Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ISTINTO ANIMALE
E
ascoltava quella musica, estasiata e
contenta, e anche se in quel periodo aveva molto sofferto, quella
melodia le
ricordava quanto era stata bene prima del suo periodo
“buio”. A quanto era
stata bene quando c’era lui. Quella canzone glielo ricordava
in ogni nota, in
ogni strofa c’era una parola che la riportasse a lui e al
ricordo di lui e al
suo odore.
Adorava quando lui le si sedeva accanto e
iniziava ad accarezzarla. E lei sentiva di essere felice. Con lui era
felice.
E ascoltava quella canzone e ripensava quando
lui arrivava stanco dal lavoro e lei gli andava incontro, lo salutava
sulla
porta e lui le sorrideva, la coccolava un po’, poi andava a
farsi una doccia e
caricava nel giradischi proprio quella canzone che, adesso, era solo
portatrice
di ricordi. La stessa che lei stava ascoltando adesso. Ma senza di lui.
Lei a volte pensava che il loro era un amore
impossibile. Si fissava per giorni su quel pensiero e non lo lasciava
più.
Soltanto a sera, quando lui rientrava in casa
e, stanco, le preparava la cena, capiva che quel sentimento leggero e
felice non poteva che essere amore. Si sentiva amata. E ne era felice.
E lui,
la sera, davanti la televisione, le si sedeva accanto. Sempre nello
stesso
punto. Per tre anni di felicissima convivenza.
Il loro rapporto non implicava grandissimi cambiamenti da un giorno
all’altro. Erano sempre gli stessi. Ripetevano pressappoco
gli stessi movimenti
tutti i giorni. Ma non diventò mai un’abitudine.
Non divennero mai
un’abitudine, l’uno per l’altra.
Poi
una sera lui le aveva parlato come non
aveva mai parlato prima. E le aveva detto che era l’unica
felicità della sua
vita, e anche se tutto, là fuori, faceva schifo –
disse, indicando la finestra
semiaperta -, lui stava bene lì dentro, e questo gli
bastava. Poi scoppiò in
lacrime. E lei gli si avvicinò. E cercò di
consolarlo, quanto più ne fosse
capace. Ma non era brava a comunicare con lui, in questi momenti.
Sapeva
comunicargli l’amore, la gratitudine, ma non sapeva
condividere con lui il
dolore. E non sapeva neppure alleviare quell’angoscia che
viveva dentro il suo
amato. Poi lui l’accarezzò e si chiese con chi
stesse parlando. Poi si alzò dal
divano. Lei lo rincorse. Voleva spiegazioni per quella frase tagliente
e
cattiva. Ma lui prese le chiavi di casa dal cesto
dell’ingresso, uscì di casa e
richiuse la porta con veemenza.
E lei pianse. E si arrabbiò. Ma si
arrabbiò con
se stessa. Perché non era capace di alleviare i dolori del
suo uomo. Non ne era
capace. Non poteva proprio fare di più di ciò che
faceva. Ma lo amava. Avrebbe
dato qualsiasi cosa per vederlo felice. Sapeva di non essere
“quella giusta”
per lui, erano troppo diversi, ma lo amava, e quando
c’è di mezzo un amore
folle e incondizionato, - pensava - allora crollano tutti i preconcetti
sulla coppia
e le caratteristiche affini o meno dei
due amanti. Credeva questo lei, raggomitolata su se stessa. Chiusa
dentro se
stessa. Ne era convinta. E lo amava.
Poi
lui era tornato a casa, tardi. Era triste e arrabbiato
e stanco. Quando era entrato in casa lei gli era andata incontro. Ma
lui le
aveva detto di togliersi dai piedi e di smetterla di piagnucolare. E
allora lei
aveva insistito – avrebbe tanto voluto che lui accettasse il
suo sebben piccolo
conforto – e lui le aveva dato un calcio fortissimo, che le
tolse il fiato e la
scaraventò vicino la porta della cucina. Aveva male, ma si
rialzò e lo seguì di
là, in camera da letto. E lui non la guardò
neppure, quando lei entrò nella
stanza. Ma lei fece sentire la sua voce. Bisbigliò qualcosa
che lui non capì.
Non la capiva quasi mai. Ma lei continuava ad amarlo.
E allora lui estrasse una pistola dal cassetto
del comò e se la puntò alla tempia. E lei non
sapeva cosa fare. Lui si accomodò
sul letto, tranquillo, lei gli si precipitò accanto. In quel
momento desiderò
che lui la uccidesse prima di uccidere se stesso. Non voleva vedere la
morte
del suo uomo.
Ma la vide.
Il
colpo fu forte. Fortissimo. Si spaventò,
vide il sangue. Sentì che lui non respirava già
più. E gli si accoccolò accanto. E
stette lì, ferma.
E passò la notte accanto a quel corpo gelido e privo di ogni
emozione, come,
una volta, passava la notte accanto un corpo caldo e protettivo. E
rimase
accanto a lui. E desiderò ancora di poter morire accanto a
lui.
L’indomani furono trovati dalla vicina. Che
chiamò subito la polizia. Poi la vicina la prese e la
portò via dal suo uomo.
Lei cercò di divincolarsi per restare accanto a lui, la
graffiò, ma alla fine
cedette.
E adesso
era, triste, seduta sul davanzale della finestra a ricordare la propria
storia.
E a ricordare quanto amasse quell’uomo. E quella canzone si
faceva sempre più
insistente e arrogante nel suo ruolo di ambasciatrice, nel presente, di
momenti
passati. Era stata ospitata dalla vicina che l’aveva trovata,
quella mattina,
insanguinata, sul letto. E l’aveva lavata, quella stessa
mattina, ma il sangue
non voleva venir via. Aveva ancora una piccola macchia di sangue dietro
l’orecchio. E ne era gelosa. Poi la vicina la
chiamò. “Micia, è pronta la
pappa”. E lei si diresse verso quella cucina odorosa di
pesce, alzando la coda
in segno di gratitudine.
La canzone , intanto, era già finita.