Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: Dragana    15/01/2011    12 recensioni
"Hanno designato Volterra come loro dimora, vi si sono stabiliti con le loro mogli, hanno istituito il loro corpo di guardia e dalla cima del loro monte vigilano sul mondo."
Disordinata raccolta di one-shot sui Volturi e le loro guardie.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aro, Jane, Renata, Sulpicia, Volturi
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

GARBINO, GATTI E NURAGHE

“L’amore è tutto intorno a te”

Renata aveva sempre avuto dei gatti, da umana.
Anzi, nell’ultimo periodo della sua vita aveva avuto solo dei gatti; li ricordava aggirarsi nella casa vuota, strusciarsi sulle sue caviglie, spezzare ogni tanto il silenzio con un miagolio o con un suono di fusa soddisfatte. Le mancavano, erano l’unica cosa che le mancava della sua vita mortale: non la fame, il battito del cuore, freddo caldo sonno e dolore. Solo i gatti.
Conosceva un vampiro che aveva dei gatti. Attualmente il suo rifugio era un casolare diroccato vicino alla pineta di Classe; fiero delle proprie origini romagnole non si spostava mai dalle provincie delle sue terre e nei vari traslochi portava sempre con sé almeno qualche gatto, che fondava una nuova colonia di randagi nel giro di pochi anni.
Il suo nome era Pio Bracci e si faceva chiamare Il Garbino, come un vento. Un vento fastidioso, caldo umido, a raffiche, che “fa uscire di testa i matti e taglia le gambe”, spiegava con un certo orgoglio. Era un essere lunatico e violento ("taglia le gambe" non era esattamente una metafora, nel suo caso), ma se gli piaceva qualcuno gli era fedele per sempre ed Aro gli piaceva moltissimo. Tecnicamente non era un membro della guardia perché, da buon romagnolo, odiava la sola idea di dover obbedire agli ordini di qualcuno; in pratica, da buon romagnolo, appena gli si chiedeva qualcosa faceva tutto ciò che era in suo potere per essere utile. Perciò Aro chiedeva e lui eseguiva; tutto sommato non era male, se non ti trovavi dalla parte sbagliata dei suoi denti, e poi aveva i gatti.
-Ciò, burdèla, ma i gatti non sono mica come i cani, che sono troppo abituati all’uomo per abituarsi a noi, o come i gazotti, che sono troppo selvatici e c’hanno paura; loro sono mezzo e mezzo come i vampiri-, le aveva detto una volta Il Garbino rispondendo alle sue perplessità. –Te il gatto lo devi prendere da piccolo, così si abitua: lo sa che sei pericoloso ma sa che non sei pericoloso con lui, gli dai da mangiare e per il resto si arrangia; quando fa i gattini gli insegna lui che non devono avere paura di te. E i gattini lo insegnano ai loro gattini e via via, e alla fine hai tutti ‘sti gatti che hanno il loro territorio dove non ci va nessuno a rompergli le palle e girano guardando dall’alto in basso gli altri animali che hanno paura di te. Ti portano anche i topi per regalo dal gran che ti vogliono bene. Se vuoi te lo regalo io, un gattino, se il tuo capo te lo lascia tenere: la Bianchina ne ha appena fatti quattro!-
Renata aveva declinato, ringraziando.

Qualche giorno dopo, sull’aereo privato dei Volturi diretto all’aeroporto di Olbia, Aro le aveva chiesto perché mai non avesse accettato il gattino; -Non avevi certo timore che io non te lo lasciassi tenere, vero, tesoruccio?-
Renata non aveva avuto bisogno di rispondergli.
Lei non temeva un diniego da parte di Aro; temeva che non ci sarebbe riuscita. Ad addomesticare il gattino, a farlo affezionare a lei; aveva paura del giorno in cui il gatto l’avrebbe abbandonata. Ci sono esseri che hanno bisogno di qualcuno di speciale per essere addomesticati e lei non si era mai sentita particolarmente speciale.
Ogni volta che Aro doveva (o meglio, acconsentiva a) spostarsi da Volterra, anche di poco, pretendeva sempre di fissare gli incontri con i suoi alleati in luoghi d’interesse storico o culturale; sosteneva che non c’era ragione di non unire l’utile al dilettevole e che per mettere a punto faccia a faccia i cavilli di un accordo era molto meglio un nuraghe di una squallida sala d’albergo. Il probabile futuro alleato l’aveva saggiamente assecondato.
Demetri era già in zona da qualche giorno per assicurarsi in incognito che gli alleati non stessero preparando loro qualche scherzo sgradito; Jane, Alec e altre cinque guardie accompagnavano Aro in qualità di testimoni dell’accordo e lei, al solito posto dietro al suo signore, guardava la sua terra d’origine avvicinarsi sempre più all’aereo. Inizio di settembre di vento e sole, di acquazzoni che se ne andavano veloci com’erano venuti; Renata sentiva l’odore della Sardegna perfino nel breve tragitto dall’aereo alla loro auto.
Non sarebbe voluta arrivare in auto al sito nuragico di Cabu Abbas; sarebbe voluta arrivarci a piedi, arrampicarsi sopra la città di Olbia e percorrere la strada tra le montagne, saltando tra le rocce bianche e la vegetazione brulla. Avrebbe voluto sentire sulla pelle le gocce di quell’acquazzone che scrosciava sui vetri dell’auto, riabituarsi a poco a poco ai colori e ai paesaggi della sua terra.
Dopo un’ultima salita le auto si fermarono in un piccolo spiazzo; non c’erano turisti, forse perché pioveva o più probabilmente perché Aro aveva deciso che non ce ne dovessero essere. Le sembrava ancora assurdo che esistesse gente che pagava per vedere i nuraghi o per sopportare il vento, il sole e la sabbia delle spiagge. Si tirò su il cappuccio scuro di malavoglia; avrebbe preferito che la pioggia le inzuppasse i capelli. Seguì il suo signore su per la ripida erta che portava alla cima del colle.

