Non pretendo di essere capito, io avevo già deciso cosa fare! Io vorrei essere tormentato dalle mie azioni, se questo mi dimostrasse che esisto! Non me ne frega niente di chi non riesce a scrollarsi di dosso il rimorso per quello che fa!".

Erin guardò lungamente il giovane. Poi, rispose: "Io posso risolvere il tuo problema, e forse tu potresti risolvere il mio. Ti prendo con me. Come ti chiami?".

Il giovane distolse nuovamente lo sguardo: "Che importa? Tanto non esisto!".

"Hai ragione, non importa. Allora, visto che comincerai a esistere da questo momento, ti darò io un nome: in ragione della morte che hai causato, il tuo nome sarà Abaddon, come il demone distruttore dei miti antichi. Vieni con me, Abaddon, vedrai quanto è facile provare emozioni….".

 

Erin si svegliò. Un improvviso scossone la fece sobbalzare sul sedile e quasi cadere dalla jeep. Stropicciandosi gli occhi, si girò alla propria sinistra: Logan stava guidando a tutta velocità verso la capitale di Novet, lo sguardo contratto in una smorfia seccata. La ragazza scosse il capo, sbadigliando profondamente. Gli ultimi giorni erano stati parecchio stressanti e dormire un po’ le era proprio servito. Quel sogno strano, però, l’aveva turbata. Fabius Bile le aveva già spiegato che il codice genetico di un Primarca, come quello che lei aveva ereditato, era psichicamente carico e quindi non c’era da stupirsi dei ricordi residui che le aveva trasmesso. Eppure, rivivere le esperienze di qualcun altro la turbava. Sbadigliò e si appoggiò sullo schienale del sedile accanto a quello del guidatore, senza curarsi troppo dei continui sobbalzi a cui la strada dissestata che portava alla capitale sottoponeva la jeep. Si girò verso Logan: "Tu credi nella reincarnazione?" domandò senza troppa convinzione. "Certo!", replicò lui con decisione, "L’unghia dell’alluce sinistro mi si è reincarnata due volte". Erin sbuffò: "Stavo parlando di reincarnazione, non di unghie incarnite. Metempsicosi, hai presente?". Il ragazzo aggrottò la fronte: "Com’è che ti vengono in mente queste cose proprio adesso?".

"Ho fatto un sogno strano. Credo fossero ricordi di Horus. Ogni tanto mi capita".

Logan poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui, nella propria vita, si era trovato senza parole. In genere, trovava il modo di replicare a qualsiasi cosa, magari con un semplice ‘Vaffanculo!’, giusto per non lasciare all’interlocutore l’ultima parola. In quella particolare circostanza, però, si sentiva spiazzato: non era difficile capire perché Erin avesse tanti problemi a trovarsi uno scopo nella vita, se non riusciva nemmeno ad avere dei ricordi completamente propri. Ma, in fin dei conti, la cosa non lo interessava più di tanto. "Hai idea di come trovare Bile?" chiese senza distogliere lo sguardo dalla strada, mentre già si profilava la sagoma, ormai quasi spettrale, della capitale di Novet. "Mi ha dato una trasmittente per tenermi in contatto con lui, ma sembra che non funzioni", replicò la ragazza. "Ci sono troppe interferenze". "Capito," sospirò Logan "allora dovrò passare al piano B".

"Sarebbe?".

"Cercherò di percepire la sua aura e di localizzarlo così. Bile non è uno psyker, quindi non sarà facile. D’altra parte, se adesso non lo trovo, tutta la missione rischia di saltare".

"Logan?".

"Eh?".

"Vuoi che ti dica come la penso? La missione è già saltata. Se l’Evangelion si è mosso, deve essere successo qualcosa che non era previsto. A questo punto, penso che le probabilità che io possa controllarlo siano davvero minime".

"Forse sì e forse no. Con tutti i soldi che ci sono di mezzo, non mi va di rinunciare così facilmente. Non mi stupirei se Bile avesse previsto anche questo e me l’avesse tenuto nascosto per qualche motivo".