-Non trovate che questo paesaggio sia così meravigliosamente suggestivo? Sapete, ho studiato il luogo prima di portarvi tutti qui: vedete questa fortificazione?-
Aro fece un gesto teatrale, sfruttando le raffiche di vento che facevano svolazzare il suo mantello nero. Indicò i tratti di muro a secco che circondavano come una corona la cima dell’altura e il nuraghe vero e proprio sul quale si trovavano, incastonato nel punto più alto della collina.
-Sapete cosa temevano le tribù che tremila anni fa hanno fatto questo? Non gli attacchi dal mare, affatto. Temevano gli attacchi da terra da parte delle altre tribù. Vi ho dato appuntamento qui, mio carissimo alleato, affinché voi ricordiate sempre che i Volturi non amano gli attacchi da terra.-
L’interlocutore di Aro annuì come a dare ad intendere che aveva capito l’antifona. Era un uomo di poche parole; molto probabilmente sardo anche lui, considerò Renata.
Aro rise per stemperare la tensione, poi continuò a parlare.
-Naturalmente non amiamo neanche gli attacchi dal mare, ma ce ne facciamo una ragione. Quelli da terra invece proprio no. I Volturi non sono pocos, locos y mal unidos, al contrario! Forse un po’ pazzi, questo lo concedo… ma siamo tanti e molto, molto uniti, vero tesorucci?-
Renata sorrise tra sé; l’avevano detto gli spagnoli che i sardi sono “pocos, locos y mal unidos”. E se quel giorno lei era lì lo doveva anche ad uno spagnolo.
Si guardò intorno; lasciò spaziare lo sguardo sul paesaggio, sulle rocce bianche, sul porto di Olbia. Lo riportò sulla muraglia difensiva che circondava da tremila anni la cima della collina, a difendere il nuraghe dagli attacchi provenienti non dal mare ma da terra, dalle sue stesse genti poche, pazze e divise.
Lei era come il muro di quel nuraghe, proteggeva chi c’era dentro dai pochi vampiri pazzi e divisi, e anche di fronte a quelli numerosi, lucidi e uniti faceva egregiamente il suo lavoro. Intorno a lei c’era tutto il mondo, mari e monti. Per uno che l’aveva abbandonata c’erano quelli che le stavano accanto un giorno dopo l’altro, quelli a cui lei voleva stare accanto e che proteggeva.
Mentre Aro per suggellare l’accordo stringeva la mano all’alleato, risultava contento di ciò che vi trovava ed annuiva, Renata decise che era proprio ora di prendersi un gatto.

Tornò dal Garbino, che era sempre contento di vedere Aro o qualcuno del suo entourage e di accompagnarli anche fino a Forks. In quella missione Aro l’aveva infiltrato tra i testimoni perché sapeva che gli faceva piacere, perché tenesse d’occhio le loro reazioni e per un altro suo personale motivo di divertimento: Il Garbino pensava esclusivamente in dialetto romagnolo. E per quante lingue conoscesse Edward Cullen, il dialetto romagnolo non era tra queste.
Si rivolgeva in dialetto a tutti tranne che a coloro i quali, pur avendo il grave handicap di non essere nati in Romagna, gli erano simpatici e perciò meritavano lo sforzo di un idioma comprensibile. Chiamava Renata “la mi bela burdèla”.
La chiamò così anche quando lei gli chiese se l’offerta del gatto era ancora valida e per tutta risposta lui entrò nel casolare diroccato. Ne uscì con un gattino completamente bianco dal pelo un po’ lungo del tipo che, Renata lo sapeva con certezza, lasciano peli attaccati ovunque e in particolare sui mantelli di colore scuro. Gli sollevò la coda, poi scosse la testa.
-Credo che sia una femmina. Però l’è znìn, non si capisce. Potrebbe anche essere maschio.-
Glielo tese e il gattino appiattì le orecchie e soffiò, poi cominciò a miagolare impaurito.
-Cominciamo bene…-, sospirò lei scoraggiata. Il Garbino si accigliò.
–Alóra tan capèss, burdèla. Dacci da mangiare un po’ di volte e poi vedi le fusa che ti fa, son ruffiani questi bastardi, ciò! Adesso scusa ma devo andare a fare un lavoro-, le disse mollandole il gatto tra le braccia, che cercò invano di graffiare la sua pelle impossibile da scalfire.
Lo vide caricare alcune taniche di benzina sulla sua Ape Piaggio scassata.
-Dentro ho un frigor con della roba, comincia già a dargliela. Tante cose, burdèla, e saluta il tuo capo!- le gridò. In effetti, grazie alle scorte del Garbino, già all’arrivo a Volterra il gattino si era azzardato ad annusare circospetto il suo dito indice. Ruffiano bastardo, pensò Renata soddisfatta.