 

"C’è una cosa che dovresti sapere prima di cominciare a combattere", disse Charles a Gutzmaak, apparentemente senza che il suo respiratore intralciasse minimamente la sua capacità di parlare. Si muoveva facendo ondeggiare le proprie braccia e il proprio tronco con un ipnotico ritmo incalzante, che sembrava aumentare impercettibilmente di secondo in secondo. "Si crede erroneamente che gli psyker possano essere combattenti più efficaci di chi non possiede poteri psichici. Ebbene, io ho scoperto che questo non è vero, anzi. Gli psyker sono più vulnerabili, basta poco per trasformare i loro poteri in uno svantaggio, e ora ti dimostrerò come….". Senza nemmeno poter finire il proprio discorso, l’agente degli Illuminati si ritrovò sbalzato in aria, impegnato in un velocissimo salto mortale all’indietro. Aveva effettuato quel movimento senza pensarci: dove, meno di due secondi prima c’erano stati i suoi piedi, ora l’ascia bipenne dell’Orketto era saldamente conficcata nel terreno. Charles atterrò, il cuore che gli martellava nelle orecchie: aveva reagito con un semplice riflesso condizionato, ma era stato troppo occupato a blaterare per evitare il colpo. E, per dirla tutta, non aveva alcuna certezza che quel pelleverde fosse uno psyker…. Aveva visto il ragazzo e la ragazza dai capelli castani combattere e di loro era sicuro. Aveva visto la ragazza bionda prepararsi ad affrontare il ragazzo, quindi doveva esserlo anche lei. Ma l’Orketto? C’era un solo modo per saperlo. L’Illuminato terminò il pensiero appena prima di essere nuovamente scagliato in aria dai suoi riflessi potenziati dalla droga: di nuovo il mondo cominciò a turbinare attorno a lui, mentre vedeva vagamente il movimento delle lame sporche dell’ascia che cercavano la sua testa. Stavolta, agì consciamente: atterrò su entrambi i piedi e fece un altro salto all’indietro, roteando su se stesso in un movimento acrobatico. Poi un altro e un altro ancora, curando sempre di mantenersi all’interno della densa nube che il suo gas soporifero aveva creato. Poi, si acquattò al suolo.

Gutzmaak sogghignava vistosamente. Era da un po’ che non aveva occasione di fare kasino, come diceva lui, e finalmente questo umano che saltava dappertutto gli dava un’opportunità di recuperare l’arretrato. Con le spalle scosse da un riso sgangherato, trotterellò dove aveva visto sparire il suo avversario, facendo roteare l’ascia sopra la testa in un ampio movimento. Si guardò attorno. Le volute di fumo create dal gas impedivano di vedere con chiarezza; quel tizio sarebbe potuto essere praticamente ovunque. Ma era davanti a lui.

Fu il dolore a suggerirglielo: il dolore di quattro fredde lame che gli penetravano profondamente nello stomaco. Gutzmaak ringhiò, più per la rabbia che per il male, e balzò all’indietro, staccandosi di dosso quel fastidioso nemico. Davanti a lui, Charles lo guardava sospettoso, mentre il suo artiglio destro grondava il sangue verde tipico degli Orketti.

"Sei proprio uno psyker", commentò l’Illuminato. "Un individuo qualsiasi avrebbe evitato senza problemi questo attacco". Gutzmaak sbuffò, afferrandosi la ferita con una mano. "Magari penserai che io abbia tentato una tattica azzardata,", disse l’umano alzando stavolta entrambi gli artigli, "ma dovevo sapere cosa aspettarmi esattamente da te e confidavo di poter evitare un tuo eventuale contrattacco. Ma pare che vincere questo scontro sarà più facile del previsto: dopotutto, sei solo uno psyker….". Di nuovo, Charles sembrò scomparire tra le volute di gas, come un’ombra dissolta dal sole. Il pelleverde si guardò freneticamente attorno, girando rapidamente su se stesso e puntando l’ascia in qualsiasi direzione si voltasse. Per un essere umano, la ferita che aveva subito sarebbe stata fatale: la peculiare alga che si trovava però nel sangue degli Orketti (e di alcune altre razze inferiori) gli garantiva una straordinaria velocità di coagulazione e una resistenza fuori dal comune. Ma quattro coltelli in pancia facevano male comunque.

Ancora dolore. Stavolta al fianco. Con un ringhio furente, Gutzmaak si girò su se stesso e fece volteggiare l’ascia in un unico movimento. Fece appena in tempo a vedere la sagoma di Charles balzare all’indietro e nascondersi nuovamente nel gas soporifero, nuovamente lasciando di sé solo qualche parola: "Voi psyker siete troppo abituati a basarvi sui vostri sensi psichici. Localizzate il nemico percependo la sua aura, anche se potete vederlo. Spesso lo fate inconsciamente. È per questo che posso avvicinarmi a te così tanto senza che tu ti accorga di me: non individui la mia aura grazie all’aegis suit che indosso e la tua vista è troppo abituata a rendersi conto del nemico solo dopo che tu l’hai percepito".

Gli Orketti avevano molti difetti, almeno a sentire le altre razze (loro erano convintissimi di essere perfetti). Tra questi, c’era l’impulsività. Sebbene Gutzmaak avesse imparato a temprare questo suo istinto naturale, almeno in parte, grazie al molto tempo passato lontano dai membri della sua razza, non lo aveva certo perso completamente. Non gli piaceva aspettare. Voleva colpire quel nemico. Lanciando uno "Waaaaaaaaagh!" acuto e prolungato, cominciò a saltare a casaccio tra le volute di fumo, mulinando l’ascia senza uno scopo preciso. Impiegò circa cinque minuti in questa attività, prima di fermarsi, piegandosi sulle ginocchia e ansimando per la stanchezza.

Strisciando a terra, Charles sogghignò: quell’Orketto era davvero stupido. Si era sbattuto tanto nella speranza di colpire qualcosa, ma aveva ottenuto l’unico scopo di stancarsi inutilmente. A questo punto, sarebbe bastato un unico colpo ben assestato per mandarlo all’altro mondo. Molleggiandosi sulle gambe per guadagnare quanto più slancio possibile, l’Illuminato strisciò velocemente dietro il suo nemico, avvicinandosi tra la polvere e la sabbia che il mulinare dell’ascia aveva sollevato. Alzò il braccio destro, l’artiglio che incombeva sul collo dell’inconsapevole bersaglio, e scagliò il proprio attacco. Capì di avere commesso un errore solo quando il verde pugno sinistro dell’Orketto lo centrò in piena faccia, mandandolo ad abbattersi a terra. Mentre respirava affannosamente attraverso il filtro che aveva in bocca, mentre sentiva il sangue che gli bagnava la lingua, mentre cercava di rialzarsi, mentre guardava il suo avversario girarsi verso di lui e lanciarglisi contro mulinando l’ascia, capì dove aveva sbagliato. Muovendo convulsamente la propria arma, il pelleverde non aveva sperato di colpirlo per caso. No. La sua intenzione era stata quella di sollevare un polverone, tutto qui. Aveva intuito la sua posizione dal movimento dei granelli di polvere. Lo aveva previsto fin dall’inizio. Di nuovo, Charles balzò in aria per schivare il colpo d’ascia e atterrò in piedi qualche metro più indietro.

Gutzmaak sogghignò e si fermò subito dopo il suo colpo d’ascia: aveva capito che attaccare il nemico direttamente non sarebbe servito a niente. La velocità dell’avversario era superiore e avrebbe potuto schivare ogni assalto. Però, aveva anche l’impressione di non poter usare lo stesso trucco una seconda volta. Non aveva ragionato con attenzione questa eventualità, c’era una specie di istinto combattivo che gliela suggeriva. A questo punto, aveva solo una scelta: non doveva perdere di vista l’umano. Non era facile tenerlo d’occhio tra le volute di gas, anche se il suo mulinare furiosamente l’ascia le aveva parzialmente disperse.

E fu questo a impensierire Charles. Non c’era più tutto il gas che c’era stato prima. Stava incominciando a svanire, anche a causa del vento che aveva iniziato a soffiare sulla pianura sabbiosa. L’agente degli Illuminati sbuffò: doveva chiudere il combattimento il prima possibile. Non poteva permettersi di allungare ulteriormente i tempi, perché non sarebbe certo riuscito a nascondersi sotto la sabbia mentre il suo avversario aveva gli occhi puntati su di lui. La scelta era una sola: doveva basarsi sulla propria velocità superiore.