E già la settimana dopo le faceva le fusa e sopportava la vista di Felix, Chelsea e Afton senza soffiare. Non gli aveva dato un nome, aveva sempre avuto la convinzione che i gatti odiassero farsi dare nomi, e comunque non aveva ancora capito se fosse maschio o femmina. In compenso Chelsea la chiamava Luna per via del suo colore, mentre Felix asseriva che ci voleva un nome sardo e Pusceddu sarebbe stato adattissimo per un gatto; una volta aveva persino scorto Alec che provava a farsi avvicinare fischiando e chiamandolo “Vexen”, ma senza risultati apprezzabili.
-Guarda che se viene Sant’Inverno ti devi ricordare di nasconderlo prima che se lo mangi-, disse Felix per la trecentesima volta (Sant’Inverno era Carlisle Cullen. Felix aveva mutuato quel soprannome dal personaggio di un libro, che fosse dannato se si ricordava che libro era). Afton guardava il gatto come se lo vedesse già morto; -Quelli vivono pochissimo, quindi non ti ci affezionare-, le aveva detto.
-Come mai ti sei finalmente decisa a tenerti un gatto?- le chiese Chelsea, che stava immobile da mezz’ora con l’indice teso nella tenue speranza che Luna Pusceddu si decidesse ad avvicinarsi.
-Perché durante la missione ho capito una cosa: ho capito che l’amore è dappertutto, ma lo cercavo fuori da me. L’amore è ovunque, ma ho bisogno di occhi per vederlo-. Sollevò il gattino che miagolò debolmente. –l’amore è tutto intorno a te!-
Chelsea rise scuotendo la testa alla rivelazione che per una col suo potere suonava come la scoperta dell’acqua calda; Felix non trovò di meglio che aggiungere: –Vodafone- con voce impostata, mentre Afton la guardò in modo strano e incrociò le braccia.
-Io avevo capito che era una missione diplomatica-, commentò.













Note: “Romagna e sangioveseeee/ sei sempre nel mio cuoreeee…” ah, dì, ciò, volevo mettere un romagnolo perché io sono romagnola. Classe è un paese vicino a Ravenna: presente la basilica di Sant’Apollinare in Classe? Ecco, è lì.
Il garbino sarebbe, in dialetto romagnolo, il vento di libeccio, e quando soffia fa davvero uscire di testa. Volete un comodo dizionario italiano-romagnolo? Pronti: “la mi bela burdèla” significa “la mia bella bambina” (sì, il mio papà me lo dice. No comment…), i “gazotti” sono gli uccellini, “l’è znìn” vuol dire “è piccolo” e “tan capèss” “non capisci”. Tutto il resto è slang, ma si dovrebbe capire abbastanza bene. Il riferimento a Forks era perchè immagino che tra i testimoni che i Volturi si erano portati ci fosse qualche infiltrato fedele al clan, e immaginavo che sarebbe stato buffo qualcuno che sfotteva i Cullen in dialetto; detto fatto.
Ed ora passiamo alla Sardegna. Il complesso nuragico di Cabu Abbas esiste (non visitatelo con amici poco portati per l’archeologia che vi dicono “tutta questa fatica per un muro?”, farli volare giù dal monte è fin troppo facile e la tentazione è fortissima), come anche il detto spagnolo che i sardi fossero “pocos, locos y mal unidos”, ossia "pochi, pazzi e divisi".
Terzo amore: i gatti. Perché Renata doveva avere un gatto, e così gliel’ho fornito. Luna Pusceddu è il nome del mio. Giuro. Sostituite Chelsea a me e Felix a mio fratello ed avrete i motivi esatti di questo nome cretino; attualmente è un vecchietto, è sopravvissuto ad una situazione critica nonostante la veterinaria ci avesse detto che dovevamo prepararci a salutarlo ed è ancora con noi, acido, rompicoglioni, selvatico ed adorabile come è sempre stato.
Il libro in cui c’è Sant’Inverno è “La prosivendola” di Pennac. Vexen è il personaggio di un videogioco a cui io non ho giocato ma Alec sì.

Un GRAZIE cumulativo a tutti, e tante tante fusa!

   
 
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Dragana