Senza rifletterci un attimo di più, scattò in avanti; quasi istintivamente, senza nemmeno pensarci, schivò un fendente verticale dell’ascia dell’Orketto e scivolò alle sue spalle con una rapidità quasi inconcepibile per l’occhio umano. Sorrise amaramente, pensando che tutta la forza che gli davano le droghe da combattimento prima o poi lo avrebbe stroncato. Alzò entrambi gli artigli e si preparò a calarli sulla schiena scoperta de nemico, quando i suoi riflessi alterati l avvertirono di un pericolo. Un sibilo, un movimento dell’aria, un silenzioso boato che proveniva dall’alto. Puntò lo sguardo verso il cielo, mentre le sue gambe lo portavano a saltare all’indietro quasi meccanicamente. Un enorme corpo traslucido e dall’aspetto vagamente simile a quello di un piede stava letteralmente cadendo dalle nuvole. Il gigantesco piede si schiantò al suolo a pochi centimetri dalla schiena dell’Orketto, dove un attimo prima c’era stato lui. L’impatto di quell’affare con la sabbia alzò un polverone per diversi metri, e, contemporaneamente, dissipò quasi completamente il gas soporifero. Charles ringhiò di disappunto: anche se la polvere impediva di vedere con chiarezza, attaccare sfruttandola non sarebbe servito a niente, perché il nemico aveva già dimostrato di poterla percepire. Si ritornava al piano originario: sfruttare la velocità. Mentre correva verso il nemico, l’Illuminato si ritrovò a considerare di averlo sottovalutato. Aveva già sentito parlare del potere psichico chiamato "Da Krunch": gli Orketti lo usavano per creare il simulacro di un enorme piede, che credevano appartenere a una delle loro divinità. Mork, o forse Gork, Charles non ci capiva molto: sembrava che i pelleverde fossero gli unici esseri viventi in tutta la Galassia a cogliere qualche differenza tra queste due figure dei loro miti. Più che altro, si sorprese della perspicacia di quel particolare pelleverde, che doveva aver previsto fin dall’inizio l’attacco alle spalle, dato che non poteva certo aver percepito la sua aura a causa dell’aegis suit. Possibile che avesse carpito il suo stile di combattimento solo dopo averne visto qualche movimento? Decise di lasciar perdere le congetture stupide e di concentrarsi sullo scontro.

Ecco, il suo nemico era davanti a lui. Era evidente che non riuscisse a seguire la sua velocità, altrimenti avrebbe tentato di tenere il passo con i suoi movimenti, anziché restare lì con l’ascia in mano, come ad attendere la morte. Stavolta, pensò Charles, non sarebbe stato un attacco alle spalle. Prima avrebbe colpito il manico dell’ascia per abbassarla, poi avrebbe tagliato la gola dell’Orketto con un rapido movimento dell’altra mano. Entrò nella nube di polvere, che non si era ancora diradata. Sarebbe stata questione di un attimo. Tutto si svolse come al rallentatore: Cherles colpì l’ascia di Gutzmaak con l’artiglio destro, facendola calare. Poi, vibrò veloce il sinistro, mirando al collo. E colpì. Si bloccò di scatto sorridendo e portò l’artiglio più vicino agli occhi. Volle scappare, ma era già troppo tardi. Infilzato sulle unghie di metallo c’era il cappello del pelleverde. Prima ancora che l’Illuminato potesse identificarlo chiaramente, sentì i suoi stessi intestini che gli scivolavano fuori dalla pancia. Cadde in ginocchio. E vide. L’Orketto era nel solco lasciato dal colpo del Da Krunch. Un solco poco profondo, neanche mezzo metro. Ma era quanto bastava per impedire che il preciso fendente dell’Illuminato colpisse nel segno: il pelleverde si era messo proprio davanti a quel dislivello e ci si era lasciato cadere appena Charles gli aveva toccato l’ascia. Anzi, doveva essere stato proprio quello il segnale che lo aveva avvertito della posizione del nemico, ancor più del movimento della polvere. Ecco perché aveva alzato l’arma davanti a sé. Da quella sua nuova posizione, l’umanoide doveva aver trovato molto facile tagliargli il ventre con un colpo della sua lama sporca di polvere e ruggine.

Mentre un fiotto di sangue gli fuoriusciva dalla bocca, Charles picchiò un pugno per terra: era stato sconfitto solo a causa della propria stupidità. Aveva sottovalutato l’avversario fin dall’inizio del combattimento. Fece in tempo a rendersene conto. Poi, l’oblio lo inghiottì.

 

Con un sorriso da Orketto sulle labbra, quel tipo di sorrisi che gli umani scambiavano per gesti minacciosi a causa delle zanne che mettevano in mostra, Gutzmaak trotterellò allegramente fino a portarsi fuori dal polverone. Fece roteare l’ascia sopra la testa in un gesto di pura euforia, quasi a voler dare sfogo alla esaltazione per la vittoria. Impiegò qualche secondo ad accorgersi della persona che gli stava davanti. Una delle umane in armatura. Quella bionda.

Alexandra squadrò Gutzmaak pensosamente. Aveva battuto quel tizio conducendo un buon combattimento, dando prova di una certa astuzia animale, della quale gli Orketti erano spesso ampiamente dotati. Fece qualche passo verso quello che stava per diventare il suo avversario: "In teoria, il mio scopo sarebbe solo recuperare il pezzo di carne di quel demone," esordì "ma purtroppo non posso lasciarti andare nemmeno se accetti di cedermelo. Nonostante la cosa non mi entusiasmi, ti dovrò uccidere, visto che conosci la mia identità".

Il pezzo di carne dell’umanoide? Gutzmaak passò una decina di secondi abbondante a chiedersi a cosa si riferisse l’umana. Poi si ricordò: era quello che aveva preso lui e che adesso doveva essere ancora addosso al tizio con gli artigli. A dire la verità, non gli importava più di tanto di quell’affare, però non voleva lasciarsi sfuggire la possibilità di combattere ancora. Sogghignò e puntò l’ascia contro la ragazza.

 

Un tonfo. Sia Gutzmaak che Alexandra lo sentirono chiaramente, anche se, in un primo momento, non capirono da dove arrivasse. Un altro tonfo, seguito subito dopo da un ulteriore tonfo. Il rumore si ripeté ancora, e stavolta i due psyker vi colsero un ritmo insolito e familiare al tempo stesso. Non solo. Capirono che proveniva dal titano in armatura viola in piedi a pochi metri da loro. Capirono di non averlo sentito, ma percepito: era stato il frutto di un’emanazione psichica, non di un’azione fisica. Di nuovo. E di nuovo. I tonfi aumentarono sempre più di frequenza e intensità e adesso il loro ritmo era chiaramente distinguibile: era quello di un cuore che battesse.

Con un ringhio sordo, l’unità Evangelion 01 spaccò l’armatura facciale e spalancò la bocca.

 

Logan inchiodò, facendo scivolare la jeep sulla strada, lasciando due dita di pneumatici sull’asfalto. Era quasi arrivato alla capitale, ma questo imprevisto lo aveva fermato all’improvviso. Si mise in piedi sul sedile e guardò verso il deserto, senza sapere nemmeno lui cosa stesse cercando. "Ma si può sapere cosa ti prende?", si lamentò Erin ricomponendosi, dopo che l’improvvisa frenata le aveva quasi fatto sbattere la faccia sul cruscotto. "Sento un’aura mostruosa provenire dal deserto", mormorò il ragazzo cupo in viso. "Non può essere l’Orketto, e nemmeno l’Eldar. A questo punto, resta una sola alternativa…..".

 

Skaim – Zaim restò quasi atterrito dalla vista che gli si stava presentando davanti. Aveva percepito l’aura di Gutzmaak in pieno combattimento e aveva visto da lontano il Da Krunch che si abbatteva sul terreno. Si era diretto verso il luogo dello scontro, che era la vallata in cui era stato trovato lo 01, vicinissima alla scarpata dove aveva appena affrontato il cecchino.

E non si sarebbe mai aspettato di vedere quello che vide. L’Evangelion 01, in piedi, con la bocca spalancata verso il cielo, ringhiava come una bestia in gabbia, mentre un’aura di una potenza inaudita si sprigionava dal suo corpo, alzando nuvole di polvere per tutta la vallata. Ma la cosa che più lo colpì fu un’altra. Dalla schiena dell’Eva spuntavano delle strane appendici luminose, che si estendevano per decine e decine di metri, pur senza causare alcun apparente sbilanciamento alla creatura. Skaim – Zaim capì cosa fossero solo a una seconda occhiata: erano dodici ali di pura energia.

  
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